James Levine (1943 – 2021)

Foto ©Reuters

James Levine è mancato il 9 marzo scorso, ma la notizia della sua scomparsa è stata resa pubblica solo oggi. Se ne va un altro degli artisti che con i loro dischi hanno accompagnato tutta la mia vita di ascoltatore, a partire dal 1973 quando venne messa sul mercato dalla EMI la prima incisione assoluta della Giovanna d’ Arco di Verdi con Montserrat Caballè, Placido Domingo, Sherrill Milnes e appunto questo giovanissimo maestro di cui in Europa a quel tempo era arrivata l’ eco del suo folgorante debutto al Met dopo gli studi svolti in una scuola prestigiosa come la Julliard di New York e l’ apprendistato svolto a Cleveland come assistente di George Szell. L’ ascolto di quei dischi rappresentò una vera e propria rivelazione per me e per tanti melomani di quell’ epoca. Parallelamente a quando stava facendo Riccardo Muti al Maggio Musicale Fiorentino, il giovane direttore originario di Cincinnati sparigliava completamente le carte dell’ interpretazione verdiana tramite un suono orchestrale vibrante, leggero, quasi elettrico, tempi contrastanti sino all’ esplosività, un tono narrativo sempre tenuto al massimo della tensione abbinato a uno scrupoloso rispetto delle dinamiche prescritte dall’ autore. Un Verdi quasi rivoluzionario, che ci faceva finalmente scoprire tutti i segreti di partiture che dalla precedente generazione di direttori, quelli che Rodolfo Celletti definiva icasticamente “battisolfa”, venivano affrontate pestando sulle sonorità orchestrali e con fraseggi rigidi in nome di un toscaninismo di seconda mano. Ecco un bell’ esempio dell’ elettrizzante concezione verdiana del Maestro, in questa esecuzione della Sinfonia da La forza del destino filmata al Met nel 1984

L’ impressione di trovarci di fronte a un grande narratore teatrale in grado di rendere al massimo il clima esplosivo, davvero di romanzo popolare risorgimentale tipico di certo teatro verdiano fu ribadita nella primavera del 1974 dalla registrazione RCA dei Vespri Siciliani. Annotava Celletti nella sua recensione: “Basta vedere come [Levine] dirige la Sinfonia: sembra una scena di battaglia. Spaccone, aggressivo, gradasso, sembra Nino Bixio sul ponte del Lombardo o Fanfulla da Lodi alla Disfida di Barletta”.

Col progredire della sua carriera, la figura di James Levine si caratterizzò come quella di uno tra gli ultimi esempi di quella categoria di autentici uomini di teatro, fedeli servitori della musica e del palcoscenico, di cui oggi si è praticamente perso lo stampo. A partire dal suo esordio al Met, avvenuto nel 1971 con Tosca, il Maestro diresse 2577 rappresentazioni nel teatro newyorkese. Pensando al caotico vertice di impegni ai quattro angoli del mondo che caratterizza la carriera dei direttori odierni una figura di autentico direttore stabile come Jimmy Levine, che si è sempre occupato integralmente della vita del suo teatro fin nei minimi dettagli organizzativi, rappresenta un esempio da rispettare profondamente, al di là degli esiti interpretativi ottenuti che, in ogni caso, sono sempre stati di livello medio elevato in tutto il vastissimo repertorio da lui affrontato nel corso di quasi mezzo secolo al Met.

James Levine con Franco Zeffirelli. Foto ©Getty Images/Jack Mitchell

Naturalmente, come tutti i direttori dal repertorio molto vasto con la sola eccezione di Herbert von Karajan (che lo stimava moltissimo), Levine non eccelleva in tutto. L’ altro autore in cui ci ha lasciato pagine che davvero contano nella storia dell’ interpretazione è Wagner. Ho avuto modo di ascoltare dal vivo il suo Parsifal e il suo Ring a Bayreuth negli anni Novanta, e quelle esecuzioni restano nella mia memoria come esemplari per la continuità del ritmo narrativo e la cura attentissima del suono orchestrale ottenuto anche tramite una perfetta conoscenza dell’ acustica particolare del Festspielhaus. Questo è il primo atto di Die Walküre nell’ esecuzione da me sentita a Bayreuth la sera del 29 luglio 1995 e trasmessa in diretta dal Bayerische Rundfunk. Gli interpreti sono Pol Elming (Siegmund), Hans Sotin (Hunding) e Tina Kiberg (Sieglinde).

Col passare degli anni, James Levine si impose definitivamente come un direttore stimatissimo dai pubblici e dagli addetti ai lavori tutto il mondo anche se considerato da una certa critica, principalmente quella italiana il cui provincialismo è noto da decenni, come una specie di battisolfa incompetente. Era invece un conoscitore di voci come pochi altri al mondo, oltre che un grande preparatore di orchestre (Met e Boston Symphony su tutte) adorato da tutti i cantanti e i solisti con cui ha lavorato. E anche un pianista di gusto squisito, come testimoniano le sue incisioni di musica da camera e vocale. Anche il suo Mozart era di ottima qualità, e la Zauberflöte fu per me la prima occasione di ascoltarlo dal vivo, a Salzburg nell’ agosto del 1984, nel celebre allestimento di Jean Pierre Ponnelle che fu replicato per quasi dieci anni. Quella leggendaria produzione fu documentata da una registrazione video. Gli interpreti principali erano Martti Talvela (Sarastro), Edita Gruberova (die Königin der Nacht), Ileana Cotrubas (Pamina), Peter Schreier (Tamino) e Christian Boesch (Papageno).

Successivamente, Levine e Ponnelle presentarono al pubblico salisburghese altri tre splendidi allestimenti: La Clemenza di Tito con Eric Tappy, Tatiana Troyanos, Carol Neblett, Catherine Malfitano e Kurt Rydl, Les contes d’ Hoffmann con Edda Moser, Placido Domingo e Josè Van Dam e l’ Idomeneo con Luciano Pavarotti, Lucia Popp ed Elisabeth Connell. I suoi impegni al Metropolitan, della cui gestione era praticamente il responsabile assoluto, limitarono molto le esibizioni europee di Levine al di fuori dei festival estivi. Ciò nonostante, il maestro americano aveva stretto rapporti cordiali con importanti orchestre come i Wiener Philharmoniker, la Philharmonia Orchestra, i Berliner Philharmoniker e i Münchner Philharmoniker di cui fu Chefdirigent per un quinquennio dopo la scomparsa di Sergiu Celibidache. Non era un inteprete da sottovalutare neppure nel repertorio sinfonico, come io ebbi modo di constatare personalmente in un concerto salisburghese del 1993 con i Wiener Philharmoniker nel quale Levine ci fece ascoltare due stupende interpretazioni del Concerto per orchestra di Bartók e della Prima Sinfonia di Brahms.

Col passare degli anni, la presenza di Levine al Met venne sempre più limitata dal declino delle sue condizioni di salute causato dal morbo di Parkinson, da una malattia renale e da problemi alla spina dorsale che lo costrinsero a una serie di operazioni e infine lo ridussero su una sedia a rotelle. La sua relazione col teatro newyorkese si interruppe bruscamente per la ben nota vicenda di accuse, peraltro mai suffragate da prove concrete, di molestie sessuali a ragazzi minorenni. Un brutto epilogo per un sodalizio artistico destinato a restare sicuramente nella storia per durata e spessore di risultati ottenuti. Levine scompare proprio quando, come ripresa dell’ attività dopo lo scandalo del Met, avrebbe dovuto esibirsi proprio in Italia, dove non aveva mai diretto uno spettacolo operistico; a mio avviso, devo dire, il fatto che la Scala non lo abbia mai invitato a dirigere un’ opera costituisce una macchia indelebile nella storia di quel teatro. Il lascito artistico di Levine è comunque documentato da una vasta discografia e videografia della quale vorrei raccomandare, oltre alle incisioni citate in questo post e a tutti gli altri titoli verdiani da lui incisi in audio e video, l’ edizione video del Ring registrata al Met nel 1990 con la regia di Otto Schenk e le scene di Gunther Schneider-Siemssen, forse il più bell’ esempio di una lettura dei nostri tempi, in stile tradizionale, del ciclo wagneriano. Con James Levine se ne va l’ ultimo autentico direttore d’ opera della storia e uno tra i massimi interpreti verdiani mai esistiti. Rest in peace Jimmy!


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