
Come suo contributo per il mese di novembre, Antonio Juvarra ci invia la seconda e ultima parte del saggio la cui prima puntata avevo pubblicato due mesi fa.
“CANTARE ITALIANO” O CANTARE ‘FONIATRICHESE’?
(2ª parte)
Un assioma del canto recita: esiste la respirazione naturale superficiale del parlato, esiste la respirazione naturale profonda (o globale) del belcanto ed esiste la respirazione meccanico-muscolare del canto foniatrico (ossimoro). Ciò posto, si può affermare che chi, come la Gamarro, sconsiglia di prendere respiri ampi cantando non ha ben chiara la differenza tra il DOVERE di respirare e il PIACERE di respirare, che sono due dimensioni dell’ essere agli antipodi tra loro. Appartiene alla dimensione del dovere l’ idea della Gamarro del respirare poca aria e del raddrizzare il corpo prima di respirare. Appartiene a quella del piacere l’idea belcantistica del respirare pensando di annusare un profumo o un aroma piacevole.
Il PIACERE di respirare esclude ogni preoccupazione, tesa a misurare la quantità d’ aria che si deve inspirare e a trattenere l’ aria che si è inspirata. Infatti, grazie alla distensione globale, generata dal vero respiro, noi mettiamo il sistema respiratorio nelle condizioni di autoregolarsi, motivo per cui l’ eventuale aria in eccesso che abbiamo inspirato, uscirà prima ancora dell’ avvio del suono e questo contribuirà a creare quel fenomeno, noto come ‘canto sul fiato’, che significa anche avviare il suono ‘al volo’ senza preformare e senza fermare nulla.
“Perché allora fare un respiro ampio, se poi in realtà non serve tutta l’ aria che abbiamo inspirato?”, obietta qualcuno, usando la stessa logica di chi dicesse a un atleta di salto in alto: “Ma perché superi l’asticella di un centimetro, quando ti basta superarla di un millimetro, così risparmi energia?”
In realtà, soltanto con un’inspirazione ampia (e passiva) noi possiamo provare il PIACERE del respiro, piacere che a sua volta è la condizione perché il corpo possa distendersi e creare lo spazio di risonanza del canto. Ne deriva che nel canto lo scopo del respiro non deve essere quello di immagazzinare aria, ma deve essere quello di aprire morbidamente la porta del canto grazie al piacere, ciò che fa del canto qualcosa di più profondamente naturale dello stesso parlato, dove questo piacere è assente, così come è assente nell’inspirazione ampia, ma attiva delle tecniche vocali meccanico-muscolari. Sbagliano pertanto tutti quelli, come Riggs e la Rohmert, che teorizzano che il respiro del canto deve essere uguale al respiro del parlato. In questo modo sfugge loro un concetto fondamentale e cioè: il respiro del canto è naturale come quello del parlato, ma NON è un respiro superficiale come quello del parlato, dato che è proprio il respiro naturale PROFONDO, e solo questo, ad agire da ‘commutatore’ del parlato in canto.
Il fatto di rimanere strettamente condizionata dall’ approccio meccanicistico alla respirazione impedisce alla Gamarro di trarre le conseguenze di un’ intuizione di per sé giusta: quella della respirazione come movimento ascendente-discendente. Così capita che in un video un’ allieva le dica di aver tratto giovamento dalla sua idea dell’ inspirazione come ombrello che si apre, ma la Gamarro non capisce che l’ immagine dell’ombrello le è stata utile solo perché interpretata come un SIMBOLO che evoca l’espansione morbida a 360° dello spazio interno, suscitata dall’ inspirazione naturale globale, e non come imitazione meccanica esterna della modalità con cui l’ ombrello aprendosi si solleva. Infatti la Gamarro risponde all’ allieva che nell’ inspirazione naturale globale effettivamente si verifica anche un’ espansione dorsale, ma, condizionata com’ è dal suo meccanicismo, subito si premura di precisare che la respirazione del canto è un’ altra cosa e questo “perché occorre mantenere la postura eretta e occorre inspirare ed espirare poca aria.”
In realtà, senza l’ animazione vitale del vero respiro tutto (compresa la postura e l’ articolazione) diventa meccanico. Il Pinocchio bambino torna ad essere un burattino, ma, incredibilmente, è proprio il burattino Pinocchio a essere posto dalla Gamarro a modello della postura del cantante, dimenticando che c’ è una differenza tra la postura armoniosamente eretta, allineata e naturalmente autosostenuta (quindi NOBILE) di un essere umano e la postura rigida, impalata e tenuta diritta da fili esterni (quindi per definizione burattinesca) di un burattino.
Ma c’ è un’altra differenza fondamentale tra un burattino e un essere umano ed è che l’ essere umano RESPIRA e il burattino no. Ora il respiro, che è il segno della presenza della vita, è un processo NATURALE e quindi non si vede perché debba essere o annullato con l’ idea dell’apnea o degradato a meccanismo. Se si realizza la respirazione in modo meccanico, essa inibirà e irrigidirà il corpo e questo sia che ci si proponga di inspirare tanta aria, sia che ci si proponga, come la Gamarro, di inspirare poca aria. Come abbiamo visto, infatti, per realizzare la giusta respirazione del canto occorre aver chiari due concetti:
1 – l’ inspirazione è un momento PASSIVO-ESPANSIVO, cioè è più un essere respirati che un respirare, mentre iniziare l’ inspirazione prefissando la postura la rende ipso facto attiva e meccanica.
2 – Inspirando bisogna pensare non alla quantità (poca o tanta) dell’aria che si incamera, ma al PIACERE del respirare.
Da qui la massima belcantistica “inspirare pensando di annusare un fiore”, dove l’ accento è posto appunto non sulla quantità d’ aria (poca o tanta che sia) o sulla modalità muscolare con cui deve avvenire, ma sul PIACERE DELL’ INSPIRAZIONE NATURALE GLOBALE come chiave di accesso alla spaziosità del vero canto (che non si crea, se si impone preliminarmente al corpo la postura). In effetti nella vera respirazione naturale (compresa quella superficiale del parlato) nessuno si propone di incamerare direttamente e attivamente l’ aria, aria che semplicemente viene prima LASCIATA entrare e poi LASCIATA uscire. La stessa cosa avviene nella respirazione del canto, solo che, essendo questa più ampia e profonda di quella superficiale del parlato, avrà come risultato (indiretto!) l’ ingresso nei polmoni di più aria, aria che però non deve essere trattenuta, ma deve essere lasciata libera di fluire, anche se il suono ancora non è stato avviato.
La successione rigorosamente consequenziale, fluida e istantanea dei momenti che costituiscono il PROCESSO naturale della respirazione del canto, è una successione di DISTENSIONE-ESPANSIONE-ELEVAZIONE (durante l’ inspirazione), e di DISCESA-APPOGGIO (durante l’ espirazione). Non, quindi, come teorizza invece la Gamarro, di ELEVAZIONE MECCANICA (prima dell’ inspirazione) e di DISCESA-APPOGGIO (durante l’ espirazione), che sarebbe come costruire una casa partendo dal tetto o come pensare che un albero prima produca in alto le foglie e poi in basso le radici.
Dice infatti la Gamarro: “Io non parto dalla respirazione quando canto, ma dalla postura”, il che significa ipso facto tarpare le ali al respiro. In realtà la respirazione, in quanto fenomeno olistico, vitale e originario, non è in funzione della postura, ma è il contrario: è la postura ad essere in funzione della respirazione, quasi una sua emanazione. Proprio perché la respirazione è una pulsazione, ovvero un’alternanza fluida di diastole (l’ inspirazione) e sistole (l’ espirazione cantata), è chiaro che non ci può essere un’ unica postura fissa e prestabilita per le due dimensioni opposte dell’ inspirazione e dell’ espirazione. Sarebbe come pensare che in quella analoga alternanza posturale che avviene remando o andando su e giù su un’ altalena, il corpo debba rimanere sempre nella postura diritta e allungata e non possa mai ripiegarsi.
Nel canto al momento dell’ INSPIRAZIONE l’ esigenza del corpo è quella di ‘raccogliersi’ e non di raddrizzarsi-allungarsi come succede invece (correttamente) nella fase successiva dell’ espirazione cantata. Infatti, dato che la maggiore estensione dei polmoni e del diaframma è, come riconosce anche la Gamarro, dislocata nel dorso, se si impone al corpo di rimanere diritto durante l’ inspirazione, invece di ‘raccogliersi’, il corpo si irrigidirà, impedendo quella DISTENSIONE-ESPANSIONE SFERICA in cui consiste l’ inspirazione. Assecondando invece il ritmo naturale profondo del gesto respiratorio, si scoprirà che la “postura verticale allineata” del cantante è solo l’ esito progressivo e naturale dell’espirazione, cioè qualcosa che nasce spontaneamente (ed è così che deve sempre nascere!) come emanazione naturale di quella dinamica respiratoria a due tempi, che fa sì che solo nell’ espirazione (cioè mentre si sta cantando) il corpo progressivamente si ‘raddrizzi’ e si ‘allunghi’, mentre nell’inspirazione farà il contrario.
Possiamo prendere coscienza della vera natura del respiro (che non c’entra nulla con la sua imitazione meccanicistica), se pensiamo a quel gesto naturale globale, che è il ‘SOSPIRO DI SOLLIEVO’ e che rappresenta il MODELLO della respirazione nel canto. Ora il piacere del sospiro di sollievo (che è quello che gli ha dato il nome e che nasce da quel preliminare e originario ‘mollare la presa’ nel centro del corpo, di cui abbiamo già parlato) viene immediatamente annullato (e con esso la perfetta funzionalità del gesto!), se interviene UNA SOLA di queste cinque situazioni inibitorie (tre delle quali sono presenti nelle teorie della Gamarro:
1 – non si lascia che l’aria entri da sola, ma la si aspira attivamente;
2 – non si lascia che il torace si sollevi leggermente da solo nell’ inspirazione, ma o lo si alza volontariamente o se ne impedisce l’ innalzamento;
3 – non si lascia che il torace si abbassi da solo nell’ espirazione, ma o lo si abbassa volontariamente o lo si tiene alzato;
4 – non si lascia che l’ aria fluisca naturalmente nell’ espirazione, ma si cerca di trattenerla o dosarla direttamente;
5 – non si lascia che il corpo da solo si atteggi in funzione delle esigenze dell’inspirazione, ma si IMPONE una postura precostituita. che è il punto su cui insiste di più la Gamarro.
In questo modo si parte dal secondo momento, l’ ELEVAZIONE, attuata meccanicamente come reset posturale, SALTANDO IL PRIMO MOMENTO (la distensione-espansione) e quindi abolendo ciò da cui esso scaturisce: quel preliminare e originario ‘mollare la presa’ nel centro del corpo, che avviene CON E DURANTE L’ INSPIRAZIONE. Ciò significa ABORTIRE il gesto naturale del sospiro di sollievo, cioè la respirazione da cui nasce il canto, e meccanizzarla. Lo stesso effetto negativo si ottiene fissandosi sulla quantità d’ aria e questo sia che ci si proponga di incamerare tanta aria, sia che ci si proponga invece, come fa la Gamarro, di incamerarne poca. Invece, concependo come scopo del respiro non l’ introduzione dell’ aria, ma il PIACERE della distensione-espansione, l’ aria può entrare e uscire liberamente e NATURALMENTE senza alcun controllo diretto, di per sé inibitorio. In tal modo si realizza quel principio funzionale che fa sì che, sia parlando sia cantando, la fuoriuscita dell’ aria si autoregola.
A questo proposito è il caso di chiarire che il motivo per cui nel canto non è sufficiente affidarsi alla respirazione superficiale e inconsapevole del parlato, ma occorre suscitare la respirazione profonda e consapevole di gesti naturali globali come il sospiro di sollievo, non è perché in questo modo si incamera (indirettamente) più aria, ma perché in questo modo è più facile risvegliare il riflesso naturale di distensione-espansione, connesso a questo atto, riflesso distensivo-espansivo preliminare, da cui si genera la vera apertura dello spazio di risonanza nel canto, quella che è chiamata ‘gola aperta’. A questo proposito molti sostengono che un buon mezzo per suscitare la giusta apertura della gola è il gesto di sorpresa (piacevole). Ora questo gesto è sì un riflesso naturale, ma non nasce dalla distensione espansiva della inspirazione naturale globale e quindi rimane qualcosa di periferico e aggiunto dall’ esterno. Inoltre essendo per sua natura qualcosa di repentino e, appunto, di improvviso, si oppone alle esigenze e alla natura della respirazione, che non è quella della subitaneità e del “chi va là”, ma quella della CALMA, come è confermato dal già citato motto “respirare pensando di annusare un fiore o un aroma piacevole”.
La dimensione della velocità e della prontezza è insita infatti in un altro aspetto e momento del canto, che è quello dell’AUTO-AVVIO immediato del suono, denominato dai belcantisti “suono franco” e “suono pronto”. Introducendo erroneamente questa immediatezza anche nel respiro e nell’ apertura della gola, priviamo la respirazione e il canto dell’elemento distensivo-espansivo della CALMA, e non a caso Lauri Volpi definiva ideale il suono “CALMO, sferico, leggero, potente”. Perché si crei questa condizione, occorre quindi che l’ apertura della gola sia qualcosa di insito nel PROCESSO dell’ inspirazione NATURALE GLOBALE, qual è rappresentato appunto dal sospiro di sollievo o dalla boccata d’ aria rigeneratrice. In questo modo l’ apertura della gola viene inglobata e integrata stabilmente e intimamente nel respiro e non rimane un elemento periferico ed effimero. Pensare che lo spazio della gola aperta si crei col gesto di sorpresa è insomma come pensare che per imparare a camminare occorra suscitare il riflesso rotuleo. In sintesi la respirazione non è un’ azione che si fa, ma è un movimento dell’ energia che si manifesta, e si manifesta solo se lasciamo che avvenga da solo come effetto di un gesto naturale globale, già insito e operante in noi.
La fissazione (in tutti i sensi) dei meccanicisti del canto è quella di predeterminare, oltre alla postura, anche l’ appoggio (che rappresenta la dimensione della STABILITÀ), ma sbagliano nel concepirlo come manovra volontaria di ‘pressurizzazione del fiato’, da attuare con controlli muscolari diretti (il diaframma, i muscoli intercostali, i muscoli pelvici ecc.), invece che come pressione elastica AUTOGENA. In questo modo quello che ottengono è una stabilità statica, invece della STABILITÀ DINAMICA del vero canto. Così non arriveranno mai a percepire l’ ALTRA FACCIA DEL VERO APPOGGIO, che è la FLUIDITÀ e che corrisponde alla sensazione del dolce e libero FLUIRE del fiato. Questo perché la logica binaria della razionalità non è in grado di concepire (e realizzare) quella COESISTENZA DI MOVIMENTO E IMMOBILITÀ che caratterizza il vero canto, e quindi, in questo caso, dei due elementi sopprime il movimento.
In effetti ogni fenomeno naturale (a differenza dei fenomeni meccanici) si caratterizza per la FUSIONE ARMONICA degli opposti, che in questo caso sono rappresentati dalla sensazione della voce che si ‘appoggia’ sulla base elastica della muscolatura respiratoria e, SIMULTANEAMENTE, dalla sensazione del fiato-suono che fluisce liberamente e dolcemente. Insomma, qualcosa rimane e qualcosa fluisce. Nel parlato abbiamo essenzialmente la percezione del secondo aspetto (il fiato che fluisce liberamente), mentre nel canto abbiamo la percezione ANCHE del primo aspetto (il suono che si appoggia sulla base elastica respiratoria), senza che però questo annulli l’ altro. Questo è il motivo per cui è nata l’ espressione ‘cantare sul fiato’ (e non ‘cantare sull’apnea’ o ‘cantare sul diaframma’), ma è tale l’ allergia della Gamarro per il fenomeno del fiato che FLUISCE, da indurla a interpretare questa espressione come un appoggiarsi su una sedia, cioè sull’ aria preventivamente immobilizzata, dimenticando così che a caratterizzare per definizione la natura del FIATO, è il fatto di essere ARIA CHE SI MUOVE, mentre l’ aria immobile nei polmoni è qualcosa che caratterizza solo i morti.
Da questa ‘immobilizzazione’ del fiato (quasi che l’ aria contenuta nei polmoni fosse considerata alla stregua dell’aria pressurizzata, contenuta in uno pneumatico), deriva l’ importanza attribuita dalla Gamarro al diaframma, di cui bisognerebbe garantire il mantenimento della posizione abbassata e distesa, e definito da lei addirittura “divino”. È il caso di ricordare allora che prima dell’ avvento, nella seconda metà dell’ Ottocento del foniatricismo nel canto, il diaframma era totalmente ignoto ai cantanti, ma questo non ha impedito, anzi ha favorito il fiorire della più gloriosa scuola di canto della storia. Il paradosso introdotto dalla foniatria (e fatto proprio dalla Gamarro, che concepisce la respirazione in funzione non solo della postura, ma anche della posizione che deve assumere il diaframma e, addirittura, dell’ attivazione dei muscoli pelvici) è il seguente: pur riconoscendo che di questo organo non abbiamo né la percezione né il controllo diretto, i foniatri hanno reso i cantanti SCHIAVI di questa entità chimerica, facendone, assieme alla laringe, un vero e proprio ‘idolum tribus’.
Come abbiamo più volte evidenziato, il vero belcanto ITALIANO (vedansi Mancini e Pacchierotti) concepisce il canto come il risultato dell’ accordo dinamico (che è di indipendenza sinergica) non tra posizioni-posture statiche prefissate, ma tra due PROCESSI NATURALI: il semplice ‘dire’ e il profondo respirare. Analogamente l’ acqua è il risultato della fusione di due elementi naturali, l’ idrogeno e l’ossigeno, e in entrambi i casi il risultato è olisticamente superiore alla somma delle due componenti. Con la concezione intellettualistica e tendenzialmente estetizzante del canto della Gamarro è come se, invece, l’ acqua fosse considerata come il prodotto non della semplice combinazione di due normalissimi gas, ma di una misteriosa operazione alchemica di trasmutazione della pietra.
Che di questo si tratti risulta evidente da come viene concepita l’ origine del suono cantato, che la Gamarro isola dal processo naturale dell’ articolazione e ne fa, anche in questo caso, il risultato di un’ operazione meccanicistica a livello delle corde vocali. In realtà l’articolazione vocalica non è un banale epifenomeno, derivato da un irreale e astratto Urklang o suono originario, prodotto nella laringe, ma è consustanziale all’ emissione vocale. La Gamarro si dice fautrice (a parole) del principio di ‘non località’, ma poi consiglia di esercitarsi ad “attaccare il suono con un piccolo colpo di glottide, una sorta di tossetta”, il che significa cadere nella più angusta (e irreale) delle localizzazioni anatomiche. Afferma (sempre a parole) che la tecnica vocale è una tecnica VOCALICA, ma poi incredibilmente precisa che “deve essere esercitata e fatta precedere da esercizi non vocalici e rumoristici come il ‘vocal fry’, il ‘lip roll’ e l’ ‘owl‘, che vengono definiti “la terna magica degli esercizi di preriscaldamento vocale”. (?!)
In italiano esiste l’ espressione proverbiale ‘cavare il sangue dalle rape’ per indicare un’ impossibilità. Ebbene, l’ operazione impossibile del cavare il sangue dalle rape è meno assurda e irreale del moderno, foniatrico cavare il suono cantato dai rumori del ‘vocal fry’ e del ‘lip roll’. In questo modo si ignorano due cose:
1 – la vocale non è un optional eliminabile a piacere o sostituibile con rumori sonori vari, ma è, come suggerisce la parola stessa, la materia prima della voce UMANA, tant’ è che i primi suoni emessi dal neonato non sono dei ‘vocal fry’ o dei ‘lip roll’, ma sono delle VOCALI;
2 – a creare la perfetta sintonizzazione del suono cantato non sono singoli suoni (o rumori) prolungati, ma è un’ INTERRELAZIONE DINAMICA, creata dal sistema articolatorio della voce UMANA.
Addirittura la Gamarro arriva a sostenere il paradosso secondo cui questi “esercizi prevocalici” (eufemismo) servirebbero a “garantire un buon appoggio”. Questo pur riconoscendo che “NON si basano sulla stessa gestione dell’ aria e del respiro che bisogna avere quando si canta”. (!!) Ora, come si fa a pensare che questi rumori avocalici prodotti con una pressurizzazione artificiale dell’aria, possano “garantire un buon appoggio” se si basano sull’ ALTERAZIONE della funzionalità fisiologica della fonazione UMANA parlata e cantata? Se mi metto a suonare il pianoforte indossando dei guanti da lavoro, posso forse illudermi che quei guanti servano a garantire una diteggiatura più agile? E se mi metto a saltellare su uno dei due talloni, posso illudermi che quello sia un buon esercizio propedeutico alla deambulazione?
Un’ operazione di vivisezione vocale come questa, che scinde le componenti di un processo naturale globale come il semplice ‘dire’ (che comprende in sé sinteticamente sia l’ AUTO-AVVIO del suono, sia il MOVIMENTO articolatorio) è radicalmente insensato. È come avere a disposizione una macchina altamente tecnologica e perfettamente funzionante (l’ equivalente del sistema naturale motorio dell’ articolazione), ad esempio un computer o una macchina da corsa, lasciarli inutilizzati in un ripostiglio o in un garage e servirsi, al loro posto, di un pallottoliere o di un triciclo. Oppure, se si preferisce un’ analogia non meccanica, è come sezionare un seme per ricavarne le future radici e poi sotterrarlo, ignorando che il seme non ha bisogno né di essere sezionato né di essere sepolto, ma deve solo essere messo a contatto con la terra per sviluppare (da solo!) tutte le sue potenzialità (comprese le radici e le foglie).
A differenza di quanto teorizza la fantascienza foniatrica, da cui derivano queste teorie, l’ inizio del suono (l’ equivalente del seme) sia nella fonazione parlata, sia nella fonazione cantata non avviene né adducendo direttamente le corde vocali, né ricorrendo a rumori laringei, labiali o linguali (i cosiddetti SOVTE, da me già demoliti nel mio ultimo libro dal titolo ‘Vocologia e SOVTE’), ma avviene per CONCEPIMENTO MENTALE IMMEDIATO del suono. Questo è il motivo per cui uno dei motti del belcanto è “si canta come si parla” e non “si canta come si rumorizza”. Invece il laringocentrismo foniatrico della Gamarro è tale da indurla ad affermare che “l’ articolazione non c’ entra nulla con la bocca, dato che con la bocca si mangia, ma non si canta” (frase a effetto, ma insensata, per quanto concepita, pare, da una grande cantante come Magda Olivero), dimenticando in tal modo non solo che le vocali si formano nella bocca, ma che la percezione naturale UMANA della fonazione è quella di un fenomeno che avviene nella bocca (da cui il termine “orazione’) e non nella glottide, altrimenti il termine per indicarla non sarebbe stato ‘orazione’, ma ‘glottazione’.
“In principio era il Verbo”, recita il prologo del vangelo di Giovanni. La sua conversione nel grottesco “In principio era il Rutto glottico (o la Pernacchia labiale)” è il colpo di genio prodotto delle moderne tecniche vocali foniatriche. Credere che esercitandosi a crepitare col ‘vocal fry’, a mugolare con la bocca chiusa o a fare pernacchie con le labbra si impari a cantare (attività che si svolge aprendo la bocca e non tenendola chiusa) è tanto logico quanto credere che facendo esercizi di “stretching” muscolare con le dita dei piedi, rimanendo seduti, poi si impari a camminare, ma, tant’ è, ogni epoca ha i suoi miti e le sue superstizioni.
Eppure per uscire dall’ ipnosi delle concezioni foniatriche del canto, basterebbe riflettere seriamente su questa domanda (retorica): se per secoli i cantanti hanno imparato a cantare egregiamente senza minimamente pensare alle moderne assurdità anatomico-foniatriche, anzi teorizzando esattamente il contrario, non è che, per caso, la moderna favola foniatrica della voce da controllare meccanicamente con gli espedienti sopra citati, rappresenti (proprio questa!) quel problema di cui essa pretenderebbe tragicocomicamente di essere la soluzione?
Enfatizzando l’ importanza di quel processo che lei chiama “riscaldamento prevocale” la Gamarro contribuisce a meccanizzare ancora di più il canto. In realtà, come succede con altre funzioni naturali come parlare e camminare, anche per cantare non c’ è bisogno di alcun riscaldamento dei muscoli, dissociato dalla funzione stessa del parlare, del camminare e del cantare. Il che significa che, anche volendo dare il nome di ‘riscaldamento’ a quegli esercizi di sintonizzazione del suono e di equilibrio acustico, utilizzati dal cantante prima di una performance, questi saranno rappresentati dai VOCALIZZI e non dai rumori laringei e labiali, consigliati dalla Gamarro. Questo se si vuole essere minimamente fedeli a quei principi del CANTARE ITALIANO, che si dice di professare. Optare, al contrario, per quelle forme del grottesco ANTI-VOCALE che sono i ‘vocal fry’, i ‘lip roll’ e gli ‘owl’ (la cui oscenità è sia tecnico-vocale, sia terminologica) vuol dire buttare nella discarica tutta la tradizione del vero cantare italiano. Detto in altre parole, né Farinelli né Caruso hanno mai educato la voce con questi ridicoli sarchiaponi, spacciati oggi per tecnica ‘scientifica’. Chi a questa strampalata e surreale ‘consonantizzazione’ o ‘rumorizzazione’ dell’emissione dà il nome di ‘propedeutica vocalica’, lascia irrisolto il mistero per cui dal non-spazio dei ‘vocal fry’ e dei ‘lip roll’ dovrebbe generarsi lo spazio vocalico del canto, e in base a quale miracolo dalla fissità delle pernacchie labiali e linguali dovrebbe scaturire la mobilità fonetico-acustica dell’articolazione-sintonizzazione dell’ essere UMANO.
Volendo spostarci ora alla seconda concausa generatrice del vero canto, l’ articolazione-sintonizzazione, non si può non rilevare anche qui una sfasatura tra la concezione della Gamarro e quella del belcanto. La Gamarro crede al mito dell’ esistenza di una lingua ideale, una sorta di ‘lingua del canto’ per antonomasia, che sarebbe l’ italiano, basata, a differenza delle altre lingue, su vocali pure, ma questo non è appunto che un mito, un ‘wishful thinking’, facilmente confutato dalla semplice, amara constatazione dalla scarsità odierna di cantanti italiani di livello internazionale. Ogni forma di idealizzazione è una forma di distacco dalla realtà e anche questa teoria lo è, con conseguenze deleterie sull’apprendimento della vera tecnica vocale. Essa presuppone infatti l’ idea (infondata) che esista un diverso uso dell’articolazione in rapporto alla lingua con cui si sta cantando. Avendo dato per buona la teoria fantafisiologica del foniatra Tomatis, secondo cui l’ italiano avrebbe come caratteristica “il fatto che si parla lontano dalla laringe” (??!), “per cui la laringe è lasciata libera di vibrare” (??!), la Gamarro ne deduce che “le vocali italiane sono quelle che risuonano meglio, in quanto si basano su una frequenza regolare” (citazione testuale). Inoltre nell’ italiano, sempre secondo la Gamarro, “le vocali sono pure, ferme e completamente libere da movimenti muscolari, che invece nelle altre lingue sono molto più evidenti.” Nella sua mitizzazione dell’ italiano, la Gamarro arriva ad attribuirgli non solo la genesi del legato ma anche del chiaroscuro, facendolo derivare dall’ alternanza tra vocali aperte e vocali chiuse dell’ italiano, in tal modo dimenticando che questo fenomeno fonetico esiste in tutte le lingue.
La teoria dell’italiano come lingua ideale del canto si basa sul presupposto dell’ esistenza di lingue di serie A, dotate di vocali pure, come l’ italiano, e di lingue di serie B, che ne sarebbero sprovviste. Tale presupposto è errato perché va contro il principio di universalità delle leggi che presiedono ai fenomeni naturali, fenomeni naturali tra cui rientra anche il linguaggio umano. IN REALTÀ TUTTE LE LINGUE, IN QUANTO NATURALI, SONO CONTRADDISTINTE DALLA STESSA MODALITÀ ED EFFICIENZA ACUSTICA E FISIOLOGICA, INDIPENDENTEMENTE DAL NUMERO DI VOCALI E CONSONANTI, IN ESSE PRESENTI. Seconda precisazione: TUTTE le lingue (compreso l’ inglese) contengono in sé le vocali cosiddette ‘italiane’ ‘A’, ‘E’ ‘I’, ‘O’, ‘U’. Ad esempio, la ‘A’ della parola italiana ‘padre’ è la stessa ‘A’ della parola inglese ‘father’, la vocale ‘E’ dalla parola italiana ‘bella’ è la stessa ‘E’ della parola francese ‘mer’, la ‘O’ della parola italiana ‘porto’ è la stessa ‘O’ della parola tedesca ‘offen’ e così per le rimanenti vocali cosiddette ‘italiane’.
Pertanto lasciando da parte il fenomeno della dittongazione vocalica (che per altro interessa solo la lingua inglese), la differenza rispetto all’italiano è che lingue come l’ inglese, il francese e il tedesco contengono in sé anche altre vocali, che vengono chiamate ‘miste’, ma che, in quanto naturali, sono da considerare, se utilizzate parlando o cantando nella lingua che le prevede, anch’ esse vocali acusticamente PURE. Ne consegue che esse diventano ‘impure’, solo se vengono usate scorrettamente cantando (o parlando) in una lingua, come l’ italiano, che non le prevede, verità scontata questa, già messa in evidenza (inutilmente) da Beniamino Gigli. Lo stesso discorso vale per l’ utilizzo della ‘schwa’ (la vocale neutra indicata con una ‘e’ rovesciata), che è ASSENTE NELLA LINGUA ITALIANA, ma che invece secondo la Gamarro dovrebbe essere introdotta nei vocalizzi e utilizzata come espediente per rilassare la gola. L’importanza che la Gamarro dà all’utilizzo della ‘schwa’ nel canto è rilevante, tanto da arrivare a dire che “fare vocalizzi con la ‘schwa’ è fondamentale perché la ‘schwa’ ha un nucleo non locale” e che “bisogna trovare la ‘schwa’ in gola e poi aggiungere l’ articolazione”, affermazione sconcertante, provenendo da chi ha scritto un libro intitolato “Cantare italiano”. L’idea che la ‘schwa’ sia una vocale ‘non locale’ (in senso positivo) perché è neutra (ossia perché non è né anteriore né posteriore) è errata perché implica logicamente che allora le vocali ‘italiane’ ‘A’, ‘E’, ‘I’, ‘O’, ‘U’ (che invece NON sono neutre, essendo o anteriori o posteriori o centrali), siano ‘locali’ (in senso negativo) e quindi vadano ‘corrette’ (leggi: alterate) introducendo la ‘schwa’ nei vocalizzi. In realtà neutralità non è sinonimo di ‘non località’ e, a sua volta, la ‘non località’ si realizza non abolendo la differenza tra vocali anteriori, centrali e posteriori (per raggiungere quella che la Gamarro definisce “pronuncia neutra”), bensì trascendendo il piano delle localizzazioni anatomiche, il che avviene non se si contaminano le vocali ‘italiane’ con la ‘schwa’, ma se si lascia che il movimento articolatorio avvenga da solo, automaticamente, in maniera fluida ed essenziale come quando parliamo, evitando di ‘fare’ noi ciascuna vocale.
La “pronuncia neutra” della Gamarro pertanto non è altro che l’ imitazione artificiale esterna di quel fenomeno che è il ‘parlato trascendentale’ del belcanto, dove il semplice ‘dire’, rimanendo sé stesso, assurge a un livello superiore per una sorta di salto quantico, grazie all’ accordo-fusione con lo spazio di risonanza più ampio, creato dall’inspirazione naturale globale. In effetti il risultato dell’ utilizzo, cantando in italiano, della ‘schwa’ (inesistente in italiano) è la soppressione della brillantezza naturale (che nulla ha a che fare con la brillantezza artificiale del suono ‘proiettato’ e/o in ‘maschera’) e la brillantezza naturale è la componente acustica che fa ‘correre’ il suono con massima resa e minimo dispendio di energia. Proprio perché si tratta di una “vocale indistinta” e di un “abbozzo di vocale” (come la definisce la Gamarro), la ‘schwa’ rende sfuocato il suono, motivo per cui la teoria di un suo utilizzo nel canto si basa esattamente sullo stesso madornale errore, commesso da Manuel Garcia jr. con l’introduzione delle vocali miste (ugualmente inesistenti in italiano) come mezzo per arrotondare il suono. Anche in questo caso il risultato è la mescolanza-contaminazione tra due sistemi che devono rimanere sinergicamente indipendenti: l’articolazione-sintonizzazione e la respirazione-spazialità.
A fondamento della sua teoria secondo cui la schwa sarebbe “fondamentale nella dizione lirica, che è costellata di schwa”, la Gamarro pone un paralogismo, da lei espresso in questo modo: “se a una cosa che esiste (la schwa) non dai un nome, questa cesserà di esistere”, plateale petizione di principio che pone come presupposto dimostrato proprio ciò che deve essere dimostrato (l’ esistenza della schwa nella lingua italiana). L’ affermazione in realtà va riformulata così: se a una cosa che NON esiste (la schwa in italiano) dai un nome, questa cosa incomincerà a esistere, contaminando il sistema naturale di articolazione-sintonizzazione della voce, che è ciò che genera proprio quelle vocali pure, che secondo la Gamarro costituirebbero l’ unicità dell’italiano.
In conclusione, la realtà è che in lingue come il francese o in dialetti italiani come il napoletano la ‘schwa’ esiste, ma in italiano NO ed è grave che la Gamarro, insegnante di dizione italiana, sostenga questa teoria infondata, quella cioè secondo cui a garantire la fluidità dell’eloquio sarebbero delle ‘schwa’ nascoste, che per giunta sarebbero state, a differenza di oggi, conosciute dagli antichi belcantisti e da loro indicate con la ‘j’ di parole come ‘gioja’ e ‘noja’.
Questa teoria è falsa. Infatti la ‘j’ di queste parole non indicava affatto la presenza di una ‘schwa’, ma di una SEMIVOCALE, che si distingue dalle vocali solo per la sua brevità, ma non certo per la sua essenza fonetica, che è (al contrario della ‘schwa’) di assoluta purezza. Ne consegue che quando, come succede spesso nella poesia, sulla ‘i’ di una parola come ‘gioia’ viene posta una dieresi, la semivocale si allunga, rivelando la sua natura di vocale e non di ‘schwa’, e basti pensare, come esempio, al famoso endecasillabo di Dante “Dolce color d’oriental zaffiro”, dove la ‘i’ di ‘oriental’ non è affatto una ‘schwa’, ma è la semivocale ‘i’, divenuta vocale per la presenza della dieresi, ciò che ha come effetto il suo allungamento e la trasformazione in quadrisillabo del trisillabo ‘oriental’. Ma a provare in via definitiva l’ inesistenza della ‘schwa’ nell’italiano è questo semplice fatto. Il tenore Luciano Pavarotti, come tutti i tenori, cantava spesso la canzone napoletana ”O sole mio’. Ebbene, immancabilmente Pavarotti (come altri tenori non napoletani) veniva criticato (benevolmente) dai napoletani proprio perché, per pronunciare la seconda sillaba della parola ‘sole’, non usava la ‘schwa’ del napoletano, ma la ‘e’ dell’italiano, a dimostrazione definitiva che in italiano e, soprattutto, in quella che la Gamarro chiama “dizione lirica”, le ‘schwa’ NON esistono.
Per quanto riguarda in fine la tesi della Gamarro, secondo cui nelle altre lingue l’ articolazione evidenzierebbe più movimenti delle labbra che in italiano, per cui ci sarebbe “una maggiore componente muscolare, che fa sì che la frequenza non sia regolare”, questa è solo un’ apparenza esterna, dovuta al fatto che in lingue come il tedesco ci sono molti più intrecci di consonanti che in italiano, ma dato che il cardine del movimento articolatorio naturale è dato dal cambio di vocali (e di note nel caso del canto), mentre le consonanti rappresentano un elemento periferico e non centrale dell’articolazione, si può dire che non c’ è alcuna differenza tra l’italiano e le altre lingue. In altre parole, non solo in italiano, ma anche in tedesco, in francese e in inglese, SI PARLA E SI CANTA SULLE VOCALI E SI LASCIA CHE LE CONSONANTI SI FACCIANO DA SOLE. Questo fatto sembra sfuggire alla Gamarro, che individua erroneamente in fantomatiche risonanze, che sarebbero presenti solo nelle vocali ‘italiane’, l’origine del legato, mentre la vera causa del legato è data dai MICROMOVIMENTI ARTICOLATORI AUTOMATICI con cui IN TUTTE LE LINGUE, in quanto naturali, una vocale (o una nota) si connette intimamente con la successiva. Questi micromovimenti rappresentano il cardine invisibile dell’ articolazione naturale (parlata e cantata) e nel contempo agiscono da fattori di risintonizzazione automatica del suono. Ne consegue che le consonanti rimangono alla periferia del fenomeno dell’ articolazione umana, come dimostra la genesi del linguaggio umano, che ha come sua prima fase di sviluppo i VOCALIZZI e non i ‘consonantizzi’ o i ‘rumorizzi’ della foniatria artistica (e della Gamarro). Proprio perché le consonanti nel canto tendono a invadere lo spazio delle vocali e da ponti diventare dighe, la scuola del belcanto, con un’ intuizione geniale di cui oggi si è persa totalmente coscienza, ha basato l’ educazione vocale sui vocalizzi e, considerato che affinché si realizzi ‘in toto’ l’ articolazione-sintonizzazione, basta il cambio di due vocali e/o di note, ha applicato il principio belcantistico ‘si canta come si parla’ in primis alla vocalizzazione. Ha scritto in proposito il castrato Tosi: “se il maestro fa cantare le parole all’ allievo prima che abbia un franco possesso del vocalizzare appoggiato, lo ROVINA”, frase che mette in luce il grado di travisamento di una didattica vocale, come quella attuale, basata non sulle vocali e neppure sulle parole, ma sui rumori consonantici, sulle pernacchie labiali e sulle ‘fritture’ laringee, ovvero ‘vocal fry’.
Come la respirazione, anche l’ articolazione è pertanto un automatismo naturale e tale deve rimanere nel canto. Essa è un movimento fluido, essenziale e nel contempo ad alta precisione ed è grazie ad esso che si realizza quel continuo cambiamento di forme spaziali, in cui consiste il processo fonetico di formazione delle vocali, processo fonetico intimamente connesso con la sintonizzazione automatica del suono. Come abbiamo visto, questo processo è VOCALICO, mentre le consonanti rappresentano un elemento periferico e aggiuntivo, che, una volta trapiantato nel canto, tende purtroppo a ‘debordare’, da cui l’ importanza fondamentale del rispetto del VERO RAPPORTO TRA VOCALE E CONSONANTE, vero rapporto già esistente quando si parla, ma poi tendenzialmente alterato quando si canta, a causa del prolungamento delle vocali che avviene nel canto, prolungamento che induce a pensare di dover dare artificialmente risalto alle consonanti perché siano udite chiaramente.
Anche da questo punto di vista la Gamarro devia dalla scuola del belcanto perché non solo tende a mettere le consonanti sullo stesso piano delle vocali, ma teorizza per il canto il rispetto rigoroso del raddoppiamento fonosintattico. Al giorno d’ oggi, a quasi due secoli dall’ unificazione dell’ Italia e con l’ influenza esercitata nel frattempo dalle parlate dell’ Italia settentrionale, che ne sono prive, il raddoppiamento sintattico non si può più considerare un elemento strutturale della lingua italiana, ma solo una sua variante regionale, del tutto trascurabile. Pertanto imporre la sua introduzione in quella che la Gamarro definisce “la dizione lirica del canto” significa determinare una complicazione superflua, che ostacola l’ emissione a causa dei problemi, sopra spiegati, suscitati da un uso errato delle consonanti nel canto. Ne è un esempio il video della Gamarro di una sua lezione sull’ aria ‘Una furtiva lagrima’, dove non solo prescrive che la frase “che più cercando io vo” sia pronunciata “che ppiù ccercando io vo”, ma addirittura suggerisce di pensarla del tutto innaturalmente “chep piùc cercando io vo” sulla base della strampalata teoria secondo cui il prolungamento della consonante sarebbe il momento in cui il cantante-prestigiatore può più facilmente nascondere il trucco tecnico-vocale, dato ad esempio dal passaggio di registro. In questo modo la Gamarro va esattamente nella direzione contraria a quella indicata dal Vaccaj nel suo famoso metodo, dove, proprio per rievocare il VERO RAPPORTO esistente (sia nel parlato che nel canto) tra vocale e consonante (cioè il fatto che si parla e si canta sulle vocali e si lascia che le consonanti si producano da sole), suggerisce di pensare la suddivisione in sillabe della frase “manca sollecita” non come “man-ca sol-lecita”, bensì come “ma-nca so-llecita”, e ciò proprio per evitare che la consonante mangi lo spazio della vocale (che è quello su cui si canta), impedendo così la creazione del legato (già presente ‘in nuce’ nel parlato). La realizzazione del legato si basa sul rispetto del rapporto vocale/consonante esistente nel parlato e il segno di questo giusto rapporto è dato dalla sensazione (illusoria) di allungamento delle vocali che si ha quando cantando è presente il legato.
Il processo dell’ articolazione-sintonizzazione del suono è intimamente connesso anche con la respirazione, per cui si può dire che il rapporto tra suono e respiro è biunivoco, nel senso che la giusta o errata sintonizzazione del suono (che nel caso della fonazione umana parlata e cantata è VOCALICO) condiziona positivamente o negativamente l’ emissione del fiato. Ovviamente dovrà trattarsi del vero respiro, ossia del respiro NATURALE GLOBALE (o profondo). È questo la vera causa (naturale) di quella “distensione della gola” che la Gamarro, avendo atrofizzato la respirazione, è costretta a creare artificialmente introducendo le ‘schwa’ nella dizione ed elaborando il concetto di “parlato sonniloquente” e di “parlato nel sonno”, concetto assurdo per il semplice fatto che la condizione “sonniloquente” fa a pugni, annullandola, con quella PRESENZA MENTALE che deve sempre avere il cantante e che è lucida veglia e concentrazione senza tensione. Non certo dormiveglia, sonno da ipnotizzato o, peggio ancora, da zombie.
Come abbiamo già visto, questa idea è errata perché implica e determina un’ interferenza-contaminazione tra due sistemi e due dimensioni, che nel canto devono rimanere distinte, cioè fuse ma NON CONFUSE: quella dell’ articolazione-sintonizzazione del suono (basata sul concepimento mentale delle VOCALI PURE) e quella della respirazione-spazialità, che è quella che mantiene la gola in una condizione di DISTENSIONE ESPANSIVA. Ora, essendosi privata della risorsa espansiva del vero respiro, la Gamarro è costretta a creare artificialmente la distensione della gola ricorrendo all’alterazione-contaminazione delle vocali con la ‘schwa’ o all’espediente del “parlato nel sonno” e della “pronuncia neutra”. In questo modo il risultato sarà non una distensione ESPANSIVA, ma una distensione ‘afflosciata’ e la gola rimarrà chiusa, anche se ‘rilassata’. La logica di questo procedimento (cercare la distensione della gola nella ‘schwa” e nel “parlato sonniloquente”) è insomma la stessa di chi cercasse di ricavare il lievito del pane dalla farina o il latte del cappuccino dal caffè. Pensare poi che l’ APPARENTE riduzione della distinzione vocalica nel parlato veloce renda necessaria la contaminazione delle vocali italiane con la ‘schwa’ o ‘introduzione nel canto della pronuncia del ventriloquo è come pensare che girando velocemente una ruota, i suoi raggi, solo perché non sono più percepibili distintamente alla vista, cessino di esistere. Le contraddizioni logiche, derivanti da questa concezione errata, non tardano a emergere. La prima è tra quella tra il concetto di “pronuncia tonica” e il concetto di “pronuncia neutra”. È chiaro infatti che partendo dall’ analogia esistente (e accettata dalla Gamarro) tra quella che lei chiama “l’ esatta dizione delle vocali” (o, per meglio dire, l’ esatto concepimento mentale delle vocali) e “la diteggiatura del violinista”, l’uso della ‘schwa’ non può non corrispondere logicamente all’ annullamento di questa esattezza, cioè a un suono sfuocato e/o stonato. Stessa contraddizione si genera pensando che la perfetta funzionalità (in termini di precisione, fluidità ed essenzialità) del MOVIMENTO articolatorio naturale sia ricreabile artificialmente imitando la pronuncia del ventriloquo, con la conseguenza di inibire artificialmente la motilità labiale e per ciò stesso ridurre la vitalità e la brillantezza naturale di questo polo della voce, che deve rimanere indipendente dal polo della spaziosità e della rotondità del suono.
Lo sbaglio della Gamarro rimane dunque sempre quello di partire dall’ APPARENZA del fenomeno e ricrearla artificialmente, imitandola dall’esterno (con la “postura del burattino”, l’ uso della ‘schwa’, il “parlato sonniloquente”, la pronuncia del ventriloquo, l’ abolizione della naturale protrusione labiale delle vocali ‘O’ e ‘U’, i “contrappesi” respiratori ecc. ecc.) invece di risalire alle vere PRIME CAUSE del canto, rappresentate (ricordiamolo per l’ennesima volta!) dai due PROCESSI naturali del semplice ‘dire’ e del profondo respirare, rispettati nella loro purezza, nel loro automatismo e nella loro indipendenza sinergica. In questo senso, volendo adottare l’ analogia della Gamarro del canto come una serie di ombre cinesi proiettate sul muro, è come se con questi espedienti (la ‘schwa’, la pronuncia del ventriloquo ecc.) la forma, ad esempio, di un coniglio, proiettata sul muro fosse creata non dal diverso atteggiarsi delle dita (cioè dall’articolazione naturale), ma da un coniglietto di stoffa (l’ equivalente di questi espedienti…)
Respirando un vero respiro, sparisce l’ articolazione come segmentazione-localizzazione e fa la sua apparizione l’ articolazione come collegamento fluido e invisibile tra le sillabe. Le parole si animano e tornano magicamente a dirsi da sole, come quando parliamo, ma in una dimensione diversa, percepita come più elevata e più ampia. In questo modo diveniamo coscienti che il legato non è un’ ‘applicazione’ tecnica esterna e non è neppure una prerogativa di una sola lingua, l’italiano, come sostiene la Gamarro, ma è il rivelarsi della struttura profonda, intima e naturale di OGNI lingua, struttura profonda che il canto non fa che evidenziare, come succede con una lente di ingrandimento. Respirando male, cioè ‘tecnicamente’, o respirando ‘asfitticamente’ o ‘apneicamente’ (come teorizza la Gamarro), la porta del canto invece rimane chiusa e saremo obbligati a fare noi l’ articolazione, attivamente, come pensiamo di fare (ma in realtà non facciamo) quando parliamo.
(Fine della seconda e ultima parte)
Antonio Juvarra
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