Antonio Juvarra – “Le vocali nel canto secondo Gigli, Lauri Volpi e Freni”

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Ricevo e pubblico il consueto articolo che Antonio Juvarra scrive per noi ogni mese.
Buona lettura a tutti gli interessati.

LE VOCALI NEL CANTO SECONDO GIGLI, LAURI VOLPI E LA FRENI

Com’ è noto, a partire dalla seconda metà dell’ Ottocento, il problema dell’ arrotondamento del suono nella zona acuta della voce è stato affrontato (senza essere risolto) nei seguenti quattro modi, tutti contrari ai principi del belcanto e alle leggi acustiche:

1 – scurendo direttamente il suono;

2 – verticalizzando la forma dello spazio di risonanza e demonizzando l’orizzontalità (da cui le bocche ovali, le labbra protruse a trombetta e i forni verticali, visibili oggi nelle facce di molti cantanti lirici);

3 – mescolando, rectius contaminando le vocali orizzontali ‘A’, ‘E’, ‘I’ con le vocali arrotondate ‘O’ e ‘U’.

4 – eleggendo a vocale modello UNA singola vocale (che può essere la ‘U’ degli ‘affondisti’ o la ‘I’ dei ‘mascheristi’).

Tutti e quattro i modi (e in particolare il quarto) si basano su una stessa logica, che è quella di fermare la bobina di un film, illudendosi che guardando un fotogramma alla volta si veda meglio il film. Da qui i colpi di genio delle “figure obbligatorie”, dei SOVTE e, appunto, della ‘vocale ideale’, da usare come stampino per creare le altre vocali.

 Su questa questione possiamo confrontare le diverse affermazioni (testuali) di tre grandi cantanti del Novecento (Beniamino Gigli, Giacomo Lauri Volpi e Mirella Freni), affermazioni che qui sotto riportiamo, anticipando fin d’ora che dei tre l’unico a rimanere felicemente immune dalle teorie anti-acustiche sopra citate, è Beniamino Gigli.

Incominciamo da Mirella Freni, che ha detto: “La vocale ‘A’ per natura io sono portata ad aprirla, anche parlando, e così mi va indietro. Devo quindi cercare di metterla più avanti, mischiandola magari con un po’ di ‘O’, così viene fuori la ‘A’ giusta. Questo è qualcosa che si deve anche studiare: si devono mescolare le vocali.”

(“Scuola di canto”, presentata da Mirella Freni e Luciano Pavarotti – Modena, 1976)

Commento: con questa affermazione Mirella Freni ha mostrato di sposare ‘in toto’ la teoria foniatrica (e anti-belcantistica) delle vocali ‘mescolate’ e oscurate, e in più ci ha aggiunto un suo personale tocco di ‘fonetica surreale’ (o ‘ruspante’). Infatti anche volendo credere alla teoria, fatta propria qui dalla Freni, secondo cui la ‘A’ (che NON è una vocale anteriore) dovrebbe essere corretta perché “indietro” e modificata in ‘AO’, non si capisce in base a quale logica, se proprio si vuole “portarla avanti” (cosa di cui per altro non ha assolutamente bisogno!), bisognerebbe mescolarla con la ‘O’, che foneticamente è una vocale posteriore, invece che, semmai, con la ‘E’, che è una vocale anteriore. In altre parole, se vogliamo schiarire il giallo mescolandolo con un altro colore, sicuramente non è col marrone che lo mescoleremo.

Paradossalmente questa teoria dell’ oscurare la vocale come mezzo per portarla ‘avanti’, è stata condivisa recentemente anche da un maestro di canto, Fabio Poggi, che pure (a parole) è contrario a ogni oscuramento-verticalizzazione delle vocali. Scambiando per oscuramento intenzionale e diretto della vocale la CHIUSURA FONETICA della vocale e criticando Pavarotti, che giustamente chiudeva foneticamente le vocali (senza scurirle!) per effettuare il passaggio di registro, Poggi scrive: “Oscurando la vocale, la si porta più verso la parte anteriore del palato, diventando più morbida. Ma se la A, come qualunque altra vocale, nasce esternamente, quindi alimentata dalla giusta respirazione, non ha alcuna necessità di oscuramento, resta omogenea su tutte le frequenze (canto aperto).”

Con questa affermazione Poggi aggiunge alla gaffe della Freni (secondo cui una vocale, se mescolata con una vocale posteriore, diventerebbe… anteriore) un suo personale tocco di fisiologia surreale, ‘teorizzando’ che, per non risultare oscurata, la ‘A’ dovrebbe essere prodotta non dentro, ma FUORI della bocca. (!) La domanda che a questo punto subito sorge, è ovviamente: e come si produrrebbe un simile prodigio? Utilizzando forse una ‘gola esterna’, ignota a tutti gli studiosi di anatomia, oppure trasformando il salotto di casa propria in cavità di risonanza ‘exrtra-orale’? Sovranamente indifferente a questa piccola obiezione, Poggi procede nella sua marcia trionfale verso il castello fatato del Canto utopico, ‘spiegandoci’ che tale prodigio avverrebbe, “alimentando la vocale con la giusta respirazione” (??!!)

In realtà la ‘A’, perché risulti rotonda, non deve essere né verticalizzata, né mescolata con la ‘O’, né portata ‘avanti’, né prodotta ‘fuori’, ma deve solo essere lasciata a casa sua (cioè INDIETRO), però mantenendo rigorosamente la sua natura, che è ORIZZONTALE. Non a caso nell’ Ottocento Francesco Lamperti (che rappresenta il continuatore dei principi tecnico-vocali del belcanto all’epoca della loro dissoluzione per opera di Garcia figlio) raccomandava nella sua Guida al canto di cantare la vocale ‘A’ indietro nella gola (quindi né ‘avanti’, né in ‘maschera’, né ‘fuori’) “stando attenti che non diventi ‘O”, cioè mantenendo l’ elemento che la caratterizza: l’ orizzontalità. In sostanza, esattamente il contrario di quanto teorizzato dalla Freni. Ovviamente, perché questo sia possibile, bisogna anche fare in modo che la ‘A’ possa beneficiare della GIUSTA APERTURA DELLA GOLA, che ovviamente non è quella verticale dell’ ‘alza-il-palato-molle-e-abbassa-la-laringe’ dei foniatri, ma è quella della “voce spiegata” (e non intubata) del belcanto.

Passiamo al secondo cantante, Giacomo Lauri Volpi, che ha scritto: “Si prenda la vocale ‘A’ pronunciata naturalmente, immune da intenzioni tecniche. Questa vocale risuona aperta, talvolta sfacciata, con un colore di bocca. Non importa. Questo suono, a patto che non sia gutturale o nasale, potrà sempre raddrizzarsi dal piano orizzontale di natura. Per ottenere la ‘A’ estetica, tecnica, artistica, sarà sufficiente illuminare la mente con l’ idea della “verticalità” del suono. La ‘A’ naturale diventerà una ‘A’ sonora, musicale, rotonda con il solo dirigere la colonna d’ aria vibrante contro le cavità cervicali, anziché abbassare, flettere i raggi sonori sul “piano radente” della cavità orale.”

(Giacomo Lauri-Volpi – “Misteri della voce umana” – Dall’Oglio, 1957)

Commento: pensare che la ‘A’, vocale naturalmente orizzontale, debba “raddrizzarsi dal piano orizzontale di natura” e verticalizzarsi per poter diventare “artistica e tecnica” è esattamente come pensare che le zampe posteriori di un cane debbano essere raddrizzate come quelle anteriori perché non risultino anti-estetiche. È chiaro che qui Lauri Volpi si è lasciato ipnotizzare da tre teorie farlocche, tutte di marca foniatrica. La prima consiste nel credere all’ esistenza di fantomatiche cavità di risonanza “cervicali”, che si aggiungerebbero alle uniche due cavità di risonanza REALI, che sono la bocca e la gola. La seconda teoria farlocca consiste nel credere alla possibilità (inesistente) di dirigere intenzionalmente “la colonna d’ aria vibrante” da qualche parte. La terza consiste nel concepire come ‘verticale’ la forma dello spazio di risonanza.

Ora, affinché queste teorie di Lauri Volpi possano acquisire un senso, devono essere ‘trasportate’ dalla FANTASCIENZA foniatrica, da cui derivano, alla SCIENZA del belcanto, cioè devono essere in un certo senso tradotte. A legittimare questa operazione è (per fortuna!) l’ esistenza di un ALTRO Lauri Volpi, che non è il Lauri Volpi foniatrico delle “mascherazioni”, delle “proiezioni” nelle “cavità cervicali”, delle “verticalizzazioni” e dei “tubi pneumatici” da collegare ai “tubi risuonatori”. Quest’altro Lauri Volpi è il Lauri Volpi belcantistico del “suono calmo, SFERICO, leggero, potente”, dei “suoni sorgivi e non retorici” e di tante altre sue massime, ispirate al belcanto e non alla fantascienza foniatrica.

La ‘traduzione’ dal primo Lauri Volpi al secondo Lauri Volpi, cioè dal dr. Jekyll foniatrico al Mr. Hyde belcantistico avviene nel seguente modo.

Partiamo innanzitutto dalla constatazione di un FATTO: le cavità di RISONANZA del canto sono, come abbiamo visto, solo due: la BOCCA, che è orizzontale, e la GOLA, che è verticale. Poi ci sono le cavità di risonanza immaginarie, cioè i seni nasali e paranasali (la cosiddetta ‘maschera’), che esistono sì anatomicamente, ma NON sono cavità di amplificazione, bensì di ASSORBIMENTO del suono, ovvero sono cavità di anti-risonanza. Quanto alle cosiddette “cavità cervicali”, di cui fantastica qui Lauri Volpi, queste NON esistono neppure anatomicamente, il che significa che nella nuca (la ‘cervice’) non esiste l’equivalente di quelle cavità frontali vuote, chiamate ‘seni paranasali’. Addirittura, digitando su internet il termine “cavità cervicali”, scopriamo che con questo termine si fa riferimento alle cavità dell’UTERO, che non è propriamente collocato vicino alla laringe e quindi è un po’ difficile che possa funzionare da ‘cavità di risonanza’ della voce. Col che per altro non si esclude che un giorno la ‘scienza’ (che può questo e altro!), dopo aver ‘scoperto’ e sentenziato (seriamente!) che la cavità di risonanza che genera lo squillo della voce è lo “sfintere ariepiglottico”, scoprirà che l’ utero è la cavità di risonanza più importante della voce e lo sancirà in qualche un suo metodo (ovviamente ‘certificato’). In attesa che questo ennesimo prodigio scientifico avvenga, rimaniamo con i piedi per terra e ritorniamo alla REALTÀ, quella della voce cantata, che utilizza uno spazio bicamerale di risonanza, costituito dalla bocca e dalla gola.

Se si usa solo la cavità della bocca, la vocale ‘A’ risulterà schiacciata. Perché si arrotondi, la ‘A’ non deve diventare verticale e neanche deve essere mescolata con la ‘O’, espedienti questi che derivano da due cantonate, prese (e introdotte nel canto) dalla foniatria francese dell’ Ottocento. Perché la ‘A’ si arrotondi (rimanendo NATURALMENTE orizzontale e senza che sia distorta in ‘AO’), basta fondere lo spazio di risonanza della bocca con uno spazio di risonanza ARRETRATO, che però non è la “cervice”, ma è la normalissima e banalissima GOLA. Ora, poiché questa legittima (e REALE) cavità di risonanza (la gola) da più di un secolo è diventata (sempre per opera dei foniatri) una cavità tabù, da cui stare distanti e da nominare solo dandole un’accezione negativa, Lauri Volpi ha pensato bene di bypassarla, chiamandola ‘educatamente’ non gola, ma “cavità cervicale”. Com’è noto, infatti, non esiste solo il ‘politically correct’, ma esiste anche il ‘phoniatrically correct’, che è quello che imperversa oggi più che mai nel canto e che incredibilmente è riuscito a condizionare anche una mente lucida come quella di Lauri Volpi. Probabilmente c’ è anche un altro motivo che sta alla base della definizione “cervicale”, data da Lauri Volpi a questo spazio di risonanza ARRETRATO: la gola infatti è come un edificio a tre piani, il cui piano più alto, la rinofaringe, è appunto all’altezza del naso (rimanendo DIETRO!) ed è probabilmente ANCHE dall’apertura di questo piano alto della GOLA che ha origine la sensazione di ‘altezza’ che ha chi canta bene, ‘altezza’ che però non ha nulla a che fare con le ‘maschere’ e le ‘proiezioni’.

A far riemergere finalmente (dulcis in fundo) la verità del belcanto, saltando a piè pari le “cavità cervicali”, le ‘maschere’, le vocali “mescolate”, le verticalizzazioni e le proiezioni, è stato Beniamino Gigli, il quale ha detto molto semplicemente: “Quando si canta su altezze di tono acute, a TUTTE LE VOCALI dev’essere dato ampio spazio per svilupparsi, COME SE avessero la stessa apertura della vocale ‘A’.”

(Lezione introduttiva di Beniamino Gigli, Londra dicembre 1946, in: E. Herbert-Caesari – THE VOICE OF THE MIND – 1951)

Per capire il vero significato di questa affermazione di Gigli (che non ha nulla a che fare con la teoria, apparentemente analoga, di Alfredo Kraus, secondo cui nel canto la ‘U’ non esiste e la ‘O’ va pronunciata ‘A’), occorre tener presente innanzitutto la precisazione “COME SE”, che Gigli ha inserito nella sua frase. In altre parole, non è che lo spazio di risonanza del canto coincida esattamente con la forma di spazio della ‘A’, altrimenti ci troveremmo davanti uno dei tanti stampini, sfornati nell’ultimo secolo dalla didattica vocale, stampini prefissati tra i quali rientra sia lo stampino orizzontale della ‘I’ di Kraus, sia lo stampino verticale della ‘U’ di Melocchi. A escludere l’ipotesi che Gigli concepisse la ‘A’ come vocale-stampino, con cui modellare tutte le altre vocali, c’è anche un’altra affermazione di Gigli, ancora più esplicita e sufficiente di per sé a demolire tutta l’ impalcatura foniatrica delle vocali oscurate-modificate e dei “tubi sonori” verticali. Questa affermazione, pronunciata nella sua lectio magistralis di Vienna, è: Se si canta in italiano, si usano le CINQUE VOCALI DELL’ ITALIANO nella loro forma più PURA.”

Ora questo “usare le cinque vocali dell’ italiano” non è secondo Gigli un ‘fare meccanicamente le vocali’, magari scandendole per farle sentire più distintamente, e questo per un motivo semplicissimo: che questa è la modalità articolatoria indotta dalla mente razionale, che nulla ha che fare con la modalità REALE con cui nella vita di ogni giorno parliamo. E qual è questa modalità reale (che poi è quella che dobbiamo utilizzare anche nel canto)? È la modalità con cui noi non facciamo le vocali, ma le PENSIAMO.

Spiega infatti con incredibile lucidità Beniamino Gigli: “Il passaggio da una vocale all’ altra viene fatto mentalmente e SENZA NESSUNA AZIONE FISICA DIRETTA. Bisogna spostare l’ attenzione dalla forma fisica a quella mentale e alla fluida fusione di vocale in vocale internamente. Ogni suono vocalico dev’essere formato MENTALMENTE prima di essere fisicamente prodotto su base SPONTANEA E NATURALE, e in maniera FLUIDA E SCIOLTA. Il fatto stesso di concepire mentalmente ogni suono vocalico prima di produrlo, suscita MOVIMENTI SEMPLICI E NATURALI delle parti coinvolte. Con paziente e perseverante pratica, il pensiero e l’ azione si fondono assieme in un atto istantaneo che avviene in una frazione di secondo.”

(Citazione testuale dalla lectio magistralis, tenuta da Gigli a Londra nel 1943)

Questa affermazione illuminante, fatta da uno dei più grandi interpreti del repertorio operistico a cavallo tra Ottocento e Novecento, è di fondamentale importanza perché salta a piè pari le moderne concezioni meccanicistiche del canto e si ricollega direttamente alle verità scoperte dalla scuola del belcanto.

Ma l’affermazione di Gigli è illuminante anche e soprattutto da un altro punto di vista. Gigli infatti, unico tra i grandi cantanti del Novecento a farlo (assieme a Enrico Caruso), salta a piè pari anche il miraggio della “maschera” (che non nomina mai nelle sue esternazioni sul canto) e va diritto alla vera causa della brillantezza e dello squillo della voce, causa individuata lucidamente nel concepimento mentale della vocale pura e nel movimento articolatorio fluido del parlato.

Ci troviamo qui al bivio tra due opposte concezioni della tecnica vocale: quella STATICA delle ‘vocali stampino’ (che è la strada imboccata dalla didattica vocale a partire dalla seconda metà dell’ Ottocento) e quella DINAMICA del belcanto, basata sul rispetto della processualità naturale dell’articolazione parlata.

La prima concezione (che è quella tuttora vigente) si basa, come abbiamo accennato all’inizio, sulla logica del fermare la bobina di un film e guardare un fotogramma alla volta per vedere meglio il film. Da qui il colpo di genio della ‘vocale ideale’, da usare come stampino per creare le altre vocali. Per svegliarsi dal sogno della vocale ‘ideale’ (sia questa la ‘U’ degli ‘affondisti’ o la ‘I’ dei ‘mascheristi’), imposta come modello delle altre vocali, gli utopisti tecnico-vocali del canto dovrebbero fare un piccolo esperimento e trarne le dovute deduzioni.

Partiamo dalla premessa teorica che sta alla base di queste ‘tecniche’ e che è la seguente: esistono singole vocali ideali che, in quanto vocali modello, devono essere inserite in tutte le altre vocali. Ora, se si utilizza una singola vocale come modello di tutte le altre, significa che quella vocale la si considera perfetta (altrimenti perché usarla come modello delle altre?) Dando per buona questa premessa, allora ne dovrebbe conseguire logicamente che cantare un’ aria o una canzone usando SOLO quella vocale, dovrebbe facilitarne al massimo l’ esecuzione.

Verifichiamo la validità di questa ipotesi applicando al canto quel giochino letterario, che ha nome ‘lipogramma’ e che consiste nel fare una poesia usando solo una vocale e cantiamo quindi un’intera aria, usando UNA sola vocale. Prendiamo un brano famoso come la romanza “Nessun dorma” e procediamo con gli esperimenti di convalida. Incominciamo con la teoria degli affondisti, secondo i quali la ‘U’ è la vocale magica del canto, che sarebbe contenuta in tutte le vocali e che, in base a un principio di acustica comico-surreale, sarebbe addirittura la causa dello squillo della voce. Trasformiamo quindi l’originale “Nessun dorma, tu pure o principessa, nella tua fredda stanza” nella sua versione teoricamente facilitata, che è:

“Nussun durmu, tu puru u prunciupussu nullu tuu fruddu stunzu”…. (??!!)

Già dopo aver cantato in questo modo le prime parole della romanza, ci rendiamo conto della cantonata, rappresentata dalla teoria della ‘u’ come vocale magica. Infatti, pur trovandoci ancora nel settore centrale della voce, ci sentiamo subito chiusi e imbottigliati e con la voce totalmente priva di brillantezza. Salendo nella zona acuta le cose peggiorano e il fatidico e trionfale “all’alba vinceeeeeròòòò” diventa un grottesco e inascoltabile “ull’ulbu vunciuuuuuuuuurùùùùù”.

Cambiamo ‘tecnica’ (si fa per dire…) e utilizziamo la ‘i’ dei ‘mascheristi’ alla Kraus come vocale ‘ideale’. Il risultato sarà:

“Nissin dirmi, ti piri i principissi nilli tii friddi stinzi…”

Anche qui non ci troviamo propriamente ‘comodi’, nonostante con questa vocale, come precisato da Kraus in più di un’occasione, la gola sia più aperta che con tutte le altre vocali, motivo per cui dovremmo fare esperienza di una piacevole ‘spaziosità’. In realtà, inoltrandoci nella zona più acuta della voce col pigolio così prodotto, le cose peggiorano e infatti, nel momento clou della romanza, otteniamo un non meno grottesco e inaspettato:

“ill’ilbi vinciiiiiiiiiiriiii”

Se a questo punto proviamo a utilizzare, invece delle vocali chiuse ‘I’ e ‘U’, la vocale aperta ‘A’ e cantiamo:

“Nassan darma, ta para a pranciapassa nalla taa fradda stanza..” e “all’alba vanciaaaaaràààà”

scopriamo due cose:

1 – non ci sentiamo così imbottigliati e costretti come utilizzando solo la ‘U’ o solo la ‘I’ (che è il motivo per cui queste due vocali sono state chiamate “chiuse”, pur essendo la gola più aperta che con le altre vocali);

2 – ciononostante, neppure l’ utilizzo esclusivo di questa vocale è immune da un senso di rigidità diffusa.

Questo per un motivo molto semplice, che è sufficiente di per sé a dissipare l’ illusione dell’esistenza di vocali ‘ideali’, da utilizzare come stampini statici e modelli delle altre vocali. Il motivo è il seguente. Come il MOVIMENTO con cui si succedono i fotogrammi di un film, è quello che rende possibile il fenomeno della visione di un film, così il MOVIMENTO con cui si succedono le vocali del canto, è quello che rende possibile quel fenomeno di ‘osmosi acustica’, che caratterizza il canto di alto livello e che fa sì che una data vocale, RIMANENDO SÈ STESSA, si arricchisca delle qualità acustiche della vocale che la precede. Pertanto, volendo fare un esempio, la ‘U’ pura è sì la vocale della morbidezza e dell’ apertura morbida della gola, ma paradossalmente non è percepita di per sé come spaziosa (da cui la sua classificazione fonetica come ‘vocale chiusa’) e questo in virtù dello stesso paradosso per cui l’ occhio, strumento della visione, non può vedere sé stesso. Pertanto, solo se ALTERNATA dinamicamente con le altre vocali (e non se IMPOSTA staticamente ad esse), la ‘U’ potrà conferire naturalmente rotondità alle altre vocali, senza alterarne le caratteristiche acustiche.

La stessa cosa dicasi per la brillantezza della ‘I’ in rapporto alle vocali con cui si alterna. Condizione necessaria perché questo mirabile fenomeno acustico accada è, ovviamente, che il movimento articolatorio rimanga quello essenziale e fluido del parlato.

Ma per capire l’ assurdità della teoria della ‘vocale modello’, da utilizzare come stampino delle altre vocali, possiamo ricorrere anche a un’ analogia ancora più semplice e autoevidente: quella tra il processo dell’ articolazione e il processo della deambulazione. Infatti, come l’ articolazione (parlata e cantata) è un PROCESSO naturale (e non una ‘posizione’ o un ‘oggetto’), così lo è il camminare. Ora cosa succederebbe se qualcuno teorizzasse che delle due gambe coinvolte in questo processo, una dovrebbe essere considerata come la gamba ‘modello’ e l’ altra adattarsi a questa? Il risultato sarebbe analogo a quello che si ottiene con la teoria delle vocali modello e cioè: il processo naturale del camminare verrebbe per ciò stesso distrutto e noi ci ritroveremmo non a camminare naturalmente e comodamente, ma a saltellare o a piè pari o, peggio ancora, su una gamba sola: la gamba ‘modello’.

Antonio Juvarra


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