Antonio Juvarra – La maschera e l’ ‘affondo’ – Prefazione

Come contributo per il mese di ottobre, Antonio Juvarra ci invia la prefazione al suo ultimo libro di tecnica vocale, “La maschera e l’ ‘affondo’ “.

PREFAZIONE AL LIBRO ‘LA MASCHERA E L’AFFONDO’

Se c’è un’ idea che si è affermata stabilmente nel mondo della musica (e non solo), è quella che associa il canto (e, in particolare, quella forma superiore di canto che ha preso il nome di belcanto) all’ Italia. Questo non solo nell’ ambito del canto classico, detto anche lirico, ma anche in quello del canto moderno, notoriamente dominato dalla cultura e dalla lingua anglo-americane. L’ esempio più eclatante di questo fenomeno è rappresentato dallo statunitense Seth Riggs, maestro di canto di diverse star internazionali del canto pop, il quale nel suo metodo di canto (basato sulla commistione-contaminazione di un principio belcantistico col moderno meccanicismo foniatrico) ci tiene ad affermare (o, meglio, a cercare di far credere) che la sua tecnica vocale, il cosiddetto “speech level singing”, risale alla scuola di canto italiana storica, facendo addirittura il nome del maestro ai cui princìpi si sarebbe ispirato: il grande baritono Antonio Cotogni.

Antonio Cotogni nacque nella prima metà dell’ Ottocento a Roma. Ebbene, in questo periodo storico (che è quello in cui furono creati i grandi capolavori vocali di Rossini, Bellini, Donizetti e Verdi) e in tutto il periodo precedente (che va, risalendo a ritroso, fino alla nascita dell’ opera), la scuola di canto italiana storica ha sempre ignorato beatamente non solo i nomi, ma i concetti stessi di ‘maschera’ e di ‘affondo’, che invece oggi ritroviamo come elementi portanti di molte tecniche vocali, sia quelle spacciate per ‘liriche’, sia quelle definite ‘moderne’. Questo semplice fatto storico è sufficiente a smentire la moderna leggenda, secondo cui la ‘maschera’ e l’ ‘affondo’ sarebbero nate come due speciali tecniche vocali, necessarie per amplificare la voce in ampi spazi e per affrontare il repertorio operistico ottocentesco. È evidente infatti che se i cantanti che parteciparono alle prime assolute di opere come ‘Norma’, ‘Nabucco’ e ‘Macbeth’, non sapevano nulla né di ‘maschera’, né di ‘affondo’, questo significa che non avevano alcun bisogno di questi espedienti e non ne avevano alcun bisogno perché usavano un’ altra tecnica vocale, basata su princìpi completamente diversi.

Se poi ci spostiamo dalla prima alla seconda metà dell’ Ottocento, che è il periodo in cui in Francia incominciano a diffondersi queste due modalità opposte di emissione, troviamo il maestro di canto e trattatista Francesco Lamperti (“il più grande maestro del vero metodo italiano” secondo il soprano canadese Emma Albani, sua allieva), che, fedele ai principi della scuola del belcanto, nei suoi trattati bandisce entrambi questi espedienti come madornali errori. Nello stesso periodo storico Leone Giraldoni, altro mitico baritono verdiano come Cotogni (verdiano nel senso che prese parte, anche come protagonista eponimo, alle prime rappresentazioni di opere di Verdi), in un suo trattato individuò la cavità di risonanza della voce non nella fantomatica cavità della ‘maschera’ e neppure nel bunker sotterraneo dell’ ‘affondo’, ma in quello che lui definì “l’ antro faringeo e boccale”, cioè lo spazio bicamerale orofaringeo, il che rappresenta un’ altra prova dell’inesistenza della ‘maschera’ e del ‘petto’ come cavità di risonanza.

Da dove nascono allora le modalità tecnico-vocali della ‘maschera’ e dell’affondo’? Nascono come prodotti della scienza meccanicistica del Sette/Ottocento e, più precisamente, della foniatria francese ottocentesca e del suo tentativo di congelare in strutture precostituite le due polarità del suono cantato, che sono, rispettivamente, la concentrazione-brillantezza e la spaziosità-rotondità.
In quanto forme prefissate e statiche dello spazio di risonanza, la ‘maschera’ e l’ ‘affondo’ impediscono il crearsi della risonanza libera del vero canto, quale può generarsi solo rispettando la mobilità acustica di cui vive la voce (cantata e parlata) e sono quindi entrambe contrarie alla giusta tecnica vocale.

Parlare di ‘giusta tecnica vocale’ a proposito della tecnica del belcanto italiano non è, come potrebbe sembrare, un’espressione di dogmatismo, assolutismo e nazionalismo culturale (secondo quanto sostengono molti ‘relativisti’ del canto), ma di conoscenza vera, obiettiva. Infatti, come esiste un solo modo per intonare perfettamente un intervallo musicale e un solo modo per realizzare l’equilibrio, così esiste un solo modo per emettere un suono cantato perfettamente sintonizzato, che sia cioè in accordo con le leggi fonetico-acustiche e fisiologiche universali dell’eufonia. Questo modo è appunto quello non inventato, ma scoperto dalla scuola di canto italiana storica, nota anche come scuola del belcanto. Tale scuola, basata appunto sulla conoscenza e il rispetto di queste leggi, si può considerare per ciò stesso ‘scientifica’ nel vero senso della parola, contrariamente a molte tecniche moderne (come appunto la ‘maschera’ e l’ ‘affondo’), che si autodefiniscono scientifiche, ma che in realtà lo sono solo a parole, dato che si basano su diversi gradi di distorsione cognitiva del fenomeno e di squilibrio acustico e fisiologico, cioè di scostamento dalla realtà.

Arrivando ai nostri giorni, subito noteremo un fatto singolare e significativo: entrambe le tecniche (la ‘maschera’ e l’ ‘affondo’) sono diventate incredibilmente (soprattutto la prima) sinonimo di canto lirico e di belcanto. In sostanza, da veleni, quali erano sempre state giudicate in Italia, sono diventate medicine. In particolare, la ‘maschera’ è ormai entrata a far parte stabilmente del formulario pseudo-tecnico di coloro che ci tengono a esibire la loro presunta competenza nel canto, in primis i critici musicali e inclusi i divulgatori scientifici. Da Rodolfo Celletti a Paolo Isotta ad Alberto Mattioli a Valerio Rossi Albertini è lunga la sequela di musicologi, melomani, critici musicali e dilettanti del canto che, ignorando l’ inesistenza obiettiva (oggi accertata anche scientificamente) della ‘maschera’ quale cavità di risonanza, nel formulare i loro giudizi fanno a gara nel riempirsi la bocca di questo concetto vuoto. Così, sia nei quotidiani nazionali sia nelle riviste specializzate si possono leggere, firmate da rinomati critici, frasi di per sé insensate, quali (citazioni testuali): “il cantante X ha mostrato un uso sapiente della ‘maschera”, “tutti gli acuti del cantante Y risultavano proiettati correttamente ‘in maschera’”, “la voce del cantante Z risultava opaca perché erroneamente posizionata indietro, lontana dalla ‘maschera’” ecc. Ancora più sconcertante è però quando queste idee le ritroviamo in molti metodi e trattati di canto, pubblicati anche recentemente da rinomate case editrici.

Ci si potrebbe chiedere il motivo per cui queste due idee continuino a circolare, nonostante siano state demolite, oltre che dalla logica, dalla storia e dalla scienza moderna, e il perché è presto detto: molti grandi cantanti le hanno adottate e questo fatto, in base al principio dell’ ipse dixit, appare a molti come la prova provata della loro validità. Ma perché a loro volta questi grandi cantanti le hanno fatte proprie? Occorre distinguere caso da caso. Innanzitutto ci sono quelli che hanno usato e usano i termini ‘maschera’ e ‘affondo’ come semplici sinonimi dei concetti di ‘brillantezza” e ‘rotondità’ del suono. Se concepiti in questo modo, i due termini rimangono innocui, pur mantenendo in sé un potenziale rischio: evocare precise manovre meccaniche, che sono quelle, nocive, teorizzate da chi le ha introdotte nello studio del canto. Ora, in base al principio conoscitivo delle “idee chiare e distinte” di Cartesio, è chiaro che se io, ipotetico maestro di volo, facendo lezione a chi non sa che cosa sia il volo, chiamo il volare ‘precipitare’, rischio di ingenerare un po’ di confusione nell’allievo. La stessa cosa succede se, insegnando canto, la brillantezza del suono la chiamo ‘proiezione in maschera’. Peggio ancora se la rotondità del suono la chiamo “affondo della laringe e del diaframma”.

C’ è poi un fatto che oggi continua a sfuggire a molti: si pensa che quando, per fare un esempio, Pertile scriveva (erroneamente) che bisogna mescolare-oscurare le vocali per arrotondare il suono, o quando Kraus diceva che bisogna fare vocalizzi nasalizzati per mandare il suono nella maschera, questi cantanti esprimessero idee proprie. In realtà essi non facevano altro che ripetere a pappagallo idee elaborate da persone che o non avevano mai cantato, come i foniatri francesi dell’ Ottocento, o erano cantanti falliti, come Garcia figlio, e questo è il paradosso con cui ancora oggi dobbiamo fare i conti. Ne consegue che nel giudicare la validità di un dato espediente tecnico-vocale, non bisogna farsi condizionare dal fatto che esso è stato fatto proprio (spesso solo a parole) da grandi cantanti: questi infatti avrebbero cantato ugualmente anche se i loro insegnanti avessero detto loro che la causa del loro cantare bene era l’ unicorno o il sarchiapone.
A dimostrarlo in via definitiva ed emblematica sono i tenori Alfredo Kraus e Giuseppe Giacomini, ognuno dei quali ha teorizzato l’ esatto opposto dell’altro, ma ciononostante entrambi sono riusciti tranquillamente ad affermarsi nel mondo dell’opera.

Tuttavia, anche nel caso di questi due cantanti è possibile notare un fenomeno che fa pensare ed è di per sé sufficiente per escludere che quella riguardante la ‘maschera’ e l”affondo’ possa essere considerata una questione meramente terminologica o un vacuo disquisire intorno al sesso degli angeli. Ci riferiamo all’ evidente peggioramento vocale di questi due cantanti man mano che sono passati da una fase iniziale in cui si limitavano a considerare la ‘maschera’ e l”affondo’ come semplici espressioni linguistiche per indicare, rispettivamente, la brillantezza e la rotondità del suono, a una fase finale in cui invece hanno incominciato a credere sul serio all’ esistenza effettiva della ‘maschera’ e dell”affondo’ come precise configurazioni fisiologiche e acustiche di carattere tecnico-vocale. È così che queste si sono trasformate, rispettivamente, in una soffitta e in un ‘bunker’ sotterraneo, che alla fine hanno intaccato la bellezza naturale originaria del timbro dei due tenori, rendendo quello del primo fastidiosamente nasaleggiante e quello dell’ altro fastidiosamente baritoneggiante, e appiattendo l’ espressività di entrambi.

In una situazione come questa, è come se nel mondo del canto ogni giorno si replicasse la scenetta di quel personaggio di un’esilarante gag di Walter Chiari, che, sentendo qualcuno parlare del ‘sarchiapone’, per darsi importanza finse di sapere perfettamente che cos’ era, ignorando che si trattava di un’ entità inesistente. Con questa variante surreale rispetto alla versione originale: nel caso del canto si continua a discettare in modo sempre più erudito e specialistico del sarchiapone della ‘maschera’ anche dopo aver appreso che non esiste.

Perché questo singolare fenomeno? Perché nella seconda metà dell’Ottocento ci fu un famoso tenore, Jean de Reszke, che fece credere che il suo segreto tecnico-vocale era per l’ appunto il sarchiapone-maschera del foniatra Holbrook Curtis e venne poi imitato pedissequamente da molti altri cantanti. La stessa cosa dicasi per il ‘sarchiapone’ vocale di segno opposto: l’ affondo. Non solo. A questo punto può succede che certi talebani irriducibili di questi due espedienti, se contraddetti, si comportino come i porci evangelici a cui furono donate le perle: non si limitano a sputare le perle, ma si avventano sul donatore per azzannarlo.

Questo è vero soprattutto per quanto riguarda il secondo espediente, l’ affondo di Arturo Melocchi, che rappresenta una deviazione ancora più grave dai principi della scuola di canto italiana storica. Esso ha riproposto in Italia (esasperandone in maniera grottesca il meccanicismo) il modello della “voce oscurata” del franco-spagnolo Manuel Garcia junior e del tedesco Georg Armin. Scambiando l’ apertura della gola con l’ abbassamento diretto della laringe, l’ampiezza con lo sprofondamento e la potenza con la pesantezza, il metodo dell’ affondo è riuscito a realizzare in pieno Novecento quella formula dell’anti-canto che Mancini nel Settecento aveva liquidato con la lapidaria e icastica definizione “cantare a gola piena con voce pesante e affogata” e che nel Novecento verrà analogamente (e clamorosamente) stigmatizzata in maniera esplicita anche da cantanti dalla voce non propriamente ‘leggera’ come Enrico Caruso, Beniamino Gigli e Aureliano Pertile nei loro scritti sul canto.

Oggigiorno l’ interesse che la didattica vocale manifesta per la vera formula del belcanto (l’ “accordo tra moto consueto della bocca e moto leggero della gola” di Mancini), che nulla ha a che fare con questi due fake tecnico-vocali, è il medesimo riservatole dal mainstream didattico-vocale dell’Ottocento e cioè nullo. Questo perché tale formula, non focalizzando l’attenzione né su specifici muscoli, zone anatomiche e forme statiche e prefissate, né su cavità di risonanza fantastiche come la ‘maschera’ e il ‘petto’, ma su due PROCESSI FISIOLOGICI REALI, che sono l’ articolazione e la respirazione, non dà la possibilità di giocare al gioco prediletto dai moderni didatti del canto, cioè il gioco del Lego muscolare, rimanendo così a tutt’ oggi ciò che è da più di un secolo: un enigma.

Questo enigma potrà essere finalmente svelato, solo se si procederà a un’operazione preliminare: smontare il mito scientifico, rectius paleo-scientifico, che ha generato le due larve (nel duplice significato del termine) della ‘maschera’ e dell’ ‘affondo’.

Antonio Juvarra


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