
Eccovi la terza parte dell’ articolo di Antonio Juvarra dedicato alla tecnica dell’ affondo. Grazie come sempre ad Antonio per la preferenza accordata a questo sito e buona lettura a tutti.
PARIDE VENTURI E LE PANZANE DI MELOCCHI
(terza e ultima parte)
In una sua lettera a Theodor Uhlig, Richard Wagner parla dello “choc” da lui provato quando scoprì che la sua idea di un eroe incapace di sentire la paura (idea ispiratrice del personaggio di Siegfried) l’ avevano già avuta i fratelli Grimm, quando scrissero la fiaba “Storia di uno che se ne andò in cerca della paura”. Un analogo choc attende gli studiosi dell’ affondo quando scoprono un’ affinità ancora più sconcertante, che è la seguente. L’ affondo ha la pretesa di presentarsi come metodo scientifico, ma nella realtà esso si basa sostanzialmente sulla stessa tecnica usata dai bambini per fare il ‘vocione’ quando vogliono imitare i cantanti lirici e cioè: spalancare la bocca verticalmente, abbassare il pomo d’ Adamo e imporre allo spazio di risonanza la forma della vocale ‘O’. Il fatto che, applicata a cantanti professionisti invece che ai bambini, questa tecnica non produca lo stesso effetto caricaturale, si spiega in un modo molto semplice: tutti i cantanti che hanno fatto carriera usando l’ affondo, l’ hanno fatta non grazie all’ affondo, ma grazie alla voce naturale, di cui erano già in possesso prima di studiare canto, e a confermarlo sono i casi di Mario Del Monaco, Gianfranco Cecchele, Nicola Martinucci, Mario Melani, e altri, tutti cantanti che hanno studiato l’ affondo solo per pochi mesi, essendo già in possesso di una voce pronta per il teatro, o che addirittura, come nel caso di Paride Venturi, avevano già iniziato la carriera di cantante lirico prima di studiare l’ affondo.
Ma a contraddistinguere l’ affondo c’ è un altro paradosso ironico: i suoi moderni cultori ignorano (o fingono di ignorare) che questa tecnica (che ha ribaltato i principi della scuola di canto italiana storica) è stata elaborata da personaggi che non hanno mai cantato. Più precisamente, a inventare quello che rappresenta a tutti gli effetti il prototipo ottocentesco dell’ affondo (il “timbre sombre” o “voce oscurata” di Garcia) fu un tizio (Manuel Garcia junior appunto), che rimase senza voce dopo soli quattro anni di carriera, fu definito dalla sorella Pauline Viardot “la rana che cerca di imitare il bue” e terminò ingloriosamente la sua carriera dopo che un critico scrisse di lui: “consigliamo a questo giovane di dedicarsi a un’altra attività”.
Nel Novecento chi ‘perfezionò’ (in modalità hard) la tecnica della voce scura a laringe abbassata di Garcia fu un semplice diplomato in canto (Arturo Melocchi), che non mise mai piede su un palcoscenico per cantare e fu cacciato per incapacità dalla cattedra dell’ istituendo conservatorio di Pesaro da Umberto Giordano. A proseguire l’ opera di divulgazione dell’ affondo s’ incaricò poi un terzo insegnante (Marcello Del Monaco), che faceva il dirigente scolastico e che mai emise un suono cantato in vita sua, neppure a lezione. In conclusione, quando gli affondisti esibiscono come prova della validità di questa tecnica il fatto di essere stata adottata da alcuni cantanti che hanno fatto un’ importante carriera (ad esempio Giuseppe Giacomini), dimenticano che a farli cantare non è stata questa tecnica (un grossolano ferrovecchio foniatrico, inventato da non cantanti), ma è stata un’ entità completamente diversa e questa volta benefica: madre Natura. Pertanto il mito di un Melocchi “costruttore di voci” non è altro che una balla promozionale e a dimostrarlo è un fatto, che rappresenta il terzo paradosso ironico dell’ affondo: il “costruttore di voci” Melocchi non riuscì mai a ‘costruire’ la voce del suo successore diretto, Marcello Del Monaco, che mai apprese il canto, pur insegnandolo agli altri, e questo fatto (quarto paradosso ironico) fa di Marcello Del Monaco l’ indesiderato collega di un altro maestro di canto che mai cantò in vita sua e che il nipote di Del Monaco, Giancarlo, in un’ intervista definì addirittura un personaggio “nefasto”: Rodolfo Celletti.
Il quinto e ultimo paradosso ironico che caratterizza l’ affondo, è questo: mentre la scienza, usata dall’ affondo per atteggiarsi a metodo ‘scientifico’, è la paleo-scienza materialistico-meccanicistica dell’ Ottocento e si esprime come feticismo anatomico e come valorizzazione della ‘massa’, invece il belcanto, nato senza alcuna velleità scientifica, è in perfetta sintonia con certi principi della scienza moderna come il principio di ‘non località’, l’ olismo e il principio dell’ energia nucleare, intesa come quell’ energia che si sprigiona naturalmente dall’ elemento più piccolo, ‘nucleare’, che nel caso del canto è il suono puro del parlato.
Se la formula del belcanto è sempre stata “suono leggero e potente”, quella dell’ affondo potrebbe definirsi, al contrario, ‘suono pesante e spinto’ e a questo proposito non bisogna dimenticare che l’ affondo, in quanto tecnica vocale grossolana, era già conosciuto nei suoi elementi fondamentali ai tempi del belcanto, tanto che Mancini l’ aveva liquidato ante litteram con la definizione icastica “cantare a gola piena con voce pesante e affogata” , autentica e profetica radiografia dell’ affondo.
In effetti la semplice nozione moderna di energia ‘nucleare’ dovrebbe essere sufficiente per dissipare l’ ingenua, vecchia credenza, tuttora condivisa dall’ affondo, nell’ esistenza di un rapporto tra la potenza e il volume, da una parte, e la massa e la pesantezza, dall’ altra, zavorra vocale quest’ultima, che gli affondisti spacciano eufemisticamente per “risonanza di petto o “risonanza totale”. Che questa zavorra sia la principale componente acustica dei suoni prodotti con la tecnica dell’ affondo appare chiaro a chiunque abbia orecchie per sentire, ascoltando le registrazioni audio delle lezioni di Melocchi, pubblicate su YouTube.
È chiaro insomma che, come già avevano intuito tre secoli fa i belcantisti, il vero suono grande e potente è un suono con un nucleo piccolo e uno spazio ampio che lo avvolge, e questo spazio ampio è uno spazio vuoto e non pieno. In questo senso la tecnica belcantistica, nata da una cultura basata sull’ osservazione e il rispetto della natura, dimostra paradossalmente di essere molto più ‘scientifica’ (nel senso di conoscenza obiettiva, nata dall’ esperienza concreta, del fenomeno reale) rispetto all’ affondo, che invece è il classico prodotto di laboratorio (foniatrico) e quindi si basa su teorizzazioni astratte, che sono avulse sia dalla realtà concreta sia dalla moderna ricerca scientifica, la quale da tempo non crede più, tra altre cose, alla cosiddetta (inesistente!) “risonanza di petto”, a cui invece ancora crede l’ affondo .
La tecnica dell’affondare la voce per ingrossarla artificialmente era già nota anche al grande tenore Aureliano Pertile, che nel suo trattato ne fornisce questo identikit:
“Apertura di gola eccezionale, laringe completamente abbassata e faringe larghissimo, colore di voce rotondeggiante, lievemente baritonale, difficoltà grande nell’uguaglianza dei tre registri, tanto che si notano tenori anche celebri che hanno due o tre colori di voce. Questa tecnica non permette molte sfumature e quindi toglie colori alla tavolozza dei suoni vocali; fa spendere molte energie, consuma fiato ed è di difficile controllo, perché tende sempre a ingrossare e a far cadere il suono nel retrofaringe. Inoltre presenta il pericolo di far perdere la dolcezza della voce, ingrossandone il calibro.”
Questo “ingrossare il calibro” della voce, considerato da Pertile (che non era propriamente un tenore leggero) come un gravissimo errore tecnico vocale, è esattamente il risultato che si ottiene aprendo in maniera abnorme la bocca e/o abbassando meccanicamente la laringe, prescrizioni queste che accomunano tutti i moderni insegnanti dell’ affondo, indipendentemente dal fatto che addolciscano in maniera più o meno rilevante gli aspetti più scabrosi dell’ affondo originale di Melocchi.
Nel seguente video sentiamo il basso Carlo Colombara riproporre i principi dell’ affondo nella versione edulcorata del suo maestro Paride Venturi. Lo sentiamo quindi parlare di appoggio sul fiato, di morbidezza, di distensione ecc. ecc. Esiste per altro anche in Colombara un elemento, che deriva direttamente da Melocchi e che accomuna tra loro tutte le forme, passate e presenti, di affondo: un tipo di apertura abnorme e in verticale della bocca, che è espressione diretta della concezione anti-fonetica della risonanza, introdotta nel canto da Garcia.
Al minuto 10.20 di questo video sentiamo l’ intervistatrice che chiede a Colombara: “come si apre la gola?” Colombara risponde, riproponendo un espediente che, ripetiamo, NON è stato inventato da “uno che canta” (tanto meno da un cantante del belcanto), ma è stato inventato da un ‘parafoniatra’ che non ha mai avuto una carriera come cantante e il cui nome è Manuel Garcia junior. Tale espediente consiste, come spiega Colombara, nel “toccarsi il pomo d’ Adamo, abbassarlo e sganciare-rilassare in basso la mandibola.” Il rischio di questa manovra è SUBORDINARE le forme fluide e cangianti, create dall’ articolazione naturale, alla fissità di uno spazio predeterminato, modellato sulla vocale ‘O’.
Che proprio di questo si tratti, lo conferma Colombara dicendo:“tutte le vocali devono essere riportate a una vocale da canto lirico, cioè a una vocale rotonda.” In un’ altra intervista afferma che “in ogni vocale ci deve essere una piccola ‘O’ e così si ha la voce lirica.” In sostanza, in base alle teorie di Colombara esisterebbero “vocali da canto lirico” (che sarebbero la ‘O’ e la ‘U’) e vocali da voce parlata (tutte le altre), vocali che, chissà perché, per diventare “liriche” dovrebbero essere sottoposte a un processo che consiste nel contaminarle con la ‘U’ o la ‘O’. (!) In altre parole solo la ‘O” e la ‘U’ (vocali verticali) sarebbero vocali ‘rotonde’ e ‘liriche’, mentre tutte le altre (‘A’, ‘E’, ‘I’), naturalmente orizzontali, sarebbero vocali schiacciate, da cui la (presunta) necessità di ‘arrotondarle’, facendole diventare, rispettivamente, ‘AO’, ‘OE0, ‘Y’. Questo espediente, che è stato adottato non solo dai fautori dell’ affondo ma, paradossalmente, anche da quel sedicente restauratore della tecnica del belcanto che fu Rodolfo Celletti col suo concetto di “suoni intervocalici”, si basa su un evidente errore fonetico-acustico, che consiste nell’ ignorare che una vocale, ad esempio la ‘OE’, non è ciò che diventa la ‘E’ dopo che è stata arrotondata, ma è UN’ ALTRA VOCALE, che in italiano non esiste.
Chi propone questa teoria fonetico-acustica che, ripetiamo, è stata introdotta per la prima volta nel canto da Manuel Garcia jr. nel 1840, dovrebbe porsi la seguente domanda: se questo fosse vero, cioè se effettivamente le vocali ‘A’, ‘E’, ‘I’ dovessero essere trasformate in ‘AO’, ‘OE’ ed ‘Y’ per diventare “liriche”, come hanno fatto a cantare i grandi cantanti italiani a partire dal 1600 (anno di nascita dell’opera) fino al 1840 (anno di nascita in Francia di queste teorie surreali), tenuto conto che tutti erano beatamente all’ oscuro del ‘segreto’ delle vocali “liriche” e che, anzi, per educare la voce privilegiavano vocali non “liriche” come la ‘A’ e la ‘E’? Evidentemente avevano trovato un altro modo per arrotondarle, un modo che ne preserva la purezza fonetica e questo è il motivo per cui Beniamino Gigli, nella sua masterclass di Londra, disse significativamente che “se si canta in italiano, si usano le cinque vocali dell’ italiano ‘A’, ‘E’, ‘I’, ‘O’, ‘U’ nella loro forma più pura.”
Come abbiamo visto, l’ affondo rappresenta il rovesciamento di tutti i principi del belcanto. Là dove il belcanto aveva localizzato l’ epicentro dell’appoggio nella zona epigastrica, l’ affondo lo abbassa alla zona pelvica; là dove il belcanto aveva esaltato la “postura nobile”, l’ affondo propugna la “postura del gorilla” (cit. Delfo Menicucci); la dove il belcanto aveva concepito l’ appoggio come distensione espansiva, l’ affondo lo concepisce come contrazione espulsiva; là dove il belcanto aveva raccomandato di esercitarsi con tutte le vocali (Mancini) o comunque di non privilegiare l’ uso delle vocali chiuse e verticali, l’ affondo usa come modello di spazio di risonanza la vocale ‘U’; là dove il belcanto aveva teorizzato un contatto iniziale dolce e morbido con l’ energia, anche cantando a voce spiegata, l’ affondo si preoccupa di esercitare direttamente la massima tensione sui muscoli aritenoidei delle corde vocali; là dove il belcanto aveva scoperto l’ importanza dell’ “accordo” acustico tra spazio di risonanza della bocca (atteggiata a lieve sorriso interno) e spazio di risonanza della gola aperta, come condizione perché si generi la risonanza libera della voce, l’ affondo teorizza una bocca spalancata verticalmente, combinata con una laringe abbassata al massimo, che letteralmente affonda, alias affossa la voce.
L’ossessione della bocca spalancata, del palato molle alzato e della laringe affondata emerge nel video di un’ altra lezione che Melocchi diede al tenore Gastone Limarilli (erroneamente indicato nella didascalia come Mario Del Monaco), lezione durante la quale a un certo punto, in prossimità di un semplice Mi bemolle medio-acuto, sentiamo Melocchi dire all’ allievo:“Apra la bocca e prema di più in giù!”
In sostanza, come sempre, Melocchi rivolge tutta la sua attenzione all’ aspetto esterno e meccanico dell’ emissione vocale, specificando addirittura la forma che deve assumere la bocca in corrispondenza di una data nota. Il risultato è che quelli suscitati in questo modo sono movimenti muscolari meccanici e localizzati, che tolgono scioltezza e libertà al corpo e morbidezza all’ emissione. Questo perché l’affondo ignora che l’ apertura della bocca non deve essere controllata direttamente e neppure deve essere concepita come verticalizzazione. Come avevano scoperto gli antichi (e i moderni hanno ignorato), la magia della risonanza libera e dello squillo è creata dalla fusione-accordo tra spazio interno (orizzontale) della bocca e dilatazione (orizzontale) della gola. Da qui i concetti di “larghezza di bocca” di Mancini, di “apertura laterale” di Caruso, di “apertura della bocca più laterale che verticale” e di “gola larga” di Pertile, per non parlare dell’ indicazione, ancora più esplicita, di Francesco Lamperti, “il miglior maestro del VERO metodo italiano” (cit. Emma Albani), secondo il quale la ‘A’ va cantata “nel fondo della gola, stando attenti che non si trasformi in ‘O’” (sic). Per Lamperti infatti la ‘AO’ degli ‘oscuratori’ della voce alla Garcia e alla Melocchi “potrà dare alla voce un carattere più rotondo in una sala, ma la rende muta e senza vibrazione in un teatro.” (Altro che squillo!)
Ebbene, a fronte di questi dati di fatto, che delineano inequivocabilmente la struttura della VERA tecnica vocale italiana, come hanno operato gli insegnanti dell’ affondo? Hanno demonizzato la dimensione orizzontale della risonanza, considerandola come sinonimo di schiacciamento del suono, ed elaborando un surreale obbligo di verticalizzazione-intubamento di tutte le vocali.
È importante sottolineare a questo proposito che l’ orizzontalità (che corrisponde alla brillantezza naturale del suono) NON È QUALCOSA CHE NASCE ESTERNAMENTE, MA NASCE INTERNAMENTE, altrimenti il suono effettivamente (ma solo in questo caso) si schiaccia. Ciò significa che la conformazione esterna della bocca NON deve essere modificata volontariamente per trovare inesistenti ‘posizioni ideali’. Di conseguenza anche il ‘sorriso’ deve essere concepito come il riflesso esterno di un’ apertura creata internamente e non come stampino imposto esternamente, così come l’ ‘ovalizzazione’ della bocca e la protrusione delle labbra devono avvenire (da sole!) esclusivamente con le vocali che naturalmente le prevedono (e cioè con la ‘O’ e la ‘U’), senza diventare quel grottesco ‘imbuto’, inventato dai foniatri per “allungare il vocal tract” (necessità questa, nata dal fatto che non si sa più come si crea la vera apertura della gola) e subito fatto proprio dagli affondisti.
In sintesi si può affermare che in questa lezione di Melocchi tutti i suoni dell’ allievo Limarilli risultano fin dal loro nascere sfocati e ingrossati e questo perché di per sé le manovre meccaniche di avvio del suono e di apertura della bocca e della gola dell’ affondo distruggono il nucleo di luce del suono, generato dall’ articolazione parlata. A questo punto, se confrontiamo queste indicazioni tecnico-vocali con quelle esposte non solo nei trattati classici del belcanto, ma anche nel trattato di Leone Giraldoni (il presunto precursore dell’ affondo secondo Melocchi & C.), nello scritto sul canto di Enrico Caruso e nelle masterclass di Londra e Vienna di Beniamino Gigli, non si può non arrivare alla conclusione che questa lezione di Melocchi rappresenta a tutti gli effetti la NEGAZIONE SISTEMATICA di tutti i principi fondamentali della scuola di canto italiana storica.
Passiamo adesso a esaminare lo spezzone di un’ altra lezione di canto, quella tenuta nel 1988 da Paride Venturi, e vediamo quali principi di Melocchi sono stati da lui mantenuti e riproposti.
Incominciamo dai principi tecnico-vocali di Melocchi di cui (per fortuna!) non c’ è traccia, sostituiti con altri più validi (e assenti in Melocchi), tra cui citiamo gli inviti “a non fare forza”, a concepire come piccolo il nucleo del suono, a mantenere morbida e ‘sul fiato’ l’ emissione, a curare il legato e l’ uguaglianza della voce, a esercitarsi anche con la mezza voce. Altri principi condivisibili (e in questo caso condivisi anche da Melocchi) sono l’ assenza di ogni invito a ‘proiettare’ o portare ‘in maschera’, ‘avanti’ o ‘fuori’ la voce e l’ idea di concepire tutti i suoni alla stessa altezza.
Confrontando le due lezioni (quella di Melocchi e quella di Venturi), la differenza che più si evidenzia, è l’ idea di un’emissione morbida, facile e ‘pulita’, trasmessa da Venturi al suo allievo, e, al contrario, l’ idea di un’ emissione pressata, pesante e torbida, magari non indotta intenzionalmente da Melocchi all’ allievo, ma evidentemente tollerata e quindi da lui data per buona.
Veniamo adesso a quello che (purtroppo) rappresenta invece l’ elemento più vistoso di continuità tra Paride Venturi e Arturo Melocchi, cioè il punctum dolens che fa da vero e proprio leit motiv tecnico-vocale della lezione di Venturi: l’ abbassamento della mandibola. Per tutto il video vediamo infatti Venturi suggerire all’ allievo, sia ricorrendo a continui e bruschi gesti di abbassamento della mano, sia spalancando vistosamente la bocca, di abbassare la mandibola anche per cantare note poste nel settore medio-acuto della voce.
Ritorna insomma anche in Venturi il tormentone di Melocchi della “mascella inferiore da arretrare”, col che ignorando che anche Corelli, dopo aver fatto una breve esperienza della tecnica dell’ affondo, incominciò a mettere in guardia gli allievi sul fatto che l’ abbassamento della mandibola non ha niente a che fare con l’ apertura della gola, anzi in molti casi la ostacola. In effetti, prima di adottare acriticamente questa indicazione, l’ allievo dovrebbe porsi una domanda: ma perché parlando, anche per ore, non solo non occorre, ma NON SI DEVE pensare di “arretrare”, ‘sganciare’ o ‘rilassare’ la mandibola, pena la distorsione acustica del suono?
La realtà è che l’ unico ‘gancio’ che blocca la mandibola, è il gancio che viene applicato da chi canta, scambiandolo per mezzo ‘tecnico’ o per aprire la gola o per ‘scolpire’ la pronuncia. E il bello (si fa per dire) è che chi teorizza espedienti del genere, poi paradossalmente si proclama fautore del suono “raccolto” (che altro non dovrebbe essere che il suono NON violentato da queste abnormi aperture della bocca) e utilizza come mezzo per aprire la gola (mezzo per altro legittimo, se non trasformato in stampino) la vocale ‘U’, che esige una forma della bocca semichiusa.
Approfondendo ancora di più la questione, si scopre che l’ apertura abnorme della bocca è il modo con cui viene compensata artificialmente la mancata, ridotta o errata apertura della gola. Questo a causa dell’ ignoranza di un fatto: la rotondità del suono non va cercata nel posto sbagliato (cioè in quella cavità di risonanza, la bocca, che di per sé genera la BRILLANTEZZA e non la rotondità), ma va cercata nella GOLA, aperta nel giusto modo.
Il rischio legato all’ idea di rilassare in basso la mandibola cantando è, come abbiamo visto, quello di verticalizzare lo spazio di risonanza (con conseguente intubamento del suono) e, in secondo luogo, è quello di far ‘deragliare’ il movimento dell’ articolazione dal suo naturale asse orizzontale. Il che ha effetti gravissimi, se solo pensiamo che, fino a prova contraria, la bocca è orizzontale ed è quindi in funzione di questo spazio orizzontale che la natura ha concepito lo svolgersi del processo dinamico dell’ articolazione.
Per avere la conferma concreta di tutto questo, basta provare a mettersi a parlare con qualcuno, proponendosi di “rilassare” in basso la mandibola o di aprire in modo abnorme la bocca. L’ effetto immediato sarà che il suono diventa sfocato. In effetti il test consistente nell’ applicare al parlato le trovate tecnico-vocali del canto, è il più delle volte una vera e propria cartina di tornasole in grado di evidenziare tutte le assurdità spacciate per tecnica vocale. Questo vale anche per l’ espediente di ‘ovalizzare’ la forma della bocca cantando, espediente che nasce dall’ingenua idea che un suono per essere ‘rotondo’ debba essere prodotto da una bocca ‘rotonda’. Tutti questi espedienti, fatti propri da Melocchi, hanno lo stesso ‘senso’ che insegnare a dipingere usando la spatola invece che il pennello. Se si preferisce un’ altra similitudine, “la mascella arretrata” (aiutandosi con la mano!) di Melocchi denota lo stesso grado di conoscenza delle leggi acustiche che governano la risonanza della voce di un maestro di violino che imponesse agli allievi l’ uso della clava invece che dell’ archetto per suonare.
Prescindendo dal trogloditismo tecnico-vocale di Melocchi dell’ abbassare la mandibola con la mano per “spalancare ben bene la bocca” cantando, solitamente il suggerimento di abbassare la mandibola viene dato quando si tratta di cantare nella zona acuta e questo perché effettivamente nella zona acuta , per precise esigenze acustiche, il suono ha bisogno che la bocca si apra di più. Un conto però è lasciare che la bocca DA SOLA si apra di più come CONSEGUENZA dello ‘sbocciare’ dello spazio interno e quindi per assecondare l’ apertura della gola, e un altro conto è ottenere questo risultato partendo dall’ esterno, come fa qui Venturi, nel qual caso l’ abbassamento volontario e diretto della mandibola ha come effetto, ripetiamo, la verticalizzazione dello spazio di risonanza, il deragliamento dell’ articolazione dal suo naturale binario ‘orizzontale-circolare’ (e non verticale!) e spesso anche, paradossalmente, la chiusura della gola.
In sintesi, quello che non ha capito Melocchi (e con lui Venturi e tutti gli affondisti) è che il movimento di abbassamento della mandibola (o, volendo esprimersi meglio, il movimento di apertura della bocca) è preposto nel canto a due funzioni distinte:
1 – l’ aumento dello spazio di risonanza orofaringeo, quale si rende necessario nella zona acuta della voce;
2 – il mantenimento del movimento dell’ articolazione naturale parlata, quale si rende necessario per sintonizzare perfettamente il suono.
Ciò posto e tenuto conto che a caratterizzare il secondo tipo di movimento (quello dell’ articolazione-sintonizzazione) è la MINIMALITÀ, LA SCIOLTEZZA E L’ ARMONIOSITÀ, ne consegue che il primo tipo di movimento (di abbassamento della mandibola nella zona acuta), DEVE AVVENIRE NEL RISPETTO DEL SECONDO o il suono prodotto sarà acusticamente distorto, e questo grave errore lo si nota soprattutto nei cantanti dell’ affondo, quasi tutti accomunati dai movimenti di apertura della bocca bruschi, eccessivi e disarmonici. A questo che è un FATTO obiettivo, gli affondisti obiettano che molti cantanti dell’ affondo hanno fatto carriera anche aprendo in maniera abnorme e disarmonica la bocca, ma la loro obiezione è annullata da questa semplice contro-obiezione, che è la constatazione di un altro FATTO: anche i ventriloqui riescono a parlare tenendo la bocca chiusa; ciò non toglie che parlerebbero meglio se la aprissero come natura comanda.
Abbiamo visto come uno dei vizi degli apostoli dell’ affondo sia cercare di annettere a questo metodo cantanti prestigiosi, che con esso non c’entrano nulla. Alcuni di questi cantanti vengono etichettati come allievi, altri come precursori dell’ affondo: in entrambi i casi abusivamente. Oltre a Leone Giraldoni, un altro cantante storico di cui gli affondisti hanno tentato di appropriarsi, spacciandolo fantasiosamente come un precursore dell’ affondo e attribuendo a lui l’ origine di certi loro espedienti tecnico-vocali, è Enrico Caruso. Il primo ad azzardare questa teoria fu Del Monaco, il quale ebbe a dire:
“Una volta, ascoltando un disco di Caruso, mi accorsi che cantava ‘affondando’ e ‘scavando la laringe, dando massima cavità all’ organo vocale.”
Gli fece eco Paride Venturi, che disse:
“La stessa emissione di Caruso la si sente in Del Monaco”
Fortunatamente a smentire l’ idea che Caruso fosse un Melocchi ante litteram ha provveduto personalmente lo stesso Caruso, che su questo argomento (in perfetto accordo con quanto aveva scritto Leone Giraldoni, l’ altro fantomatico ‘precursore’ dell’ affondo, e, dopo di lui, Aureliano Pertile) così ha scritto significativamente:
“Non bisogna immaginare che spalancando la bocca, la gola si apra. Se uno s’intende di canto, sa che la gola si apre perfettamente senza un’evidente apertura della bocca, semplicemente in virtù della respirazione. Nel cantare gli acuti, naturalmente la bocca si aprirà di più, ma nella maggior parte dei casi la posizione della bocca è quella di quando si sorride.”
Insomma, esattamente il contrario di ciò che predica l’ affondo.
Per avere un’ idea più precisa di come deve realizzarsi l’ apertura della bocca nella zona acuta della voce, basta pensare a quello che succede quando chiamiamo ad alta voce qualcuno da una certa distanza: la bocca, da sola, naturalmente si aprirà di più, ma senza nessuna intenzione di “sganciamento” o “arretramento” della mandibola e senza nessun effetto di verticalizzazione né di ampliamento dei movimenti articolatori, che rimarranno sempre sciolti, armoniosi ed essenziali, anche se con una bocca più aperta. Ne deriva che a causare le tensioni alla mandibola cantando, non è un ‘difetto’ della mandibola, ma è un difetto della modalità di apertura della GOLA, di cui le tensioni mandibolari sono solo la spia.
In sintesi, la modalità di apertura della bocca sia parlando, sia chiamando ad alta voce, sia cantando, è creata da un sistema naturale che si autoregola. Pertanto nei cantanti con la giusta tecnica si nota sì una maggiore apertura della bocca nella zona acuta, apertura che però non è il risultato di un’ intenzione diretta di abbassare la mandibola (anche solo pensando di ‘rilassarla’), ma di un ampliamento ‘sferico’ dello spazio bicamerale oro-faringeo (l’ “antro faringeo e boccale che fa da Stradivari della voce” di Giraldoni), ampliamento sferico dello spazio che indirettamente fa sì che la bocca naturalmente si apra di più. Solo in questo caso la maggior apertura della bocca (che legittimamente interviene nella zona acuta) non interferisce col naturale movimento articolatorio e quindi non determina una riduzione della lucentezza naturale, da esso generato, o, peggio ancora, un intubamento del suono.
L’ effetto di alterazione della forma dello spazio di risonanza (e quindi dell’ articolazione e del suono), causato dagli improvvisi e bruschi abbassamenti della mandibola, suggeriti coi gesti da Venturi, si può notare anche nel video (già commentato nella prima parte di questo articolo), dove Venturi parla di Melocchi, esaltandolo come “il più grande maestro di canto di tutti i tempi” (?!):
Al minuto 1.00 Venturi fa l’esempio di una ‘A’ pura, emessa con un mezzoforte. Si nota un’ apertura naturalmente orizzontale della bocca (trattandosi di una ‘A’) e un atteggiamento del volto altrettanto naturalmente disteso. Tuttavia, subito dopo aver esemplificato come diventa questo suono adottando il metodo (errato) della ‘maschera’, Venturi al minuto 1.30 dà l’ esempio di come invece bisognerebbe cantare questa ‘A’ usando il metodo dell’ affondo. Ebbene, la cosa che subito si evidenzia è che la ‘A’ si trasforma immediatamente in una ‘O’, le labbra vengono atteggiate a imbuto e si nota uno ‘sprofondamento’ di tutto il sistema di articolazione e risonanza.
A questo punto gli affondisti dovrebbero prendere coscienza dell’ assurdità del riflesso condizionato, che li induce in automatico a trasformare la vocale ‘A’ in ‘O’ e la vocale ‘E’ in ‘OE’, e chiedersi da dove nasce questo loro tic. Che la ‘A’ a una certa altezza, per mantenersi rotonda, debba trasformarsi in un surrogato della ‘O’ è, ripetiamo, la panzana introdotta nella didattica vocale da un cantante fallito di nome Manuel Garcia junior e smentita esplicitamente per iscritto da tutti i classici del belcanto, compreso il padre stesso di Manuel Garcia e compresi grandi cantanti come Enrico Caruso e Beniamino Gigli.
Questo oscuramento diretto della vocale (che distorce il suono) non ha nulla a che fare con l’ oscuramento INDIRETTO della vocale, che interviene a una certa altezza, come EFFETTO del passaggio al registro acuto.
Ove neppure queste considerazioni fossero sufficienti per capire, e tenuto conto che gli affondisti sono arrivati a elaborare, al contrario, la teoria comico-surreale secondo cui la vocale ‘U’ sarebbe anche alla base dello squillo della voce (?!), dovrebbero provare a sostituire con la vocale ‘U’ le vocali degli acuti più eclatanti del repertorio operistico, cioè cantare, ad esempio, invece che “All’AAAArmi” (‘Il trovatore’), “All’UUUUrmi”, invece che “VincEEEErò” (‘Turandot’), “VinciUUUUrò”, e invece che “la spe-EEEEEranza” (‘La Boheme’),“la spu-UUUUUUranza”.
Si renderanno conto allora che la loro teoria secondo cui la vocale ‘U’ sarebbe alla base dello squillo della voce (?!) equivale al colpo di genio di un architetto che, per potenziare lo squillo delle campane, sotterrasse i campanili. Avendo preso coscienza di questo, allora forse capiranno anche qual è il luogo (igienico) della loro casa, dove vanno buttate le teorie di Melocchi.
In conclusione, per quanto riguarda la mitizzazione, condivisa da tutti gli affondisti, della vocale ‘U’ nel canto, ciò che si può riconoscere come fatto vero è che la vocale ‘U’ pura (ALTERNATA E NON MESCOLATA CON LE ALTRE VOCALI) favorisce, assieme al respiro naturale globale, la percezione della gola aperta, ma ciò non significa che essa possa essere utilizzata come modello dello spazio di risonanza delle altre vocali. Infatti il tanto temuto schiacciamento-apertura delle vocali ‘A’, ‘E’, ‘I’ non è affatto la conseguenza della loro NATURALE ORIZZONTALITA’ (che non deve essere assolutamente alterata!), ma è l’ effetto o dell’ idea di proiettare il suono avanti e/o dell’incapacità di collegare-fondere lo spazio di risonanza della bocca con lo spazio di risonanza della gola, collegamento-fusione che può avvenire solo se la gola viene aperta naturalmente per distensione e non meccanicamente per allungamento-intubamento, come succede se si pensa di abbassare direttamente la laringe e alzare direttamente il palato molle. La cantonata di Melocchi, che consiste nell’interpretare come allungamento e verticalizzazione l’ apertura della gola, sorvola poi beatamente su un altro fatto eclatante: persino l’ atto naturale dello sbadiglio (usato dagli affondisti, Melocchi compreso, come mezzo per aprire la gola) viene percepito dagli esseri umani non come allungamento e verticalizzazione, ma come DILATAZIONE della gola e la prova (autoevidente) è data dal fatto che esso NON sfocia nella vocale ‘U’, ma in una specie di ‘A’.
In conclusione, con la loro doppia fobia delle vocali aperte e della componente orizzontale della risonanza, gli affondisti ragionano come un pittore che, per ottenere il verde, ‘correggesse’ il giallo (= la brillantezza ‘orizzontale’ del parlato) mescolandolo col nero (= la verticalizzazione dello spazio di risonanza e l’ oscuramento del suono) invece che col blu (= l’ apertura ‘sferica’ dello spazio di risonanza orofaringeo).
In effetti la PERCEZIONE MENTALE SINTETICA della forma dello spazio di risonanza del canto è SFERICA e non verticale e come tale deve essere concepita, altrimenti lo spazio si trasforma in tubo, che, per definizione, non potrà produrre che suoni ‘intubati’. Lo spazio sferico è uno spazio elastico, a differenza dello spazio verticale (o tubolare), che invece è uno spazio rigido, anche se ampio. Nella sfera esiste un asse orizzontale, detto diametro, che nel canto corrisponde allo spazio di risonanza della bocca (che è appunto orizzontale), dove avviene il processo naturale di articolazione-sintonizzazione del suono. Ora, come non esistono diametri verticali, così non possono esistere bocche verticali, che si aprono avendo come modello vocali come la ‘O’ o la ‘U’. Questo asse orizzontale (che corrisponde alla brillantezza naturale del suono) non si alza né si abbassa al variare dell’ altezza tonale ma, come appunto succede col diametro di una sfera, rimane sempre allo stesso livello, anche quando la sfera, nella zona acuta della voce, si amplia. Esso è consustanziale alla voce cantata e, anche se si manifesta al massimo nella zona acuta diventando anche “gola larga”, deve essere sempre presente nel suono cantato ben bilanciato, esattamente come la luna e le stelle continuano a esistere anche di giorno, benché invisibili. È assurdo quindi teorizzare (come fanno alcuni maestri di canto e come vediamo fare da cantanti come Jonas Kaufmann), che il suono debba essere concepito come verticale nel centro e nella zona medio-acuta e che solo a una certa altezza, (nella zona acuta secondo Kaufmann e nella zona grave secondo Colombara), improvvisamente debba essere orizzontalizzato con una brusca manovra meccanica di ‘riapertura’, teoria assurda che equivale a credere che le stelle e la luna di giorno rimangano ‘spente’ e che solo di notte improvvisamente vengano accese. Volendo ricorrere a un’ altra analogia, si può dire che l’articolazione corrisponde alla superficie lucente del mare, su cui appunto il suono galleggia (e non affonda) e non a caso anche le barche che galleggiano sono superfici orizzontali.
Abbiamo visto come uno dei fatal errors in cui è caduto Melocchi (e con lui tutti gli affondisti), sia quello di pensare che l’ ampliamento dello spazio di risonanza (quello che ha preso il nome di ‘gola aperta’) corrisponda a un abbassamento-sprofondamento della linea di galleggiamento risonanziale. Questo perché l’affondo, in quanto procedura pesantemente meccanica, fa sì che il movimento naturalmente discendente dell’appoggio (il cosiddetto ‘passo del respiro’) trascini con sé in basso anche la naturale altezza-galleggiamento del suono, che invece deve rimanere indipendente dall’ ‘ammortizzatore’ respiratorio dell’appoggio. Di questo era perfettamente cosciente Del Monaco, quando nella sua autobiografia, pubblicata pochi mesi prima della morte, scrisse:
“Era possibile che insistendo su quella strada” (l’affondo) “finissi in un’altra deviazione.” (la prima “deviazione” essendo stata la ‘maschera’) “Per fortuna a un certo momento intervenne il mio istinto. Capii che la continua ricerca di ampiezza e profondità” (considerate qui erroneamente da Del Monaco come equivalenti) “avrebbe a lungo andare pregiudicato l’ integrità del mio organo vocale. Così creai una mia tecnica di compromesso. Mantenni i vocalizzi, ma usai per il canto un’emissione molto più morbida e fluida.”
Dell’ indipendenza tra ‘voce alta’ (che nulla ha a che fare con la ‘maschera’!) e ‘appoggio respiratorio’ era perfettamente cosciente (a differenza degli affondisti) anche Caruso, che nel suo libretto sul canto scrive:
“Il più grave errore commesso da molti cantanti è attaccare il suono all’ altezza del petto o della gola” (cioè affondando il suono) “invece che all’ altezza del palato.” “Anche se si ha un organismo forte e una voce bellissima, non si può resistere a questo. Questo è il motivo per cui così tanti artisti che hanno debuttato brillantemente, poi scompaiono molto presto oppure proseguono con una carriera molto mediocre.”
In altre parole, come succede con una nave, anche la voce può scaricare in basso ‘tonnellate’ di peso e questo corrisponde al fenomeno dell’ appoggio respiratorio nel registro acuto, ma mai succede che essa sprofondi sotto la linea di galleggiamento (il ‘suono alto’) e questa è appunto la differenza tra galleggiare e affondare, ovvero tra belcanto e affondo. Ovviamente, oltre a non sprofondare sotto la linea di galleggiamento, le navi neppure prendono il volo, che è quello che invece teorizzano i fautori della ‘maschera’.
In sintesi, il motto belcantistico “più alta la nota, più profondo il fiato” non significa “più alta la nota, più affondato il suono”, ma più alta la nota, più intenso il contatto con la base respiratoria dell’ energia, che fa sì che in zona acuta l’ appoggio non diventi attivazione muscolare rigida, ma pressione elastica autogena.
Nell’ insistere a teorizzare che lo spazio che arrotonda il suono deve essere cercato in basso, gli affondisti dovrebbero chiedersi innanzitutto perché l’ apertura della gola dovrebbe corrispondere a un abbassamento. Forse perché la laringe si abbassa? Evidentemente no, perché se l’ abbassamento della laringe (sia esso attuato direttamente, come la foniatria dell’ Ottocento prescriveva, o indirettamente, come prescrive la tecnica del belcanto) avviene già al momento dell’inspirazione, non si vede perché il cantante dovrebbe scendere ancora più in basso cantando.
In realtà la percezione del suono che, come vuole la tradizione, scende dall’alto e si appoggia sul fiato al momento dell’attacco, NON DERIVA DA UNA RICERCA IN BASSO DELLO SPAZIO DI RISONANZA, MA DERIVA DAL MOVIMENTO NATURALMENTE DISCENDENTE DELL’ ESPIRAZIONE, da cui i concetti di ‘onda del respiro’, ‘porgere il suono’ e ‘passo del respiro’. Il che significa che gli affondisti, fuorviati dalla simultaneità dei due fenomeni (attacco del suono e movimento espiratorio discendente dell’ appoggio), nel teorizzare la ricerca in basso dello spazio di risonanza hanno confuso tra loro la dimensione della risonanza e dell’ apertura dello spazio di risonanza, da una parte, con, dall’ altra parte, la dimensione della respirazione e dell’ appoggio respiratorio, dimensioni che devono rimanere indipendenti. Come gli ammortizzatori di una macchina impediscono che i movimenti sussultori delle ruote si trasmettano al piano dove sono collocati i sedili, così l’ appoggio respiratorio è l’ ammortizzatore che impedisce che le variazioni di pressione, relative alle varie note, intacchino l’ equilibrio risonanziale che crea la ‘linea del canto’, col rischio di fare sprofondare la voce SOTTO la linea di galleggiamento.
Nel riproporre la panzana di Garcia (da loro spacciata per fatto obiettivo), secondo cui la ‘A’ e la ‘E’ a una certa altezza del suono dovrebbero essere trasformate rispettivamente in ‘AO’ e in ‘OE’, gli affondisti dovrebbero ricordarsi dell’ errore (speculare a questo, ma di segno opposto) di Alfredo Kraus, secondo cui “nel canto la ‘U’ non esiste e la ‘O’ deve diventare ‘A’”. Dopodiché dovrebbero approfittare dell’ annullamento reciproco, che logicamente ne consegue, di questi due opposti errori, per fare ritorno finalmente alla realtà, realtà in cui, come Tullio Serafin disse, “tutte le vocali hanno diritto alla vita” e nel riaffermare questa verità sacrosanta, Serafin avrà pensato sicuramente alle teorie di quel suo bizzarro compagno di studi al Conservatorio di Milano, Arturo Melocchi per l’ appunto, che invece insisteva nel pensare e fare il contrario.
L’ errore, risalente a Garcia, dell’ abbassamento-oscuramento del suono come espediente per ampliare lo spazio di risonanza, lo troviamo anche in un allievo di Marcello Del Monaco, il tenore Gianfranco Cecchele, Ad esempio, in una lezione, visibile su YouTube, egli afferma che la vocale normale, parlata, cioè pura (in quel caso una ‘E’) rappresenta “la parte alta del suono” (il che è vero). A questa ‘parte alta’ bisogna aggiungere lo spazio che la arrotonda, affermazione anche questa condivisibile. Il momento in cui il discorso di Cecchele diventa sbagliato (e questo sbaglio è appunto lo sbaglio dell’ affondo, derivato direttamente da Garcia) è quando Cecchele afferma che lo spazio mancante che occorre aggiungere per arrotondare il suono, sarebbe quello del petto (cioè quello collocato in basso), e che questo arrotondamento avverrebbe modificando la ‘E’ pura in ‘OE’, operazione che in realtà determina appunto solo un abbassamento, una distorsione del suono e la sostituzione di una vocale (la ‘E’) con un’ALTRA vocale (la OE), INESISTENTE IN ITALIANO. Volendo tradurre tutto questo in un’ immagine, che evidenzi meglio l’ errore dell’affondo, si potrebbe dire che se la vocale pura del parlato è come una barca che galleggia a pochi metri dalla riva, la vocale (mista o oscurata o verticalizzata) dell’ affondo è come una barca che (appunto) affonda, mentre invece la vocale pura del belcanto (cioè la vocale del parlato, associata alla VERA apertura della gola!) è come una barca che galleggia, avendo sotto di sé la profondità del mare.
Per quanto riguarda in fine l’ idea degli affondisti del ‘vocal tract’ che si allunga in basso in corrispondenza delle note acute, questo presunto allungamento dovrà essere considerato legittimo solo se concepito come una serie di canne d’ organo rovesciate, dove le canne più lunghe corrispondono alle note più alte, ma la cui base (rovesciata) rimane alla stessa altezza, senza quindi che le canne più lunghe si abbassino.
Una perfetta e incredibilmente profetica radiografia dell’ affondo (che tutti gli affondisti dovrebbero leggere almeno due volte al giorno) la troviamo nelle Riflessioni di Mancini, che nel Settecento scrisse:
“Per tale smoderata apertura di bocca i cantanti vengono ad avere la voce in gola e tanto meno potranno poi avvedersi che, le fauci restando così tese, ne verrà in conseguenza tolta quella flessibilità necessaria per dare alla voce la natural chiarezza e facilità. Quindi, se resta inemendata nello scolaro siffatta situazione di bocca, canterà il poverino, ma sempre con una voce AFFOGATA, cruda e PESANTE.”
Giunti a questo punto, una curiosità si affaccia alla mente ed è: ma come cantava Paride Venturi? Il modo in cui ‘noncantava’ Melocchi (facendo esempi vocali solo ‘accennando’, come fa un pianista accompagnatore) lo possiamo sentire dalle registrazioni delle sue lezioni, mentre dell’ altro insegnante storico dell’ affondo, il fratello di Mario Del Monaco Marcello, sappiamo che mai ha emesso un suono cantato in vita sua, tanto meno a lezione, la sua professione non essendo mai stata quella di cantante, ma quella di dirigente scolastico (!). Non si può quindi non ascoltare con interesse questo video, dove Paride Venturi, all’ età di 75 anni, canta in pubblico l’ aria del tenore della Luisa Miller di Verdi:
L’effetto dell’ ascolto è sorprendente e la sorpresa è duplice: piacevole e spiacevole. La sorpresa piacevole consiste nel constatare che incredibilmente non c’ è traccia di affondo nel suo modo di cantare: le ‘A’ sono vere ‘A’ e non ‘O’ camuffate, non si notano né bocche ovali, né labbra a trombetta, né aperture abnormi della bocca e la voce galleggia naturalmente, senza essere affondata. La sorpresa spiacevole (e la conseguente perplessità) nasce invece da una domanda: come faceva Venturi a non accorgersi che la tecnica vocale con cui cantava, NON era la tecnica vocale che insegnava? E come si spiega questo fenomeno di auto-immunizzazione dall’ affondo in un cantante che paradossalmente insegnava proprio questo metodo?
A darci la risposta a questi quesiti è lo stesso Venturi in un’ intervista, rilasciata al foniatra Fussi. In questa intervista Venturi racconta che quando incontrò Melocchi (il presunto “costruttore di voci”), in realtà era già in carriera (ovvero la sua voce era già “costruita”), ma stava attraversando “un momento di difficoltà”. Da che cosa era causata questa difficoltà? Dall’ aver fatto suo, come già era successo a Del Monaco e a tanti prima di lui, il metodo della ‘maschera’, con la sua idea insensata di ‘proiettare’ i suoni ‘avanti’ o ‘fuori’, idea che, come riconobbe anche Franco Corelli, porta automaticamente a chiudere la gola e a perdere l’ appoggio della voce. L’ eliminazione del virus tecnico-vocale della ‘maschera’ fu quindi sufficiente perché Paride Venturi (come già prima di lui Mario Del Monaco) ritrovasse il suo equilibrio naturale, motivo per cui Melocchi evidentemente non ritenne necessario in questo caso (forse anche perché già vecchio) imporre il suo micidiale trattamento tecnico-vocale a base di “fondi” a Venturi, che quindi ne rimase indenne. Ora però si dà il caso che Melocchi fosse talmente (‘risum teneatis, amici!’) “il più grande insegnante di canto di tutti i tempi”, che, a detta di Mario Del Monaco, non sapeva neppure “fino a che punto una gola potesse resistere ai suoi ‘vocalizzi’” (citazione testuale), il che è come considerare normale che un’ orchestra sia stonata , adducendo come giustificazione il fatto che il direttore è sordo.
Del Monaco spiega questo fatto (abbastanza scandaloso per un maestro di canto), dicendo che “Melocchi non aveva mai cantato”, ma la spiegazione non regge, dato che evidentemente non è necessario che un maestro abbia fatto carriera come cantante perché abbia la percezione EMPATICA di quando l’ emissione di un allievo è libera e di quando non lo è. Il vero motivo va cercato quindi altrove ed è rappresentato da una sorta di deficit percettivo di Melocchi, che evidentemente non era in grado di distinguere un suono naturalmente potente da un suono quasi altrettanto potente, ma spinto artificialmente, cioè tra risonanza libera e risonanza forzata della voce. In altre parole, Melocchi ignorava che il suono giusto, ben sintonizzato, non può non essere associato necessariamente (anche se emesso su un ‘fortissimo’) a un’ emissione fluida e facile, altrimenti è sbagliato. La dimostrazione di questa ‘sordità’ di Melocchi è data da un’ altra delle sue lezioni a Limarilli, durante la quale a un certo punto, a commento di un vocalizzo fatto da Limarilli con una voce potente, ma talmente spinta e ingrossata da risultare distorta, Melocchi incredibilmente gli ‘spiega’:
“Vede, cantando in questo modo uno può pensare di aver dato meno voce e che quindi in teatro non si senta. In realtà fuori la voce risulta il doppio” (?!)
E con questa uscita comico-surreale si capisce come Melocchi abbia potuto rimanere indifferente (o sordo) quando molti anni prima Del Monaco, avendo cantato da lui a lezione per mezzora in questo modo belluino, rimaneva afono e doveva aspettare una settimana per ritrovare la voce. Si capisce anche come mai a Melocchi sia stata tolta per incapacità la cattedra di canto al conservatorio di Pesaro da Umberto Giordano in persona, licenziamento confermato in seguito dall’ allora direttore del conservatorio Riccardo Zandonai. Si capisce in fine come mai Del Monaco, dopo aver debuttato “per merito suo e non di Melocchi” (citazione testuale), si sia sempre tenuto prudentemente a distanza di sicurezza da Melocchi, convinto più che mai che, come ebbe a dire in un momento di sincerità, “se si vuole cantare e si vuole resistere, tutto quello che ha detto Melocchi bisogna cancellarlo e fare il contrario di quello che ha detto lui”, affermazione stupefacente (e rigorosamente testuale) che se fatta, invece che da Del Monaco, da un qualsiasi insegnante contrario a questa ‘tecnica’, scatenerebbe immediatamente le ire e le fatwe dei ‘fedeli’ dell’ affondo, beatamente indifferenti (tra le altre cose) a questa semplice obiezione: ma se i primi a parlare male dell’ affondo sono stati gli stessi ‘cantanti di rappresentanza’ dell’ affondo (Del Monaco, Martinucci e Cecchele), per quale mistero logico i suoi ‘detrattori’ dovrebbero invece parlarne bene?
In conclusione, la triste parabola dell’ affondo è riassumibile così. A forza di scavare nel fondo della gola alla ricerca delle “fondamenta” della voce, alla fine gli affondisti non trovarono quelle fondamenta, ma trovarono qualcosa di molto diverso, benché anch’ esso collocato in basso: la tomba della voce.
(Fine della terza e ultima parte)
Antonio Juvarra
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