Antonio Juvarra – “Il belcanto farlocco di Giancarlo Del Monaco, regista”

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Iniziamo il mese di febbraio con il consueto articolo che Antonio Juvarra da tempo scrive in esclusiva per noi. Ringraziandolo come sempre per la collaborazione, auguro buona lettura a tutti.

IL BELCANTO FARLOCCO DI GIANCARLO DEL MONACO, REGISTA

Uno dei pochissimi elementi, se non l’ unico, che accomuna la didattica del belcanto a quella odierna è il fatto, attestato (e deplorato) dal castrato Tosi, che a insegnarlo, oggi come allora, ci sono moltissime persone che non solo non hanno mai messo piede su un palcoscenico per cantare, ma neanche hanno mai emesso un suono cantato in vita loro. A questa lunga lista si aggiunge oggi Giancarlo Del Monaco, figlio del celebre tenore Mario Del Monaco, regista nonché direttore artistico di vari teatri lirici, che ha pensato bene di dedicarsi anche lui all’ hobby dell’insegnamento del canto, annunciando una sua imminente masterclass in cui si occuperà (cito testualmente) della “costruzione del suono in qualità lirica”. Già un’ espressione come questa vale come una vera e propria dichiarazione d’ intenti antibelcantistica e basti pensare che è nel suono puro, “sorgivo” e non nel suono imitativo, costruito, “affettato” (ovvero artefatto) che la scuola di canto italiana storica ha sempre visto la sorgente del vero canto. Uno dei modi per artefare il suono è proprio quello di concepirlo come il risultato di una “costruzione”, che, se attuata in modalità “lirica”, quasi sempre consiste nell’ operazione meccanica di abbassamento diretto della laringe, idea questa, di origine foniatrica, condivisa in pieno da Giancarlo Del Monaco, seguace dello zio Marcello Del Monaco, maestro di canto che mai emise un suono cantato in vita sua, ma in compenso fece sua la fissazione moderna del posizionamento della laringe.

In effetti, la differenza tra i maestri di canto non cantanti di una volta e quelli odierni è che i primi (tra i quali troviamo anche il grandissimo maestro e trattatista Giovanni Battista Lamperti) non credevano alla moderna mistificazione scientifica secondo la quale il loro deficit di partenza (non aver mai cantato) sarebbe sanabile grazie allo studio del libretto d’ istruzioni meccanico-muscolare del canto, elaborato dai foniatri, libretto d’ istruzioni che include anche la manovra dell’ abbassamento diretto della laringe cantando. Questo per un semplicissimo motivo, considerato dai belcantisti un assioma scontato: se si ha la percezione della laringe cantando (sia essa in posizione alta, bassa o media), significa che la gola non è aperta nel giusto modo e non può di conseguenza crearsi quel mirabile fenomeno acustico del canto a risonanza libera, passato alla storia come belcanto. Il risultato allora sarà appunto un canto imitativo di tipo meccanico-muscolare: uno dei tanti in circolazione da quando la foniatria cosiddetta artistica (ossimoro) è riuscita nell’ impresa di mettere al centro dell’educazione vocale la laringe e i vari muscoli del corpo.

Quello che i ‘laringomani’ vocali di rito foniatrico (passati e presenti) ancora non hanno capito è che è la giusta apertura INDIRETTA della gola (tramite l’ inspirazione naturale globale) che fa INDIRETTAMENTE abbassare la laringe, mentre l’ abbassamento DIRETTO della laringe è il modo migliore per NON aprire la gola nel giusto modo e quindi per impedire che nasca il suono a risonanza libera del belcanto, noto anche come ‘suono alto’ (che nulla ha a che fare con la ‘maschera’). Questo è il motivo per cui nei trattati classici del belcanto italiano non si dice mai una parola sulla posizione della laringe cantando. E non si dice nulla non perché, come nella loro presunzione hanno pensato i moderni, a quell’epoca si ignorasse che la laringe è un organo mobile, che può salire e scendere. A dimostrarlo è questo semplice fatto storico: già nel 1750 un tenore FRANCESE di nome Jean Antoine Bérard (inventore del termine “corde vocali” nonché precursore della moderna ‘anatomia della voce’) aveva scritto un trattato in cui prescriveva le diverse posizioni da dare alla laringe in rapporto all’altezza del suono, ma si dà il caso che più di vent’anni dopo, nel 1777, un cantante ITALIANO, di nome Giambattista Mancini, scriverà quel vangelo del belcanto che sono le ‘Riflessioni pratiche sul canto figurato’, dove, andando contro il nascente meccanicismo foniatrico dei francesi, volutamente non si nomina mai la laringe né tanto meno si parla della posizione da dare alla laringe cantando.

Questo rifiuto di considerare il controllo diretto della laringe come un elemento costitutivo di una tecnica vocale di alto livello rappresenta una costante della scuola di canto italiana dalla sua nascita fino alla seconda metà dell’Ottocento, quando anche in Italia qualcuno, influenzato dai foniatri francesi, incomincerà a farneticare di laringe da abbassare direttamente o addirittura (vedi Marcello Del Monaco) da tenere nella posizione più bassa. A questo proposito una volta il tenore Mario Del Monaco (quando ancora credeva alle teorie di quella scuola di canto foniatrico che il suo fondatore, Arturo Melocchi, definì testualmente la “scuola della laringe bassa”) disse che ascoltando Caruso si rese conto che cantando “affondava la laringe”. In realtà (e questa è la differenza tra la scuola del belcanto e le moderne “scuole della laringe bassa) Caruso non ha mai pensato di abbassare direttamente la laringe, consapevole com’era dei disastrosi effetti collaterali di un intervento grossolano come questo. A provarlo è il fatto che nel suo libricino di tecnica vocale Caruso non solo non dice mai di abbassare la laringe, ma neppure la nomina mai. Esattamente come avevano fatto i belcantisti nei loro trattati. Sottolinea invece ripetutamente l’ importanza della “giusta apertura della gola”, spiegando come si realizza, ma senza mai metterla in rapporto con l’ abbassamento della laringe, abbassamento che, se attuato direttamente, paradossalmente impedisce la giusta apertura della gola.

Purtroppo Giancarlo Del Monaco, seguendo le orme dello zio Marcello (invece che di Caruso), continua a ignorare ‘beatamente’ le caratteristiche tecnico-vocali del vero canto di scuola italiana e quindi è destinato a replicare il suo exploit di tre anni fa, quando in un’ intervista rilasciata ad Alessando Mormile si improvvisò anche storico del canto, riproponendo pro domo patris la fandonia foniatrica della ‘nuova tecnica vocale’, di tipo ‘turbo’, che sarebbe magicamente apparsa nell’ Ottocento, soppiantando la tecnica belcantistica, e che si sarebbe poi evoluta ulteriormente, producendo “i grandi cantanti italiani degli anni Cinquanta del Novecento”, tra cui il padre dell’intervistato, Mario Del Monaco appunto.

Secondo questa fiaba (inventata dai foniatri francesi dell’Ottocento e sviluppata poi dai foniatri italiani del Novecento e dai fautori di quel ferrovecchio foniatrico-vocale che è l”affondo’ di Melocchi) nella prima metà dell’ Ottocento sarebbero esistite due distinte tecniche vocali: una, ormai avviata verso il tramonto, e cioè la tecnica tradizionale del belcanto, caratterizzata dalla capacità di esprimere solo il virtuosismo di agilità o, al massimo, il patetismo elegiaco, e un’ altra, più potente, in grado di affrontare ed esprimere appieno in tutta la sua dirompente potenza drammatica e vocale il repertorio operistico di Verdi e del verismo. L’ iniziatore e il simbolo di questa rivoluzione tecnico-vocale (farlocca) sarebbe da considerare il tenore francese Gilbert Duprez, che, stando a Giancarlo Del Monaco, avrebbe niente di meno che “inventato il do di petto nel 1831” (sic).  Come in tutte le fiabe che si rispettano c’è l’ eroe e c’è l’ anti-eroe, così anche nella fiaba raccontata da Giancarlo Del Monaco esiste un malvagio, un ‘vilain’, che Del Monaco si premura di definire testualmente “un personaggio nefasto, che ha distrutto tutto” e che viene da lui individuato nel critico musicale italiano Rodolfo Celletti. La sua colpa? Avere in un certo senso ‘ricastrato’ la tecnica vocale, nel senso di averla riportata all’ epoca dei castrati, epoca in cui i cantanti (secondo Del Monaco) sarebbero riusciti solo a cinguettare arie di agilità, essendo del tutto incapaci di esprimere un canto eroico e drammatico come quello che si sarebbe sviluppato solo con Verdi.

Una ricostruzione storica di questo tipo, a base di semplici luoghi comuni, è ovvio che ha la stessa attendibilità e la stessa profondità che può avere una concezione dell’Italia come somma di sole, mare, pizza e mandolini. Ma prima di andare avanti a esaminare la fiaba, raccontata da Giancarlo Del Monaco, è il caso di spendere due parole esplicative sul “personaggio nefasto” in questione: Rodolfo Celletti.

Celletti è stato un critico musicale, uno storico della vocalità e, più che un maestro di canto (come pure amava definirsi), un orecchio diagnostico finissimo. Come critico musicale, si era fatto odiare da molti per il tono sarcastico, saccente, fazioso e lapidario con cui spesso esprimeva le sue critiche. Tra i cantanti divenuti oggetto di questo ‘trattamento’ c’ era anche il padre di Giancarlo Del Monaco, il famoso tenore Mario per l’ appunto. Ora un conto è biasimare Celletti per i suoi ‘eccessi critici’ al fine di difendere la memoria del proprio padre, e un altro conto è, per arrivare a questo scopo, ricostruire a proprio uso e consumo tutta la storia del canto e delle tecniche vocali. Tra i due comportamenti c’ è una notevole differenza, che è la differenza esistente tra verità e falsificazione storica. Questo anche volendo sorvolare sul fatto che le critiche, rivolte da Celletti a Mario Del Monaco, non erano più feroci di quelle rivolte dallo stesso Mario Del Monaco ad altri tenori. Il Giancarlo Del Monaco che si lamenta per le stroncature che il padre subì da Celletti, è infatti incredibilmente lo stesso personaggio che in altre interviste non solo definisce il padre “imparagonabile” (per unicità e superiorità) a tutti gli altri tenori, ma si compiace anche di rivelare pubblicamente aneddoti che non mettono propriamente in luce il padre come personificazione del fair play. Racconta ad esempio che una volta, in occasione di una recita di Aida, interpretata da Placido Domingo, Mario Del Monaco, presente in sala come spettatore, alla richiesta di un giornalista di dire che cosa pensasse dei suoi colleghi, rispose altezzosamente (à la manière de Celletti?) che “i suoi colleghi erano tutti morti e si chiamavano Beniamino Gigli ed Enrico Caruso” (citazione testuale). E con questa uscita abbiamo l’ esatta misura non solo dell’ umiltà di Del Monaco padre e di Del Monaco figlio, ma anche della loro incredibile ignoranza di un fatto obiettivo: che dal punto di vista tecnico-vocale Beniamino Gigli ed Enrico Caruso non erano propriamente “colleghi” di Mario Del Monaco, il quale era sì “imparagonabile” a loro e agli Schipa e i Pertile, ma non nel senso immaginato da Giancarlo Del Monaco, il quale è seriamente convinto che il padre sia stato niente di meno che “il più grande tenore drammatico del Novecento” (citazione testuale).

Nel teorizzare la contrapposizione (fasulla!) tra una tecnica ‘edonistica’, basata sui gorgheggi, che Del Monaco definisce “rossiniana”, e una tecnica ‘virile’, basata sul declamato e la potenza vocale, che Del Monaco definisce “verdiana”, Giancarlo Del Monaco ripropone un’ idea che anche suo zio, Marcello Del Monaco, sulla scia della foniatria, aveva espresso molti anni prima, quando parlò di un “falsettismo che, trionfante per tutto il Settecento e parte dell’ Ottocento, sarà poi bandito con tutto il virtuosismo connessovi.” (sic) Ora la semplice idea che prima della rivoluzione (farlocca) del “Do di petto” le voci maschili cantassero in falsetto è, volendo essere eufemistici, qualcosa di surreale, e basti solo pensare al fatto che gli autori dei primi trattati del belcanto, dove per la prima volta appare l’ indicazione (da cui è nata la bufala del “falsettismo”) di “registro di testa o di falsetto”, erano castrati, per cui ipotizzare che cantassero in falsetto nel registro acuto della voce è come pensare che oggi un soprano, quando fa una nota acuta, la canti in falsetto. Non solo: dato che all’ epoca castrati e prime donne si alternavano negli stessi ruoli, credere all’ idea bislacca del belcanto come “falsettismo” sarebbe come credere che nel ruolo di Azucena possano alternarsi il mezzosoprano Ebe Stignani e il controtenore James Bowman…

Usciamo adesso da questa fiaba, inventata dalla foniatria e fatta propria da Giancarlo Del Monaco, e ritorniamo nella realtà. La presunta rivoluzione tecnico-vocale del “Do di petto” consistette, molto più squallidamente, in questo: intorno agli anni Trenta/Quaranta dell’Ottocento accadde che la tecnica vocale naturale universale del belcanto italiano diventasse oggetto delle ‘attenzioni’ e delle distorsioni del riduzionismo scientifico-foniatrico dell’ epoca, che elaborò un suo surrogato meccanicistico e pesantemente muscolare, spacciandolo per una nuova tecnica vocale in grado di sviluppare una potenza molto superiore a quella tradizionale del belcanto italiano. Di che razza di ‘nuova tecnica vocale’ si trattasse possiamo renderci conto perfettamente, se pensiamo che l’ eroe di tale rivoluzione (questa sì “nefasta”!), il già citato Gilbert Duprez, finì la sua carriera a soli quarant’ anni perché rimasto senza voce a forza di urlare, e che nei trattati scientifici dell’ epoca, che per primi parlarono, riferendosi a lui, di una “nuova tecnica vocale”, gli autori, dei foniatri, sostenevano tranquillamente che, utilizzando questa nuova tecnica vocale, fosse da considerare normale il fatto di rimanere stremati dalla fatica cantando. In altre parole i foniatri si misero a teorizzare esattamente il contrario di quello che avevano scoperto i trattatisti del belcanto, quando stabilirono come criterio della giustezza di una tecnica vocale la facilità di emissione, anche cantando a piena voce.

Ma per avere un quadro veritiero (e non deformato dalle mitizzazioni foniatriche) del prodotto di questa nefasta ‘rivoluzione’ tecnico-vocale (prodotto rappresentato dalla muscolarizzazione e meccanizzazione del canto, iniziata in quel periodo in Francia), basta leggere le parole di un autorevole testimone dell’ epoca, il maestro di canto Heinrich Panofka, che scrisse:

“Il do di petto è diventato ormai la sola ambizione dei tenori; lo cercano dalla mattina alla sera, soffiando, alzando le braccia, contorcendosi come pazzi: il tutto per una nota! La bella declamazione, la nobile maniera di fraseggiare, il sentimento drammatico sono nulla per loro. Non guardano che al do di petto, questa California vocale alla quale sacrificano tutto: famiglia, salute, intelligenza, denaro, esattamente come fanno i cercatori d’ oro, ai quali assomigliano i nostri tenori, che ritornano col petto vuoto come quelli tornano colle tasche e colle mani vuote. Il che fece dire al direttore d’un conservatorio, prontissimo ai frizzi, un giorno che un forestiero, passeggiando con lui nella corte dell’ edificio, lo andava interrogando sulla cagione degli urli strazianti che partivano da una sala: “non ci badate, è un tenore che si sta svuotando” ”.

Ora questa testimonianza di Panokfa è del 1875 (cioè è stata scritta in epoca ‘verdiana’ e non ‘cimarosiana’ o ‘rossiniana’), il che dimostra che la finalità perseguita da Rodolfo Celletti, e cioè il bando degli “urli strazianti” e il ripristino di quella che Panofka chiama qui “la bella declamazione e la nobile maniera di fraseggiare”, è qualcosa di insito nei principi estetici e tecnico-vocali stessi, di per sé senza tempo, del vero canto e non è quindi qualcosa di limitato allo stile di un determinato periodo storico. Del Monaco poi, nello stabilire la falsa equazione “tecnica belcantistica = agilità rossiniana”, dimentica un fatto storico eclatante, che è questo: prima di Rossini è esistito un genio musicale e teatrale, nelle cui opere già emergono e trovano spazio (e non nella maniera discontinua e abbozzata del precursore, ma nella maniera compiuta, autonoma e autorevole del fondatore) proprio quelle caratteristiche di potenza vocale e drammatica, che sarebbero di lì a pochi anni divenute tipiche degli autori tra Ottocento e Novecento citati da Del Monaco, e questo autore è Mozart. Giancarlo Del Monaco cita come esempio di vocalità drammatica (resa possibile secondo lui solo dalla ‘nuova’ tecnica vocale, che sarebbe nata all’ epoca di Verdi) il concertato dell’ Ernani “Oro, quant’oro ogni avido”, che, sia musicalmente sia tecnicamente, è ‘acqua fresca’ rispetto alla potenza drammatica e alla difficoltà tecnico-vocale di un brano come il recitativo e aria “D’Oreste, d’Aiace” dell’ Idomeneo di Mozart. In effetti l’ esistenza stessa di certi ruoli vocali mozartiani (Donna Anna in primis) è sufficiente di per sé a smentire la falsa equazione ‘tecnica belcantistica = suono grazioso e agile, ma debole’, e questo non soltanto perché, se così fosse, tutti i capolavori vocali mozartiani basati sulla potenza drammatica e vocale non sarebbero mai stati scritti (oppure sarebbero rimasti ineseguibili per anni, magari in attesa della fantomatica ‘rivoluzione tecnico-vocale’ del 1840), ma anche e soprattutto perché nel più importante trattato del belcanto, le Riflessioni di Mancini, si parla dell’ ideale della “voce forte, sonora, gagliarda”, per cui quando troviamo (nello stesso trattato) la prescrizione della “dolce facilità”, la si deve intendere non come invito a stare distanti dall’ energia e a fare suoni flebili o campati per aria, ma come contatto iniziale dolce con l’energia. Addirittura le inconsistenti (e inesistenti in quanto tali) ‘voci settecentesche’, immaginate da Giancarlo Del Monaco (e da suo zio), vengono definite testualmente dal settecentesco Mancini “vocette infelici” e addirittura se ne prescrive specificamente la ‘cura’, il che è sufficiente a fornirci un’idea di quale fosse la vera tecnica belcantistica, una tecnica lontana sideralmente da quella immaginata da Giancarlo Del Monaco.

Inoltre, ribadito che Gilbert Duprez non “inventò” nulla, avendo imparato tutto in Italia (tranne che a urlare), e che non rappresenta affatto una sorta di iniziatore di una qualche ‘tecnica vocale verdiana’, c’ è da osservare che Giancarlo Del Monaco con la sua tesi mostra di ignorare che la flessibilità (alias agilità) e la potenza non sono affatto fattori antitetici della voce, ma complementari. Non può esserci infatti vera potenza-resistenza vocale, se non c’ è flessibilità, e questa è una legge fisica universale che interessa non solo la voce umana, ma anche, ad esempio, le strutture architettoniche, che, se non sono flessibili, alla prima scossa di terremoto crollano.
In altre parole, quelle che Giancarlo Del Monaco considera caratteristiche strutturali di due distinte tecniche vocali (quella ‘belcantistica’ dell’ agilità-flessibilità e quella ‘romantica’ della potenza-veemenza) sono in realtà i due poli della voce, che sempre coesistono e coagiscono nella vera tecnica vocale, come dimostra la stessa concezione della vocalità di un Verdi, il quale nella forma musicale dell’ aria con cabaletta mette sempre in luce queste due facce della medaglia, che sono naturalmente presenti in ogni voce correttamente educata. Questo indipendentemente dall’ eventuale maggiore propensione naturale di un dato cantante per uno o l’ altro dei due poli della voce. Pertanto il riferimento a fantomatiche tecniche vocali ‘verdiane’ e/o ‘veriste’ non è altro che il modo con cui i fautori del meccanicismo vocale foniatrico hanno cercato di nascondere (spacciandola per nuova tecnica vocale ‘turbo’) l’ atrofia del polo della flessibilità, causata da queste stesse tecniche.

Dato che Del Monaco nella sua intervista parla di una “responsabilità” da imputare a Celletti per aver voluto ripristinare i principi estetici del belcanto, è bene chiarire allora che, simmetricamente e sul versante opposto, ad essere responsabile dei danni provocati al canto dalla ‘rivoluzione’ o più precisamente degenerazione foniatrica della tecnica vocale, c’ è anche lo zio di Giancarlo Del Monaco, Marcello Del Monaco, maestro di quella prosecuzione novecentesca della tecnica foniatrica, che ha nome ‘affondo’, e ironicamente accomunato a Celletti per il fatto che entrambi insegnavano canto senza aver mai cantato in vita loro. Ora, ad accusare Marcello Del Monaco di aver contribuito a danneggiare il canto con la tecnica vocale da lui insegnata, non troviamo solo Celletti, ma anche, paradossalmente e significativamente, un cantante che si può considerare al di sopra di ogni sospetto di ‘cellettismo’, proprio per essere stato anch’egli oggetto di dure critiche da parte di Celletti. Questo cantante è Giuseppe Di Stefano, il quale in una lezione che diede al tenore Piero Visconti, ebbe ad affermare drasticamente e testualmente: “La scuola Del Monaco ha rovinato tutto”.

In questa stessa lezione Di Stefano rivela anche che, avendo provato una volta a cantare con la tecnica dell’affondo, insegnatagli da Mario Del Monaco, non riusciva più a cantare, e auspica quindi il ritorno alla concezione del canto, basata sul senso della parola come “articolazione semplice e naturale” di Enrico Caruso, concetto questo condiviso sia da Giacomo Lauri Volpi quando parlava di “libera articolazione”, sia da Beniamino Gigli quando parlava di “pronuncia mentale e facile”, sia da Aureliano Pertile quando parlava di “pronuncia non esagerata”, e che altro non è che “la bella declamazione”, auspicata e rimpianta da Panofka nel passo sopra citato. Per contro, l’ articolazione “declamata-detonata”, teorizzata da Del Monaco, non ha nulla a che fare con la scuola di canto italiana storica, il che smentisce anche la seconda fiaba, raccontata nell’ intervista da Giancarlo Del Monaco, quella secondo cui Caruso sarebbe stato (bontà sua!) un “precursore di Del Monaco” (sic), quando è sufficiente leggere il già citato libricino sul canto, scritto da Caruso, per rendersi conto che i suoi principi tecnico-vocali erano letteralmente antitetici a quelli di Del Monaco. Questo, giusto per dare a Celletti quel che è di Celletti, a Del Monaco quel che è di Del Monaco e a Caruso quel che è di Caruso.

In sintesi, come storico della vocalità, Celletti ha avuto il merito indiscutibile di aver messo in primo piano, come ideale estetico, il canto ‘legato’ all’italiana, fatto di levità, morbidezza, spontaneità, ricchezza di armonici, lucentezza, varietà di fraseggio, contro il moderno canto monolitico delle vociferazioni, delle detonazioni, dei muggiti, degli affondi e delle voci appesantite e spinte. Il paradosso sorprendente, ignoto a Giancarlo Del Monaco, è che invece le idee tecnico-vocali di Celletti, così come da lui esposte nel suo libro ‘Il canto’, avevano ben poco a che fare col vero belcanto, quale è attestato dai trattati classici dell’ epoca, anzi sono molto più simili a quella di Marcello Del Monaco di quanto si possa immaginare. A questo proposito si potrebbe chiedere a Giancarlo Del Monaco chi, in base alle sue concezioni tecnico-vocali, è l’ autore di questa frase:

“Nel canto la bocca si apre abbassando la mascella, come in uno sbadiglio. L’ apertura ‘a sorriso’ non agevola l’ emissione tendenzialmente scura del suono e porta a suoni sbiancati al centro e ad acuti striduli. Ho letto che le antiche scuole di canto praticavano un’ emissione chiara. Tuttavia il tenore Gilbert Duprez, che cantò continuativamente in Italia dal 1829 al 1836, scrisse che i cantanti italiani non conoscevano altra emissione che quella scura.”

Ora, chiunque conosca la tecnica dell’ affondo (quindi, ovviamente, anche Giancarlo Del Monaco), risponderebbe che l’ autore di queste indicazioni è Marcello Del Monaco, mentre invece l’ autore è, sorprendentemente, Rodolfo Celletti. E col colpo di scena di queste parole (scritte non da Marcello Del Monaco, ma da Celletti nel suo libro di tecnica vocale, intitolato ‘Il canto’) si potrebbe scrivere un altro articolo, che avrebbe il seguente titolo: “La scuola di canto italiana storica, che sia Giancarlo Del Monaco, sia Marcello Del Monaco, sia Rodolfo Celletti, ignorando i suoi veri principi tecnico-vocali, hanno sempre confuso col suo surrogato foniatrico tardo-ottocentesco”.


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