
Ricevo e pubblico il consueto articolo che Antonio Juvarra mi manda ogni primo del mese. Questa volta i punti trattati sono parecchi e suscettibili di riflessione. Grazie come sempre ad Antonio e buona lettura a tutti.
IL MISTERIOSO QUADRATO DI CARUSO
Nulla è meno scientifico della scienza quando si occupa di una disciplina come l’ apprendimento del canto: è il momento in cui da scienza si trasforma in fantascienza e del genere distopico. Ricordiamo qui in proposito che a partire dalla seconda metà dell’ Ottocento la ricetta scientifica, rectius fantascientifica del canto, che gradualmente si è imposta nella didattica vocale, soppiantando la precedente concezione belcantistica della “voce spiegata”, è quella, elaborata dai foniatri francesi dell’ epoca, che prevede: la modificazione-oscuramento delle vocali (Diday, Petrequin e Garcia jr.), l’ abolizione del sorriso in quanto “contrario alle leggi acustiche” (Mathilde Marchesi), la proiezione del suono in avanti (o in alto), l’ abbassamento diretto della laringe e l’innalzamento diretto del palato molle (iidem). Da qui l’attuale imperversare nel canto lirico dei tubi verticali, delle bocche ‘ovali’ (o a imbuto) e delle ‘maschere’ (in versione palatale o in versione nasale), tutti prodotti DOC della foniatria francese ottocentesca.
In effetti, al di là delle differenze esistenti tra loro, c’ è un elemento che accomuna il 90 % delle tecniche vocali attuali (comprese le tecniche della ‘maschera’ e dell’ ‘affondo’) ed è quello che qualcuno ha espresso con queste parole: “occorre focalizzare l’ attenzione sul concetto di verticalizzazione del suono, essendo verticale la struttura anatomo-fisiologica che lo produce e accoglie la colonna aerea che, appoggiata fisicamente sul diaframma si proietta verticalmente verso l’alto.”
L’ autore di questa frase, il baritono Roberto Servile, è un allievo della scuola dell’ affondo, ma è chiaro che essa avrebbe potuto essere pronunciata tranquillamente anche da un fautore della ‘maschera’. Dentro ci troviamo infatti tutti i luoghi comuni tecnico-vocali tuttora vigenti: la ‘proiezione’, la verticalità, la fisio-anatomia, il ‘diaframma’ ecc. Cercare di giustificare la verticalizzazione artificiale dello spazio di risonanza del canto, affermando che “la struttura anatomo-fisiologica è verticale”, è già barare ‘scientificamente’ facendo vedere solo un lato della medaglia invece che entrambi. Se è vero infatti che una delle due cavità di risonanza (la gola) è verticale, si dà il caso che l’ altra (la bocca) sia orizzontale (per non parlare del diaframma, che non è propriamente verticale), motivo per cui la giusta fusione dei due spazi sfocerà semmai in una percezione mentale sintetica di sfericità e non di verticalità.
Che cosa succede se la percezione dello spazio di risonanza è di verticalità? Che uno dei due spazi (quello verticale) ha preso il sopravvento sull’ altro (quello orizzontale), opacizzando e ‘gonfiando’ il suono. Questo grave inconveniente si verifica non solo quando la laringe viene abbassata direttamente, ma anche quando la laringe, invece di SPARIRE dall’ orizzonte percettivo del cantante (come deve succedere se si vuole trovare la risonanza libera del vero canto), viene semplicemente PERCEPITA come posizionata in basso.
Un’ ennesima conferma che il modello tubolare-verticale, introdotto nel canto dalla foniatria, rappresenta il modello di riferimento che accomuna tutte le tecniche vocali attuali è il fatto che esso è stato fatto proprio anche da maestri di canto, contrari all’ affondo. Ad esempio, nella cosiddetta “tecnica muscolare (sic) dei 3 punti” di Gianluca Terranova (dove quel riferimento alla ‘muscolarità’ ci fa già capire che siamo agli antipodi del belcanto) si dice esplicitamente che tutte le vocali devono essere verticalizzate perché non risultino schiacciate, ma questa verticalizzazione (artificiale) non è altro che la diretta conseguenza dell’ avere concepito la forma dello spazio di risonanza in funzione dell’abbassamento della laringe (considerata significativamente come uno dei fatidici 3 punti, che danno il nome al metodo).
In una situazione come questa di stravolgimento, indotto e sancito dalla ‘scienza’ del canto, dei princìpi della vecchia scuola italiana, si rimane felicemente stupiti nello scoprire come due grandi tenori italiani del Novecento, Enrico Caruso e Beniamino Gigli, andando contro corrente, abbiano pubblicamente sconfessato tutte le indicazioni (pseudo)tecniche sopra elencate, riproponendo principi belcantistici come il suono puro, la pronuncia essenziale e il senso dell’orizzontalità quale fonte della brillantezza naturale. La loro autorevolezza come cantanti era tale che nessuno si azzardò mai ad accusarli di propugnare per ciò un’ ‘emissione aperta’ (come invece succederà con Giuseppe Di Stefano, fatto passare scandalosamente da certi esperti in pseudotecnica vocale come l’ emblema negativo dei suoni cosiddetti “aperti”), ma purtroppo neppure la sconfessione esplicita dei cliché tecnico-vocali sopra citati, attuata da questi due grandi cantanti, fu sufficiente a far sì che il mainstream didattico-vocale arrestasse la sua folle corsa verso il precipizio foniatrico, ritornando in extremis al belcanto.
In un’intervista rilasciata al basso Jerome Hines il grande soprano Rosa Ponselle parla dei consigli tecnico-vocali che aveva ricevuto da Enrico Caruso. Uno di questi consigli risulta a prima vista decisamente oscuro e quasi surreale, ma, interpretato nel giusto senso, si rivela illuminante. Ecco come riferisce l’ episodio Rosa Ponselle:
“Caruso mi insegnò, mostrandomi un disegno, che bisogna tenere una gola quadrata. Mi disse che bisogna creare un piccolo spazio ampio nel retro della gola per mantenerla aperta: aperta nel retro e rilassata. È come la sensazione di un quadrato, ma solo negli acuti. Il palato è alto e la parte posteriore della lingua distesa. Il quadrato è raffigurato in questo disegno.”
Guardando il disegno, ci si rende conto che in realtà più che di un quadrato, si tratta di un rettangolo col lato più lungo posizionato orizzontalmente ma, sorvolando ora su questo particolare (per altro significativo), la prima domanda che sorge spontanea, è: cosa ci fa un quadrato (per di più collocato dietro, nello spazio tabù della gola) in una dimensione come quella del canto, che uno naturalmente associa al rotondeggiante e al curvilineo di tutto ciò che è naturale, e non associa certo al rettilineo e all’ angolare? In effetti, comunemente si parla di suono rotondo o, se si è Giacomo Lauri Volpi (ovviamente il Lauri Volpi belcantistico e non il Lauri Volpi foniatrico di quelle “mascherazioni” (sic), che indussero Corelli ad allontanarsi da lui), si parlerà di “suono sferico”, ma nessuno ha mai parlato di suoni quadrati o cubici. Esistono, è vero, i suoni ‘intubati’ (cioè cilindrici), che però non rappresentano un ideale estetico e tecnico-vocale per nessuno, neppure per quei maestri che, senza saperlo, con la loro tecnica inducono paradossalmente gli allievi a produrli.
Quale può essere allora il senso di questa strana indicazione di Caruso? Per capirlo bisogna fare una premessa: nel suo scritto di tecnica vocale Caruso, caso quasi unico tra i cantanti del Novecento, non parla mai (come mai ne avevano parlato i belcantisti nei loro trattati!) né di laringe (e relativo abbassamento), né di ‘maschera’, né di ‘suono avanti’, né di suono ‘proiettato’. Parla di “suono vero e puro”, considerando, esattamente come farà Gigli, la mescolanza delle vocali (eufemisticamente chiamata “copertura”) come una distorsione acustica, che nulla ha a che fare col passaggio di registro. Parla, in fine e soprattutto, dell’ importanza fondamentale della gola aperta, facendo capire che è la gola aperta (nel giusto modo) il fattore che sostanzialmente differenzia il canto dal parlato.
Come si apre correttamente la gola? Caruso, anche qui unico tra i cantanti del suo tempo, non la mette in relazione con astruse manovre meccanico-muscolari come quelle inventate dalla foniatria, ma la fa derivare dal gesto naturale dell’ inspirazione globale (o profonda). A questo proposito è noto che il modello di apertura della gola, introdotto nel canto dalla foniatria e tuttora vigente nella maggioranza delle scuole di canto, è un modello verticale-tubolare, creato abbassando direttamente la laringe e alzando direttamente il palato molle. Questa verticalità viene poi ulteriormente accentuata con prescrizioni accessorie come la protrusione delle labbra e l’ idea di ‘coprire-oscurare’ il suono creando la cosiddetta ‘cupola’, tutte manovre di per sé sufficienti a inibire quel senso di dilatazione orizzontale dello spazio interno, che è quello che permette di conciliare la rotondità con la brillantezza del suono, senza che una sopprima o riduca l’ altra.
Il fatto che gli ‘affondisti’, ovvero quei rozzi (e ingenui) credenti nell’ utopia foniatrica del controllo diretto della laringe, nel cercare di appropriarsi di Caruso facendone un loro precursore, continuino a ignorare che nel suo scritto sul canto Caruso non solo non dice mai di affondare la laringe, ma neppure la nomina mai, si spiega ovviamente con un altro fatto, molto semplice: che dell’aureo libretto di Caruso non hanno mai letto neppure una riga. Ma ciò che in generale i fautori dei tubi sonori verticali (con o senza ‘cupola’) non hanno ancora capito, è qualcosa di ancora più fondamentale, che i belcantisti davano per scontato: nel canto niente (a partire dal colore del suono per arrivare alla posizione della laringe) deve essere controllato direttamente, dato che TUTTO PUO’ E DEVE ESSERE SUSCITATO INDIRETTAMENTE. Ecco perché Caruso non parla mai di laringe da abbassare (come avrebbe fatto, se fosse stato un affondista), ma sempre e solo di gola da aprire “in virtù della respirazione”. Chi, partendo dal fatto che, inspirando in maniera profonda, la laringe naturalmente si abbassa, ne deduce che allora si debba abbassarla direttamente, ragiona come il tizio che, avendo visto che un motore acceso produce calore, pensasse di poterlo accendere riscaldandolo.
Si capisce allora perché Caruso (andando contro i dettami della didattica vocale foniatrica) sia arrivato a concepire la bizzarra idea del ‘quadrato-rettangolo’ nella gola: per evidenziare l’ importanza di quell’ ‘asse orizzontale’ della risonanza della voce, che è in relazione diretta, appunto, con la brillantezza naturale, generata dalla bocca, che è orizzontale. Questa brillantezza naturale è da tenere rigorosamente distinta dalla brillantezza artificiale, creata invece con l’ idea della ‘proiezione’ avanti, la quale schiaccia il suono e induce a spingere la voce, come autorevolmente affermato da Giambattista Mancini nel Settecento e confermato da Franco Corelli nel Novecento (“portare il suono ‘in maschera’ è innaturale e porta a chiudere la gola”).
Ma il fatto che Caruso abbia rappresentato questo spazio come un quadrato e non come un cerchio o una sfera non si spiega solo così: esso è anche un modo per ricordare che la vera apertura della gola nel settore acuto delle voce è percepita dal cantante come un allargamento e non come un allungamento, come prescrive invece la ricetta foniatrica dell”alza-il-palato-molle-e-abbassa-la-laringe’. Infatti, a differenza del cerchio, l’ idea del quadrato o del rettangolo evita il rischio di cadere nella trappola di Manuel Garcia jr., il quale ha associato indissolubilmente l’ idea della ‘cupola’ (cioè di una forma rotondeggiante dello spazio) a quella di “tubo sonoro” verticale. Ora, una volta che la laringe venga abbassata direttamente e/o il palato molle venga alzato direttamente (in base alla formula meccanicistica, inventata da Garcia), lo spazio di risonanza assumerà ipso facto una forma tubolare-verticale, che automaticamente sopprime ogni percezione di dilatazione orizzontale dello spazio di risonanza, anche se si pensa alla ‘cupola’ alta del suono.
È significativo che l”orizzontalità-lateralità’ accomuni tra loro le indicazioni riguardanti la“larghezza” dello spazio di risonanza, lasciate dal più importante trattatista del belcanto, Giambattista Mancini, e quelle lasciate un secolo dopo dal più celebre maestro di canto italiano dell’ Ottocento, Francesco Lamperti. Nel suo metodo di canto Lamperti, dopo aver bollato la ‘maschera’ come uno dei più gravi “DIFETTI” della voce, non solo specifica che “occorre cantare la vocale ‘A’ INDIETRO nella gola, stando attenti che non si trasformi in ‘O’” (cioè stando attenti che non si verticalizzi ovvero si intubi), ma spiega anche il preciso motivo tecnico-vocale, che è alla base di questa prescrizione, scrivendo che la ‘A’ ‘arrotondata’ (leggi: ‘distorta’) in ‘AO’ “potrà dare alla voce un carattere rotondo in una sala, ma LA RENDE MUTA E SENZA VIBRAZIONE IN UN TEATRO.”
Questo, occorre precisare, non perché la ‘A’ di per sé sia più udibile della ‘O’, ma perché la trasformazione artificiale della ‘A’ in ‘AO’ intacca la purezza acustica della vocale, che è quella luce del suono che facilita l’ emissione e rende udibile la voce con massima resa e minimo dispendio di energia (la “natural chiarezza e facilità” di Mancini). Tra l’altro, il fatto che il fenomeno del passaggio di registro (che non consiste nell’ oscuramento, ma nella CHIUSURA FONETICA della vocale), determini di per sé (come effetto e non come causa!) una riduzione della brillantezza e un basculamento in basso (non indotto!) della laringe, costituisce un motivo in più per introdurre nello spazio di risonanza un certo grado di orizzontalità, che compensi la riduzione della brillantezza e impedisca quindi la verticalizzazione del suono. In questo senso l’ orizzontalità agisce da vero e proprio bilanciatore acustico delle risonanze e da antidoto all’ intubamento.
In sintesi, l’ equazione giusta non è brillantezza = anteriorità, ma BRILLANTEZZA = ORIZZONTALITÀ e questo perché solo la seconda si concilia e non si oppone all’ apertura della gola (che si dà il caso non sia ubicata avanti, ma indietro). Pertanto l’orizzontalità porta allo schiacciamento del suono solo in due casi:
1 – se si pensa di dover portare il suono ‘avanti’;
2 – se l’ orizzontalità è realizzata meccanicamente (come ha teorizzato Kraus nella veste di insegnante).
In sintonia con questa concezione si rivela anche un altro grande tenore del Novecento, Aureliano Pertile, il quale nel suo trattato scrive che l’ apertura dello spazio oro-faringeo deve avvenire “più in senso laterale che verticale” e significativamente chiama la gola aperta “gola larga”. Analogamente Beniamino Gigli disse (con un’affermazione sorprendente perché anch’ essa contrasta con tutta la concezione ‘tubolare-verticale’ della voce, iniziata con Garcia jr e proseguita fino ad oggi) che nella zona acuta tutte le vocali devono tendere alla forma dello spazio della vocale ‘A’, che è un altro modo per ricordare che l’ apertura della gola (quale si rende necessaria soprattutto nella zona acuta) deve essere percepita come distensione espansiva e allargamento e non come allungamento o ‘incupolamento’, quale invece è suscitata, ripetiamo, dall’idea dell’ abbassare la laringe e/o dell’ alzare il palato molle e/o del ‘girare’ il suono in avanti. Questo indipendentemente dal fatto che la laringe nella zona acuta si abbassi, dato che, se si vuole che lo spazio di risonanza non si ‘ingessi’ e non si ‘intubi’, la laringe non solo NON deve essere controllata direttamente, ma, come abbiamo visto, neppure deve essere mai percepita dal cantante: né in posizione bassa, né in posizione alta, né in posizione media.
A far sì infatti che la laringe indirettamente si autoregoli e non si alzi superando un certo livello di guardia (senza che venga ingessata e immobilizzata in basso) basta un’idea: immaginare tutti i suoni alla stessa altezza (che non significa nella stessa posizione) e assecondare il progressivo sbocciare dello spazio interno e l’ aumentato contatto elastico con la base respiratoria (appoggio), che naturalmente avviene andando nella zona acuta della voce.
L’ idea del sorriso INTERNO è un altro modo per assecondare sia il movimento naturale dell’ articolazione sia questa dilatazione orizzontale dello spazio. Probabilmente lo era anche l’ idea di tenere la lingua “appianata”, prescrizione questa per altro errata, se interpretata nel suo significato letterale di controllo diretto di un organo come la lingua, che per sua natura e funzione deve rimanere mobile e ‘cangiante’ proprio per dare forma alle diverse vocali. Questa orizzontalità tendenziale e dinamica (che non significa prefissare uno stampino orizzontale, abolendo le vocali ‘O’ e ‘U’, come teorizzerà Alfredo Kraus) è assolutamente naturale e basti pensare che la vocale ‘A’ (vocale dell’orizzontalità) è il suono in cui sfociano moltissimi atti naturali, molti dei quali ‘primordiali’, come ad esempio il vagito (che è un termine onomatopeico, dato che nel latino arcaico ‘vagire’ era pronunciato ‘UAghire’), la risata e il sospiro di sollievo.
Particolarmente significative in fine sono le altre due indicazioni di Caruso, riferite dalla Ponselle:
1 – la gola deve essere “rilassata”, ovvero la sua apertura non deve essere un’ apertura attiva, meccanica e localizzata, bensì passivo-distensiva e ‘olistica’;
2 – questa apertura-allargamento (la gola “quadrata”) deve essere percepita solo nella zona acuta della voce e non anche nella zona centrale della voce, dove, aggiungiamo noi, la sensazione invece deve essere quella di uno spazio vuoto senza pareti (il classico “non avere gola” della tradizione italiana).
Da ciò derivano altri importanti corollari:
1 – se la sensazione del “non aver gola” viene ricercata anche nella zona acuta della voce, la gola non sarà mai aperta e il suono sarà schiacciato;
2 – il tanto temuto “suono ingolato” è la conseguenza o dell’aver aperto la gola attivamente e meccanicamente (invece che passivamente) o del non sapere che nella zona acuta la sensazione non può rimanere quella del “non avere gola” della zona centrale (cioè di uno spazio vuoto senza pareti) ma deve diventare quella di uno spazio le cui pareti si allargano elasticamente (lo “spazio elastico” di Lilli Lehmann);
3 – i deprecati “suoni aperti” (nel senso negativo di suoni schiacciati) sono l’effetto non di questa dimensione orizzontale della risonanza (che è quella che accomuna tutti i più grandi cantanti di scuola italiana e che era evocata dall’ idea del sorriso interno, della vocale ‘A’ e della “lingua appianata”), bensì sono l’ effetto o dell’ incapacità di fondere (grazie alla giusta apertura della gola, creata dal respiro) lo spazio di risonanza della bocca con quello della gola, oppure dell’ idea di ‘proiettare’ avanti il suono;
4 – l’ idea della “cupola del suono”, ormai indissolubilmente associata alla manovra meccanica del sollevamento del palato molle, inibisce la dilatazione orizzontale della gola ed è probabilmente per correggere questo modello spaziale verticale che Caruso ha pensato di ricorrere a mezzi drastici, elaborando l’ idea (apparentemente peregrina) di una “gola quadrata”.
Se pensiamo che il luogo anatomico dove avviene il processo di articolazione-sintonizzazione del suono è orizzontale (la bocca) e che delle cinque vocali italiane ben tre (cioè la maggioranza!) sono orizzontali (‘A’, ‘E’, ‘I’), mentre le altre due (‘O’, ‘U’) sono, volendo usare un termine della fonetica, non tanto verticali quanto ‘arrotondate’, ci rendiamo conto della follia della moderna didattica vocale foniatrica (derivata da Garcia jr.), secondo la quale, andando nel settore acuto, le vocali orizzontali dovrebbero essere verticalizzate, oscurate e ‘adattate’ (eufemismo) alle vocali arrotondate ‘O’ e ‘U’.
Insomma, mentre la didattica vocale del tempo (così come quella odierna) si trastullava con le entità fantasma della ‘maschera’ e della ‘proiezione” e con i meccanicismi laringei e palatali, Caruso si interessava delle prime cause REALI del canto e così si chiarisce anche un altro ‘mistero’: il motivo per cui Caruso disse di essere arrivato a capire come si canta veramente, solo facendo il contrario di quello che gli avevano detto di fare i suoi insegnanti.
Che la sua concezione tecnico-vocale fosse distante anni luce da quella moderna dei tubi verticali e delle bocche ovali è dimostrato in maniera inconfutabile anche dalla fotografia (presa dal libro che su di lui scrisse il foniatra Marafioti e qui riprodotta), fotografia che lo ritrae mentre sta cantando la vocale ‘O’ e la vocale ‘U’. Ebbene, pur rispettando la conformazione di queste due vocali (che esigono naturalmente, a differenza di tutte le altre, l’ arrotondamento delle labbra), si vede chiaramente che Caruso non concepisce lo spazio di risonanza interno come tubolare, ma semmai come sferico e a rendere sferico lo spazio non è altro che l’ idea del sorriso interno, il quale, come la vocale ‘A’, evoca l’orizzontalità e corrisponde idealmente al diametro di questa sfera. Questo fa sì che la sua bocca non assuma mai la forma grottesca dei “mascheroni di fontana”, deprecati da Mancini nel Settecento e diventati di moda con l’ affondo di Melocchi & C. nel Novecento.
Tenuto conto del tipo di voce naturalmente e non artificialmente scura di Caruso, la prescrizione belcantistica del sorriso, che troviamo nel suo scritto di tecnica vocale, smentisce la teoria secondo cui questa indicazione tecnica schiarirebbe il suono e sarebbe applicabile solo alle voci leggere. Essa sconfessa platealmente anche la teoria dei fautori dell’ affondo, secondo cui per non sembrare (o diventare) “tenori castrati” (definizione di Arturo Melocchi) occorrerebbe trasformarsi in un tubo verticale (o nell’ orso Yoghi) e aprire la bocca a mo’ di “mascherone di fontana”.
In sintesi, sorriso interno e gola aperta orizzontalmente (cioè per allargamento e non per allungamento) nella zona acuta sono le vere cause che secondo Caruso sono all’ origine, rispettivamente, della brillantezza e della rotondità del suono, e questo è anche il significato del simbolo del quadrato-rettangolo, trasmesso da Caruso alla Ponselle. In sintesi, la teoria secondo cui, per arrotondare il suono, la forma naturalmente orizzontale della bocca dovrebbe essere modificata e diventare ovale, è la madornale cantonata presa da Garcia jr. e fatta propria dai suoi moderni epigoni, affondisti in primis, i quali con questa teoria semplicemente dimostrano di ignorare come si fonde lo spazio di risonanza orizzontale della bocca con quello verticale della gola.
Purtroppo, se la Ponselle era stata dotata dalla natura di una grande voce come Caruso, non si può dire che sia stata dotata come lui anche di una grande mente. Alla fine dell’intervista, infatti, ecco che improvvisamente, come si suol dire, casca l’ asino e assistiamo a un sorprendente outing della Ponselle. Alla domanda di Hines “Che cosa ne pensa del posizionamento della voce?”, la sventurata rispose:“Si usa la ‘maschera’, il suono avanti. Si ha la sensazione che la faccia stia per staccarsi. Anche la voce di petto deve rimanere sempre ‘in maschera’”. (??!!)
Il che, detto in poche parole, significa semplicemente (e desolatamente) questo: che la Ponselle non aveva capito nulla del discorso di Caruso e che l’ ipnosi foniatrico-vocale, da cui per un attimo Caruso l’ aveva svegliata con l’idea della “gola quadrata”, aveva ripreso tristemente il controllo della sua mente, trasformandola così in uno dei mille propagatori del virus tecnico-vocale, denominato ‘maschera’.
Antonio Juvarra
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