
Ricevo e pubblico questa riflessione di Marco Gaudino sui dottorati di ricerca istituiti nei Conservatori italiani.
Dottorati di Ricerca in Musica in Italia: un’ occasione mancata?
del prof. Marco Gaudino
Negli ultimi anni, il sistema universitario dei conservatori di musica italiani ha visto una crescita lenta ma costante dei dottorati di ricerca nel campo musicale. Si tratta di un’evoluzione necessaria e, sulla carta, promettente: formalizzare l’ ambito della ricerca musicale, al pari delle scienze umane o naturali, è un passo cruciale verso il riconoscimento della musica come disciplina accademica a tutti gli effetti. Tuttavia, dietro questo sviluppo si cela una realtà più problematica: i dottorati musicali italiani spesso faticano a produrre ricerca di qualità, non per mancanza di potenziale, ma per limiti strutturali, culturali e – in alcuni casi – formativi.
Formazione incompleta e percorsi poco chiari
Uno dei problemi centrali è l’ impreparazione metodologica di molti candidati. Spesso provengono da conservatori, dove l’ enfasi è posta sull’esecuzione piuttosto che sulla riflessione teorica o sulla ricerca accademica. Il passaggio a un percorso di dottorato, che richiede rigore metodologico, capacità di analisi critica, padronanza delle fonti e una visione storica e teorica solida, risulta traumatico per chi non ha mai affrontato corsi di epistemologia, metodologia della ricerca o studi interdisciplinari.
Il risultato è che molti progetti di dottorato si traducono in descrizioni estese di esperienze personali, analisi musicologiche rudimentali o interpretazioni vaghe di opere già ampiamente studiate, spesso senza una reale novità o contributo scientifico.
La responsabilità delle istituzioni
Ma il problema non è solo dei candidati. I conservatori italiani non sempre offrono un contesto adeguato per una ricerca musicale di livello internazionale. I tutor accademici spesso non hanno esperienza specifica nella supervisione di progetti musicali, o tendono ad applicare modelli della critica letteraria o storica senza tener conto delle peculiarità del linguaggio musicale. In alcuni casi, la scelta dei supervisori risponde più a logiche di potere interno, a mio avviso, che di competenza scientifica.
Inoltre, la frammentazione tra università e conservatori non ha ancora trovato una vera integrazione. Il risultato è che il dottorato in musica rimane in una sorta di “terra di nessuno”, né pienamente accettato dalla comunità musicologica né sufficientemente strutturato per offrire sbocchi professionali concreti.
Una questione culturale
In Italia persiste una certa diffidenza verso l’idea di “ricerca musicale”. L’ idea che la musica possa essere oggetto di ricerca seria, al pari della fisica o della filosofia, fatica a radicarsi. Questo si riflette nella qualità dei progetti proposti, ma anche nella selezione dei candidati. In molti casi si preferisce premiare l’ appartenenza, le relazioni personali o l’ esperienza didattica, piuttosto che l’ originalità e la solidità scientifica del progetto.
Conclusione: incompetenza o sistema incompetente?
È troppo semplice bollare come “incompetenti” coloro che intraprendono un dottorato in musica in Italia. Molti sono musicisti di talento, con una sensibilità artistica rara. Ma quando queste qualità si trovano incanalate in un sistema che non offre né strumenti adeguati né una vera cultura della ricerca, il rischio di produrre lavori mediocri o autoreferenziali è altissimo.
Il problema, quindi, non è l’individuo, ma un sistema che pretende di fare ricerca senza aver prima costruito le fondamenta. Perché il dottorato in musica in Italia diventi davvero un percorso di alta formazione, è necessario ripensarlo dalle basi: curricula più solidi, docenti più preparati, metodi più rigorosi e un’ apertura maggiore verso il confronto internazionale.
Solo allora si potrà parlare di vera competenza. Fino ad allora, continueremo a vedere dottorati che non formano ricercatori, ma li simulano.
Marco Gaudino
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