Staatsoper Stuttgart – Don Carlos (ripresa)

Don Carlos

Foto ©Martin Sigmund

La Staatsoper Stuttgart riprende in questi giorni la produzione del Don Carlos che aveva inaugurato la stagione 2019/20 e la cui seconda serie di recite, prevista nel 2021, era stata annullata a causa delle tristemente note restrizioni causate dalla pandefarsa. Per questo allestimento la Staatsoper scelse di eseguire l’ opera nella versione di Modena, l’ ultima delle cinque esistenti, andata in scena nel 1886 ma qui cantata in francese: dalle lettere di Verdi con i librettisti è infatti documentato che il musicista lavorò sempre sul testo originale anche quando riscrisse la musica nelle edizioni rivedute, facendo tradurre il libretto solo dopo aver terminato la composizione. Quella compiuta dalla direzione artistica della Staatsoper fu una scelta senza dubbio coraggiosa sia a livello della scelta testuale che sotto il punto di vista esecutivo, perché Don Carlos è un’ opera che, come poche altre del repertorio, richiede a un teatro delle capacità musicali e tecniche adeguate a un impegno musicale e scenico non indifferente. Questa lunga e complessa partitura, quattro ore di musica tra la più organica e ispirata mai scritta da Verdi, richiede la presenza di sei cantanti di primo piano per i ruoli principali oltre che di un regista e di un direttore dotati di inventiva e personalità, capaci di fare racconto scenico e musicale. Anche in questa ripresa, il teatro ha deciso di affidarsi a un cast formato da giovani cantanti guidati da un direttore italiano considerato una tra le bacchette più promettenti delle ultime generazioni.

Don Carlos

Foto ©Martin Sigmund

Valerio Galli, che in Italia si è guadagnato una meritata reputazione come interprete del repertorio postverdiano e in particolare di Puccini, si è dimostrato a suo agio anche alle prese con la musica di Verdi. Il giovane maestro viareggino è dotato, come avevamo già notato in una ripresa di Tosca qui alla Statsoper poco più di un anno fa, di una tecnica solida e sicura oltre che di senso del racconto teatrale e capacità di infondere sicurezza ai cantanti. La sua capacità di assicurare un carattere unitario alla narrazione teatrale si unisce a un buon istinto nel graduare gli equilibri fra buca e palcoscenico, requisito assolutamente indispensabile a un autentico direttore d’ opera. Nel complesso, una prestazione di ottimo livello, nella quale Valerio Galli si è dimostrato inteprete incisivo e dotato di una cifra stilistica personale nel realizzare molto bene sia il tono grandioso dell’ affresco storico nelle scene di massa come quella dell’ Autodafè che gli squarci di passionalità lirica. A questo punto, dopo una prova così convincente, mi piacerebbe ascoltare il direttore toscano in altre opere del Verdi maturo come ad esempio Un ballo in maschera, Aida e Otello, nelle quali potrebbe avere diverse idee interessanti da proporre.

Don Carlos

Foto ©Martin Sigmund

Purtroppo, come avevo scritto quattro anni e mezzo fa, la messinscena di Lotte de Beer, regiata olandese di cui io avevo già fatto esperienza in uno sciagurato allestimento del Trittico di Puccini alla Bayerische Staatsoper, mi è sembrata confusa, irrisolta e spesso poco comprensibile nella realizzazione degli effetti scenici, oltre che complessivamente monotona. Mancava in questo allestimento soprattutto il senso del grande affresco storico immaginato da Verdi in questa partitura basata sul modello teatrale del grand-opéra, rielaborato da Verdi in maniera da conferire il massimo rilievo al contrasto fra le passioni private e i comportamenti pubblici di personaggi appartenenti a una corte regale. A questo bisogna aggiungere diverse cadute di gusto nella recitazione: tra quelle che mi sono sembrate piú gravi, citerò il comportamento da autistico borderline di Don Carlos e tutta la prima scena del quarto atto, recitata dai cantanti in pigiama e biancheria intima come in una soap opera di quart’ ordine. Tra l’ altro, a proposito di questo momento scenico, era completamente assurda l’ idea di far vedere Filippo II a letto con Eboli durante il preludio: il testo del monologo cantato dal monarca spagnolo dice esplicitamente che lui è rimasto sveglio a meditare per tutta la notte sul sonno che non riesce più a trovare. Ignorare tutto questo significa che la signora o signorina De Beer non ha neppure letto il libretto. Molto manchevole mi è sembrata anche l’ organizzazione delle grandi scene corali e fastidiosa la presenza continua di un gruppo di bambini che interferivano nell’ azione. Pessima era anche l’ idea di iniziare il terzo atto con il balletto della versione 1866, che estrapolato dall’ intera scena non significa nulla, in una pessima rielaborazione che finiva in un comico fracasso di percussioni. Nell’ insieme, uno spettacolo scenico che anche alla seconda visione io ho trovato incoerente, noioso, lento e inutilmente macchinoso nell’ azione scenica, oltre che piatto e visivamente monocromo nella sua eterna prevalenza di colori scuri.

Don Carlos

Foto ©Martin Sigmund

Ad assicurare il buon esito artistico della serata ha comunque provveduto l’ ottima prestazione della compagnia di canto, quasi completamente rinnovata rispetto al primo ciclo di recite della produzione. Rispetto all’ inconsistente protagonista di quelle serate il tenore sudcoreano Junghoon Kim, debuttante nel ruolo, ha offerto un ritratto vocalmente molto più riuscito dell’ Infante di Spagna, grazie a una voce tecnicamente abbastanza in ordine e dotata di una bella tempra nelle note acute. Il soprano moldavo Olga Busuioc ha ripetuto la sua convincente interpretazione di Elisabetta, che mi era sembrata la cosa migliore delle recite del 2019. La voce è molto bella di timbro, luminosa nelle note alte e la cantante moldava ha amministrato in maniera tecnicamente molto saggia i passi in cui la regina spagnola canta in tessitura grave. Anche la resa scenica è sembrata nel complesso efficace. Diana Haller non era in perfetta forma a causa di problemi di salute ma, dopo un inizio prudente nella scena del giardino, la sua interpretazione ha preso quota e ne è venuto fuori un bel ritratto vocale e scenico della passionalità impetuosa della Principessa Eboli. Il giovane baritono bavarese Johammes Kammler, che qui a Stuttgart ci ha fatto ascoltare diverse interpretazioni pregevoli nel repertorio tedesco e nella liederistica, si è dimostrato sicuro anche nella vocalità verdiana e il suo ritratto del marchese di Posa era senza dubbio convincente per intelligenza e consapevolezza del fraseggio. Il basso polacco Adam Palka, alle prese con un ruolo molto complesso e ricco di sfaccettature psicologiche come quello di Filippo II, ha offerto una prestazione di buon livello grazie a una voce di bel colore e buona risonanza, anche se nelle note acute il timbro perde in qualità perché il cantante non gira il suono, e a un comportamento scenico abbastanza sicuro nel delineare la truce grandezza del personaggio. Positiva è sembrata anche la prova del basso italiano Gianluca Buratto, dotato di una voce abbastanza adatta per timbro e risonanza al ruolo del Grande Inquisitore. Vocalmente piuttosto interessanti erano anche il Moine del basso-baritono viennese Michael Nagl e il Thibaut del soprano neozelandese Natasha Te Rupe Wilson, due giovani cantanti usciti dall’ Opernstudio della Staatsoper. Il teatro era quasi pieno e il pubblico ha applaudito a lungo tutti i protagonisti di una recita che, soprattutto dal punto di vista musicale, è sembrata complessivamente assai pregevole.


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