
L’ ultimo articolo che Antonio Juvarra ci ha inviato prima della pausa estiva è la parte iniziale di uno studio sul corretto uso della vocale A nel canto lirico.
VITA, AVVENTURE E MORTE DELLA VOCALE ‘A’ NEL CANTO LIRICO
(prima parte)
Un mistero attraversa la storia del canto e ha come protagonista (e vittima) quella vocale primigenia (e innocua) che è la ‘A’. Da regina delle vocali, quale era considerata (per i motivi che vedremo più avanti) nel periodo del belcanto, la ‘A’ cade in disgrazia nell’ Ottocento, diventa (per opera della foniatria francese dell’ Ottocento) da regina che era, reietta se non addirittura diabolus (o diabola) in voce e seguendo il destino del sorriso (abolito scientificamente in quanto “contrario alle leggi acustiche” (?!) da Mathilde Marchesi nel 1885), la povera ‘A’ è costretta, per sopravvivere, a mimetizzarsi come surrogato della ‘O’: insomma da alfa è declassata ad omega ovvero da prima lettera dell’ alfabeto (greco) diventa l’ ultima. A questo punto viene naturale chiedersi: e il famoso principio di Tullio Serafin “tutte le vocali hanno diritto alla vita” che fine ha fatto? Semplice: è stato corretto in “tutte le vocali hanno diritto alla vita, previa licenza, rilasciata dalla Scienza”. Il risultato del nuovo dogma della ‘A’ deturpata ‘scientificamente’ in ‘AO’ sono le bocche spalancate verticalmente in modalità “scream”, che oggi vediamo stampate nelle facce di moltissimi cantanti, facce ormai sciaguratamente associate in maniera indelebile al canto cosiddetto ‘lirico’.
Disse una volta una vox clamans in deserto, quella di Giuseppe Di Stefano:
“Mentre canti, devi avere in mente la vocale pura, bella. Non puoi dire:“Io t’ omo”; devi dire:“Io t’ amo”. Se pensi “io t’ amo”, la natura ti aiuta: ti aiuta col fiato e coi muscoli. Se invece pensi “io t’ omo”, allora vai contro natura.”
Ciò che i moderni (fanta)scienziati del canto non hanno ancora capito, è che quell’ “avere in mente la vocale pura, bella” (sinonimi), di cui parlava Di Stefano, non significa evadere nelle fantasie platoniche, ma individuare con precisione (questa sì scientifica) la vera prima causa del suono cantato e parlato, prima causa rappresentata dal concepimento pre-razionale e immediato del suono.
Nel dire questo, Di Stefano si ricollegava all’ antica scuola di canto italiana, che appunto nel concepimento mentale del suono puro (che significa concepimento mentale della vocale pura) aveva sempre individuato la genesi del suono cantato di alto livello, così come nel concepimento mentale dell’ altezza tonale di una determinata nota sta la genesi della sua perfetta intonazione. Farneticare infatti, al contrario, che la ‘A’ a una certa altezza non può più essere concepita come ‘A’, ma deve essere concepita come ‘AO’ è esattamente come teorizzare che a una certa altezza il Do non può più essere concepito come Do, ma deve essere concepito mentalmente come Do diesis, e questi sono le strabilianti trovate logiche, prodotte dalla cosiddetta ‘scienza del canto’.
Per la verità alla stessa verità, intuita dal belcanto, si arriverebbe anche rimanendo sul terreno della scienza, ma adottando una piccola precauzione: passare dai ferrivecchi scientifici ottocenteschi degli stampini muscolari prefissati, alla scienza moderna del ‘principio di non località’. Questa scienza ad esempio ci insegna, per bocca del fisico nucleare Wolfgang Pauli (premio Nobel 1945), che “le immagini originarie, ‘archetipiche’ che la mente percepisce grazie a un ‘istinto’ innato, svolgono la funzione di principi ordinatori e formativi”, e nel canto, per l’ appunto, le vocali, concepite come pure (e non geneticamente modificate), rappresentano propriamente un esempio di queste immagini mentali originarie e archetipiche, che fanno da DNA della forma dello spazio di risonanza di ciascuna vocale. Per di più, nella vocale ‘A’ il belcanto non aveva mai visto un problema, ma sempre e solo un piacere e si sa che il pensiero classico considerava il piacere come il segno con cui si manifesta la verità e la bellezza (endiadi). In questo senso è come se il belcanto, condividendo il naturalismo pragmatico di quell’ enciclopedista che ebbe a definire il seno “strumento di alimentazione e di piacere”, avesse sempre, analogamente concepito le vocali e le parole del canto come ‘strumenti di comunicazione e di piacere’. Solo i fautori dell’ affondo infatti sono riusciti, con eroico sprezzo del ridicolo, a partorire l’ obbrobrio (vocale e concettuale) del suono brutto e affondato come matrice del suono bello.
Purtroppo nel ribadire questo principio basilare del vero belcanto, Di Stefano non aveva tenuto conto di un problema: che la maggior parte dei cantanti ormai aveva fatto propria l’equazione farlocca ‘vocale pura = suono schiacciato’. E neppure sospettava che proprio lui (ironia della sorte) era stato individuato come esempio (negativo) dei suoni schiacciati perché ‘aperti’. Non importa che a ribadire lo stesso principio fosse stato prima di lui, come vedremo, un cantante del calibro di Beniamino Gigli, a cui nessun maestrino (passato e presente) di canto pseudolirico ha mai osato (per fortuna) rimproverare di aver cantato facendo suoni ‘aperti’. Ormai nelle menti della maggior parte dei cantanti e dei melomani si era impressa indelebilmente questa panzana ‘scientifica’ e si sa che quando c’ è di mezzo la ‘scienza’, anche gli atei e gli agnostici si mettono devotamente in ginocchio ad adorare questo moderno “idolo della tribù”.
Tra le ‘devote’ alle teorie farlocche della foniatria, da lei scambiate clamorosamente per belcanto (?!), troviamo anche Raina Kabaivanska, sostenitrice della teoria (antibelcantistica) di Garcia figlio, secondo cui nel canto la ‘A’ deve essere pronunciata ‘AO’, la ‘E’ va pronunciata ‘OE’ e la ‘I’ ‘Y’, che è uno dei modi più usati per scurire artificialmente il suono allo scopo di arrotondarlo, ma col risultato deprecabile di intubarlo. In un’ intervista di qualche anno fa la Kabaivanska raccontava di aver sempre idolatrato Maria Callas fin da quando studiava canto in Bulgaria, di averla sempre considerata il modello della giusta tecnica vocale e di avere avuto un giorno la fortuna di incontrarla personalmente in un allestimento a Torino dei Vespri Siciliani, di cui la Callas curava la regia. In quell’ occasione la Callas chiese alla Kabaivanska perché scuriva così la voce, confessandole che era stato proprio per essere caduta in quello stesso errore che lei aveva dovuto smettere di cantare. Ebbene, invece di far tesoro dell’ esperienza della Callas, la Kabaivanska non ne tenne minimamente conto, suscitando così (come lei stessa riferisce) un enorme dispiacere nella Callas, e il motivo per cui non ascoltò il suo consiglio (come rivela sempre la Kabaivanska), è (incredibilmente) il seguente. Durante il suo ultimo periodo di attività artistica la Callas frequentava molto Giuseppe Di Stefano, con cui fece diversi concerti. La Kabaivanska ne dedusse quindi che in realtà il motivo per cui la Callas era andata fuori strada dal punto di vista tecnico-vocale, non era perché aveva scurito la voce, ma perché, al contrario, aveva imitato Di Stefano nell’ ‘aprire’ i suoni (leggasi: nel concepire pure e non adulterate le vocali).
In sostanza, tra la spiegazione, datale dalla Callas in persona, della vera causa della propria deviazione tecnico-vocale, e la teoria foniatrica (farlocca) della necessità di scurire i suoni e modificare le vocali per impedire che si schiaccino, la Kabaivanska aveva deciso di dare credito alla seconda. Alla faccia della sua ammirazione per la Callas e della sua conoscenza della tecnica del belcanto, ‘conoscenza’ che poi spingerà la Kabaivanska non solo a spacciare per belcanto le vocali geneticamente modificate, ma anche a pubblicizzare espedienti elaborati da quel metodo trogloditico che è l’affondo.
Un esempio di questi espedienti è quello, illustrato dalla Kabaivanska in questo video, del vocalizzare costringendo con la mano la bocca a restare spalancata, espediente giudicato giusto dalla Kabaivanska, perché utilizzato da Franco Corelli.
Nel dare per buona questa assurdità anti-acustica, che risale a Melocchi, la Kabaivanska dimenticava però un piccolo particolare: che a farla sua non era stato il Corelli del periodo d’ oro, ma l’ ultimo Corelli, cioè il Corelli andato in crisi tecnico-vocale a causa dell’ idea, trasmessagli da Lauri Volpi, di mandare il suono ‘in maschera’. È per aver sperimentato su di sé gli effetti deleteri della “mascherazione” (sic) di Lauri Volpi, che Corelli decise per reazione di adottare il metodo (demenziale) dell’ affondo (da cui prese appunto la trovata della mano premuta sul mento per tenere aperta la bocca), col risultato però di passare dalla padella alla brace e di dover interrompere poco dopo la sua carriera nei teatri. In effetti quello dell’ affondo era un altro vicolo cieco (dopo quello della ‘maschera’), ma di questo Corelli avrebbe preso coscienza solo poco prima di morire, come testimonia il suo ultimo video, visibile su youtube e intitolato Last words on singing, dove lo sentiamo affermare che nel canto “la cosa più importante è sentirsi liberi” (altro che mandibola bloccata in basso con la mano!), che “il canto è un gioco di fiato” (idea, questa volta giusta, mutuata da Lauri Volpi), che“’la A’ scurita vuol dire pesantezza” (altro che ‘A’ mescolata con la ‘O’!), che “il metodo di Melocchi aveva funzionato solo con Del Monaco” (in realtà neanche con lui) e che i giovani dovevano starne alla larga.
D’ altra parte, per capire l’ assurdità della trovata della mandibola abbassata forzatamente per dare rotondità al suono (e incredibilmente spacciata dalla Kabaivanska per ‘alta tecnica vocale’) bastava ricordarsi di quanto aveva scritto in proposito Enrico Caruso: “Chi si intende di canto (sic) sa che la gola si apre perfettamente senza aprire vistosamente la bocca, semplicemente grazie alla respirazione.” Senza dire che già un secolo e mezzo prima di Caruso si sapeva perfettamente quello che solo Melocchi ignorava e cioè che, come scrisse Mancini nel suo trattato, “con una smoderata apertura di bocca i cantanti mai potranno avvedersi che, le fauci restando così tese, ne verrà in conseguenza tolta quella flessibilità necessaria per dare alla voce la natural chiarezza e facilità. Quindi, se resta inemendata nello scolaro siffatta situazione di bocca, canterà il poverino, ma sempre con una voce AFFOGATA, cruda e PESANTE.”
Sul dilemma ‘scurire o non scurire le vocali’ molti (sia insegnanti di canto sia melomani) hanno dato ragione alla Kabaivanska, adducendo come motivazione il fatto che comunque lei, scurendo i suoni, aveva conservato la voce fino a tarda età, a differenza della Callas. La logica che è alla base di questa argomentazione è ovviamente la stessa di chi affermasse che fumare non fa male, perché molti fumatori sono arrivati tranquillamente all’ età di novant’ anni, al contrario di molti non fumatori, morti a quaranta. Certamente la Kabaivanska, al contrario della Callas, ha continuato a cantare fino a tarda età, ma in un modo non propriamente esemplare, che è conseguenza non solo dell’ età, ma sicuramente anche delle teorie dell’ oscuramento del suono e delle vocali geneticamente modificate, col risultato di intubare la voce e introdurre col tempo nell’ emissione un vistoso ballamento della voce. Ma già prima di arrivare a questo livello, la Kabaivanska aveva dato segni evidenti degli effetti negativi di queste teorie, come dimostra un suo concerto del 1991 con Pavarotti (suo coetaneo). In quell’ occasione, osservando il modo di cantare di Pavarotti e confrontandolo col suo, nella mente della Kabaivanska avrebbe dovuto accendersi una lampadina: che la storiella a cui aveva sempre creduto, cioè quella, fatta circolare degli epigoni di Garcia, secondo cui se non si scuriscono e non si mescolano le vocali, si schiaccerebbero i suoni, era ed è semplicemente una fandonia, totalmente estranea al vero belcanto. e a dargliene la dimostrazione vivente, cantando assieme a lei, anzi ‘in faccia’ a lei, era proprio il suo partner di quel concerto: Luciano Pavarotti.
Guardando e ascoltando questo video, chiunque non abbia le orecchie otturate dai pregiudizi e dalle fissazioni dei melomani da stadio di calcio e, soprattutto, sia in grado di distinguere il suono puro dal suono distorto, sentirà che tra la tecnica vocale della Kabaivanska e quella di Pavarotti (ammiratore, non a caso, di Di Stefano) c’ è non dico un abisso, ma una distanza notevole. La tecnica vocale di Pavarotti è infatti quella, italiana, delle vocali pure e della naturalezza di emissione, tecnica che già era stata predicata e applicata in maniera esemplare da Beniamino Gigli, dal primo Di Stefano e, dal punto di vista teorico, anche dall’ ultimo Di Stefano. Essa include in sé anche la ‘normalità’ del viso e della bocca, cioè una bocca non trasformata in forno verticale o in imbuto. Quest’ ultima (la bocca spalancata a mo’ di forno e/o atteggiata a imbuto) è appunto la diretta conseguenza della teoria delle vocali geneticamente modificate e oscurate, fatta sua dalla Kabaivanska. La divaricazione tra le due tecniche vocali diventa particolarmente evidente a partire dal minuto 2.40 del video. Subito dopo il grottesco “stasera cOnto” (invece di ‘cAnto’) della Kabaivanska, entriamo nell’ incomprensibilità totale con la frase seguente, che avrebbe dovuto essere (ma non è stata): “È luna piena e il notturno effluvio floreal inebria il cor”, frase che rimane un rebus indecifrabile in forma di oscuro grammelot. Sorvoliamo sul “doi boschi e doi roveti” (invece che “dAi boschi e dAi roveti”) e arriviamo al “fiorite o campi immensi”, che invece che un’ invocazione panica alla natura, suona come una dichiarazione di guerra, fatta in perfetta sintonia con la faccia (truce), esibita dalla Kabaivanska in quel momento. E qui si nota un singolare fenomeno che accomuna la Kabaivanska matura con la Freni matura (altra sostenitrice delle vocali miste e delle labbra a imbuto) e il fenomeno è questo: solo cantando a mezza voce i due soprani mantengono un viso e una bocca normali e un suono limpido e morbido. Invece, in presenza di un crescendo o di un fortissimo, immediatamente la modalità fonatoria cambia, il viso di entrambe assume un’ espressione corrucciata, la bocca si apre in modo abnorme, l’ articolazione si verticalizza e fanno la loro apparizione le labbra a imbuto, mentre il suono si gonfia e diventa torbido.
Poiché il destino spesso ama essere ironico, la morale di questa storia è la seguente ed è iscritta come un beffardo promemoria nel nome stesso della sua protagonista. Il nome ‘Raina Kabaivanska’ infatti è un trionfo della vocale ‘A’, essendo composto da sei sillabe, in ognuna delle quali c’è una ‘A’. Avendo adottato la teoria secondo cui nel canto la vocale ‘A’ dovrebbe diventare un surrogato della ‘O’, la Kabaivanska è come se per ciò avesse tradito sé stessa e per prenderne coscienza avrebbe potuto semplicemente applicare la teoria di Garcia alla pronuncia del suo nome: sentendo il proprio nome trasformarsi così in un grottesco ‘Roino Koboivonsko’, avrebbe avuto una folgorazione sulla via di Damasco e subito si sarebbe ricordata delle parole (inascoltate) che un lontano giorno a Torino le aveva detto Maria Callas.
Ma come si è arrivati storicamente all’ aberrazione della ‘A’ deturpata in ‘AO’?
Da quel piacere che era per il belcanto, la vocale ‘A’ incominciò a diventare un problema, quando arrivarono i geni del ‘canto foniatrico-scientifico’, i quali introdussero nella didattica vocale la strampalata idea che certe vocali fossero, chissà perché, difettose, e le ‘corressero’ sostituendole con altre vocali, mescolate con la ‘O’. Vocali che, guarda caso, non esistono proprio in quella lingua usata dagli inventori del belcanto. In tal modo lasciavano irrisolto anche un altro mistero e cioè come i cantanti del Seicento avessero fatto a cantare tranquillamente “Amarilli, mia bella” (senza dover produrre un grottesco “Omorilli mio bello”) e come i cantanti dell’ Ottocento (anch’essi ancora ignari del ‘segreto tecnico’ del parafoniatra Garcia jr.) avessero fatto a cantare “Casta diva che inargenti” invece che “Costo divo che inorgenti”. Non solo. In tal modo i rivoluzionari del canto ‘foniatrico-scientifico’ mostravano di ignorare clamorosamente anche un altro fatto: che la vocale A, oltre a essere la vocale delle interiezioni affettive (“Ah, sì, ben mio”, “Ah, per sempre io ti perdei”, “Ah, la paterna mano” ecc.), in italiano assume una particolare importanza semantica (e quindi espressiva) perché (a differenza che nel francese, nell’ inglese e nel tedesco) nell’ italiano la ‘A’ è la desinenza che designa la differenza tra maschile e femminile, per cui introdurre nel canto un espediente ‘tecnico-vocale’ che produce come risultato il già citato mutamento di genere ‘Omorilli, mio bello’ si può definire una vera e propria bestialità ‘semantico-fonetico-acustica’. E per avere un’ ulteriore prova della natura comico-surreale della teoria della necessità di ‘correggere’ nel canto la vocale ‘A’, sostituendola con un’altra vocale, la ‘AO’ , basta pensare a questo: il suo equivalente pianistico sarebbe rappresentato dall’improvviso divieto, introdotto da un Garcia, pianista fallito, dell’ uso del dito indice della mano per suonare il pianoforte.
Nonostante queste palesi assurdità, il virus della ‘O’ incominciò a dilagare a macchia d’ olio, imprimendosi ben presto anche nelle facce dei cantanti, le cui bocche assunsero da allora le sembianze grottesche dei “mascheroni di fontana”, così come profeticamente Mancini le definì nel Settecento, avendo probabilmente avuto un giorno una visione orrenda, piombata direttamente dal futuro: la faccia di Rolando Villazon mentre canta “Io t’omo”.
Passarono gli anni e ciò che (ovviamente) accadde, fu che la gente, invece di credere a Di Stefano e alla natura (la misteriosa entità che, tra le altre cose, aveva creato anche la vocale ‘A’), continuò a credere a quel ‘diversamente cantante’, naturalizzato francese, di nome Manuel Garcia figlio, che per primo aveva incominciato a fare della ‘A’ italiana l’oggetto delle sue perversioni. In realtà se la vocale ‘A’ era diventata, improvvisamente e misteriosamente, ‘difettosa’, era solo per una precedente trovata del medesimo maestro, il quale (come il bambino scemo che, per mangiare un cono gelato, non lo avvicinò alla bocca, ma se lo stampò sulla fronte) aveva teorizzato che la ‘A’, invece di starsene tranquillamente a casa sua, cioè ‘dietro’, doveva essere portata ‘avanti’ sul palato duro, facendo in modo che, da perfettamente (e piacevolmente) eseguibile qual era stata per secoli, divenisse da allora in poi eseguibile solo previa correzione ‘scientifica’.
Fu così che ebbe inizio la storia tragicomica delle ‘vocali-surrogato’ e del ‘canto impostato’, i cui teorici tuttora amano raccontare a sé stessi la fiaba (anch’essa del tutto ignota ai belcantisti), secondo la quale anche per fare il passaggio di registro (scoperto dai belcantisti) sarebbe indispensabile la manovra (inventata dal personaggio sopra citato e prima di lui mai ritenuta necessaria) dello scurire intenzionalmente le vocali. E arrivati questo punto, non tarderà il momento in cui qualche psichiatra, amante del canto, per definire la strana sindrome pseudo-tecnica dello scurire la voce, elaborerà, giocando con la figura retorica dell’ allitterazione, un nuovo termine: la“melanomelomania” ovvero, etimologicamente e letteralmente, la ‘mania del canto annerito’ (invece che lucente).
Antonio Juvarra
(Fine della prima parte)
Scopri di più da mozart2006
Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.
