
Nel suo intervento di questo mese, Antonio Juvarra si occupa dell’ analisi di un video del tenore cileno-americano Jonathan Tetelman, ultimo prodotto dello star-system di cartapesta costruito grazie agli sforzi di una potente etichetta discografica. Alla precisa analisi di Antonio io posso aggiungere che condivido sino all’ ultima virgola ciò che scrive, perché ho ascoltato Tetelman dal vivo in un Werther del novembre scorso a Baden-Baden e l’ ho trovato semplicemente pessimo.
NUOVI PRODOTTI TECNICO-VOCALI: I TENORI TUBOLARI
L’ industria discografica, in questo caso la Deutsche Grammophon, pare abbia adottato lo stampino ‘Jonas Kaufmann’ per produrre i suoi nuovi tenori di fabbrica. Ecco così entrare in scena, dopo i vari Villazon, Cura, Bocelli ecc. un nuovo tenore di modello tubolare: Jonathan Tetelman. Il fastidio provocato da questa operazione commerciale è dato dal fatto di spacciare come divo consacrato e come rivelazione quello che una volta si sarebbe considerato, se corretti i difetti tecnico-vocali, un cantante promettente.
I requisiti scelti per selezionare e lanciare nel circo operistico il nuovo Tenore rimangono gli stessi: voce naturale buona o discreta, viso piacente, aspetto fisico giovane e prestante. Il resto, tecnica vocale compresa, diventa un semplice optional.
In questo caso la ‘dotazione’ tecnico-vocale applicata al ‘prodotto’ non è più quella italiana del belcanto, ma è quella franco-teutonica del canto foniatrico, riconoscibile esternamente dalla bocca che si apre vistosamente con ampie escursioni in verticale, dal collo irrigidito, dall’ espressione del viso tendenzialmente corrucciata, dagli occhi fissi e dai movimenti del corpo macchinosi e poco fluidi. Non importa che questo modello tecnico-vocale, di serie B rispetto al primo, produca tendenzialmente suoni stentorei e monocordi e, come risultato visivo, movenze da manichino. Questo anche quando la vittima di queste tecniche, come il tenore del video, cerca di dare al suo canto e al suo atteggiamento un tono scanzonato e leggero, mettendosi a un certo punto le mani in tasca. L’ esperto di turno si premurerà di spiegare che questi piccoli ‘inconvenienti’ (compreso il vibrato stretto, che in certi momenti si evidenzia come effetto collaterale dell’ emissione spinta) sono inevitabili in quanto dovuti al fatto che il tenore in questione appartiene alla specie rara dei tenori lirici spinti, col che dimenticando due fatti:
1 – tenori col doppio della voce di Tetelman, ad esempio Caruso, cantavano (in base alle testimonianze del tempo) con la stessa facilità e naturalezza con cui si parla, senza nessun bisogno quindi di trasformarsi, non appena toccato un La acuto, nell’ incredibile Hulk…
2 – la stessa trasformazione in tubo, con volto inespressivo e bocca verticalizzata, la notiamo anche in tenori non propriamente lirici (litote) come Bocelli.
Ricorrendo a dei video promozionali dove il cantante canta in playback, la Deutsche Grammophon fa in modo che l’effetto ‘manichino’ sparisca e l’attenzione si sposti su un bel paesaggio o su un primo piano del cantante.
Purtroppo ci sono situazioni in cui, come si suol dire, casca l’ asino, e sono quelle in cui, come nel caso di questo video, il tenore deve cantare, dal vivo e senza playback, una di quelle romanze italiane, basate su un mix di ‘canto di conversazione’, intimismo espressivo ed espansioni liriche e non sul solito truculento e monocorde pseudo-eroismo, buono per tutti gli usi tranne che per questo repertorio.
Tralasciando la situazione scenica kitsch, concepita per questo video da non si sa quale genio dell’ anti-promozione operistica come cornice della performance del tenore, è chiaro che una romanza come questa funge da perfetta cartina di tornasole che mette in evidenza tutti i limiti e le carenze di una tecnica vocale, che io definisco sinteticamente franco-teutonico-foniatrica e che è precisamente quella che, pur con le dovute distinzioni, accomuna tra loro i vari Kaufmann, Villazon e Bocelli, e che oggi sta scandalosamente soppiantando la tecnica dell’ antico (e mitico) “dolce italo cantare che nell’ anima si sente”, vero ispiratore del repertorio lirico italiano.
Questo “dolce italo cantare”, fatto di sfumature, duttilità espressiva, naturale alternanza tra intensità e dolcezza e mobilità acustica e dinamica, viene qui reso semplicemente impossibile dalla creazione di un tubo di risonanza verticale, che a sua volta determina un atteggiamento uniformemente stentoreo e vociferante, vera e propria antitesi del senso teatrale, vocale e musicale di questo momento dell’opera.
Per rendersi conto fino in fondo dello sconcertante divario esistente tra l’approccio tecnico-vocale e lo spirito della romanza interpretata, basta fare un piccolo esperimento: guardare il video, avendo preventivamente abbassato l’ audio, e chiedersi a quale situazione drammatica si addicono di più le espressioni mimico-facciali e l’ atteggiamento del corpo di Tetelman nell’ esecuzione di questa romanza: chi dicesse che si tratta di uno degli ultimi concitati e convulsi dialoghi tra Otello e Desdemona non sbaglierebbe di molto e, nel caso avesse dei dubbi, questi subito sparirebbero nel vedere (e nel sentire poi) “l’ urlo del cappone sgozzato” di Tetelman al minuto 3.39 del video.
Se già l’iniziale invito, rivolto a Mimì, “se la lasci riscaldar” non aveva niente di rassicurante e suadente, anzi sembrava un ordine, e se la domanda retorica “chi son, chi son?” suonava come una minaccia, la successiva evocazione della luna (cantata “loona”) non aveva niente di romantico, ma sembrava piuttosto una dichiarazione di guerra. Tuttavia il vero e proprio ossimoro espressivo e tecnico-vocale viene realizzato al minuto 3.39, quando sulle parole “poiché v’ ha preso stanza la speranza”, Tetelman ha il coraggio di emettere un urlo pelvico-defecatorio (tipico prodotto delle moderne tecniche vocali ‘atletiche’), che fa letteralmente a pugni col senso delle parole cantate e che sarebbe giustificato solo se, nel cantare la parola “speranza”, a Tetelman fosse improvvisamente apparso, evocato dal nome, l’ omonimo ex ministro italiano della ‘salute’ in tutto il suo orrore, e ne sia rimasto atterrito, solo nel qual caso quell’ urlo e quell’ atroce espressione del viso troverebbero una loro giustificazione, per quanto non di tipo estetico.
A questo punto una qualsiasi persona che abbia una sensibilità musicale e teatrale, ma che non sia un cantante, potrebbe legittimamente chiedersi: ma ci vuole così tanto a capire che parole come “per fortuna è una notte di luna”, “sono un poeta”, “occhi belli”, “speranza” ecc. ecc. non possono essere cantate come se si fosse Rigoletto mentre canta “cortigiani, vil razza dannata” o come Tarzan mentre lanciando un urlo cerca di terrorizzare un leone? In realtà chi canta in questo modo ha perfettamente coscienza del divario, o meglio, del conflitto che si crea tra piano espressivo e piano tecnico-vocale, ma ignora un fatto: che esso è causato proprio dal tipo di tecnica vocale adottata. Più precisamente: adottando tecniche vocali grossolane come quella moderna dei tubi verticali pre-impostati, sperare di poter emettere una mezza voce o realizzare un effetto di dolcezza e delicatezza è esattamente come sperare di poter fare una carezza avendo la mano in un guanto di ferro o come sperare di poter fare un passo di danza avendo le gambe ingessate.
In compenso il nuovo tenore ‘rivelazione’ potrà consolarsi, pensando che la tecnica vocale che sta usando, è una tecnica ‘scientifica’, testata dalla ‘foniatria artistica’…
Antonio Juvarra
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totalmente d’accordo
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