
Dopo la pausa estiva, riprendono i contributi mensili di Antonio Juvarra. Questa volta si tratta della prima parte di uno studio dedicato alla critica della didattica vocale dell’ affondo.
PARIDE VENTURI E LE PANZANE DI MELOCCHI
(prima parte)
Com’ è noto, esistono al mondo le cosiddette ‘idee zombie’, che sono quelle idee che continuano a circolare nonostante siano morte. Nel canto le idee zombie, che continuano a fare danni pur essendo morte, sono, evangelicamente parlando, legione, ma tra le tante in circolazione, ne spiccano due: l’ ‘affondo’ e la ‘maschera’, famigerato parto gemellare della foniatria cosiddetta ‘artistica’. C’ è un elemento che le accomuna ed è la pretesa di entrambe di accreditarsi come tecnica vocale italiana DOC. In realtà (è sempre bene ricordarlo!) la prima (l’ ‘affondo’) è un prodotto del foniatricismo franco-tedesco di fine Ottocento e la seconda (la ‘maschera’) è un prodotto della ‘rinofilia’ (o sindrome nasale) francese (anch’essa di marca foniatrica) del medesimo periodo storico: entrambe quindi sono totalmente estranee al belcanto, sia dal punto di vista storico, sia dal punto di vista tecnico-vocale. ‘Maschera’ e ‘affondo’ sono palesemente idee antitetiche, ma fino a un certo punto, dato che paradossalmente gli affondisti, per non arrivare a seppellire la voce (a forza di affondarla), alla fine hanno dovuto far rientrare di nascosto dalla finestra la ‘maschera’, che avevano buttato fuori trionfalmente dalla porta. Addirittura nell’ unico manuale di affondo che è stato scritto, l’ ‘Indagine sull’ affondo’ di Delfo Menicucci (allievo della moglie di Del Monaco, Rina), la ‘maschera’, in versione palatale, viene definita “il distretto di collisione del fiato pressurizzato e il bersaglio dove indirizzare la voce” ed è chiaro che in questo modo gli affondisti sono riusciti nell’impresa di farsi divulgatori di due panzane contemporaneamente invece che di una sola: l’ ‘affondo’ e, per l’ appunto, la ‘maschera’. A loro volta però anche le scuole della ‘maschera’ (che sono più di una) si sono lasciate influenzare dall’ affondo: ad esempio, con l’ idea di uno spazio di risonanza verticale e con l’ idea delle vocali posteriori ‘U’ e ‘O’ come modello e mezzo per arrotondare le altre vocali. Addirittura in un famoso video il soprano Raina Kabaivanska arriva (comicamente) ad attribuire l’ invenzione di questo espediente ai belcantisti, definendolo fantastoricamente “l’ antica regola dei castrati” e beatamente ignorando che invece i castrati hanno teorizzato esattamente l’ opposto.
A differenza della ‘maschera’, di cui non è noto l’ inventore, l’ affondo si presenta come il parto tecnico-vocale (di natura misteriosofica) di un fondatore-inventore con tanto di nome e cognome, tale Arturo Melocchi, le cui imprese non propriamente eroiche abbiamo raccontato e analizzato nell’articolo del maggio 2021 di ‘Mozart 2006′ e che in realtà dell’affondo ha inventato (forse) solo il nome. La scuola dell’ affondo si distingue dalla scuola della maschera per un’altra caratteristica: il suo atteggiarsi a scuola iniziatica. Scrive infatti uno dei suoi adepti, Antonio Marcenò, maestro di canto, con riferimento ai rapporti da lui avuti con gli esponenti di questa scuola prima della sua ‘iniziazione’:
“Più volte ho parlato con Mario Del Monaco, Mario Melani, Robleto Merolla e Paride Venturi, i quali giustamente mai si sono sbilanciati nello svelarmi quei famosi segreti condivisi con il loro maestro: si sono mostrati affabili, cordiali, amichevoli, ma sempre vaghi ed elusivi, tenendo strette nel profondo del loro cuore, tutte le indicazioni e le nozioni apprese nella grande esperienza vissuta con Melocchi…”
Per la verità, più si conosce l’ affondo, più ci si rende conto che questa “elusività” esoterica serve a coprire non i mirabolanti (e inesistenti) segreti dell’ affondo, ma qualcosa di molto più banale: i suoi exploit di logica surreale (con cui il belcantistico “canto sul fiato” è stato trasformato in ‘ululato SOTTO il fiato’) e il suo autismo cognitivo, inteso nel senso di totale chiusura degli affondisti a qualsiasi argomentazione e prova documentale, che possa incrinare quelli che Marcenò candidamente definisce i “dogmi” di Melocchi. Tutto questo fa del club degli ‘affondisti’ una sorta di setta e lo accomuna a un’ altra setta, quella dei vocologi, da cui però si differenza per un particolare: mentre i vocologi reagiscono alle critiche usando come ‘argomento’ il mutismo, invece gli affondisti alle critiche reagiscono usando come ‘argomento’ il latrato.
Chi sono gli apostoli dell’ affondo? Tra loro ci si aspetterebbe di trovare i tenori di rappresentanza dell’ affondo e cioè Mario Del Monaco, Nicola Martinucci, Gianfranco Cecchele e, in parte, Corelli (che per altro, in base a una sua precisa testimonianza, ha avuto solo due o tre lezioni da Melocchi). Invece il colpo di scena è scoprire che tutti e quattro questi tenori non solo non si sono mai sognati di fare gli apostoli dell’affondo, ma uno dopo l’ altro hanno provveduto, come meglio vedremo più avanti, a prendere le distanze da questo metodo. Altri sono stati dunque gli apostoli dell’affondo, di cui solo il terzo e il quinto del seguente elenco (già citati sopra) sono viventi e il primo (presunto “genio della didattica vocale” a detta di Marcenò) non era neppure un cantante, il suo unico ‘titolo artistico’ essendo rappresentato dal fatto di essere fratello di Mario Del Monaco.
I loro nomi sono:
1 – MARCELLO DEL MONACO, dirigente scolastico, fratello dell’ omonimo tenore e allievo di Arturo Melocchi (da cui per altro non imparò a cantare, tanto che risulta si sia sempre astenuto dal fare esempi vocali a lezione)
2 – PARIDE VENTURI, tenore, protagonista eponimo di quest’ articolo, di cui parleremo più avanti;
3 – ANTONIO MARCENÒ, tenore, allievo di Marcello Del Monaco ed ex docente di canto al conservatorio di Palermo;
4 – ROBLETO MEROLLA, tenore, allievo di Arturo Melocchi e già docente di canto al conservatorio di Pesaro;
5 – DELFO MENICUCCI, tenore, autore del già citato manuale “Indagine sulla tecnica dell’ affondo”, allievo di Rina Del Monaco e docente di canto al conservatorio di Milano.
In questo primo video sentiamo Marcello Del Monaco enunciare il dogma fondamentale dell’ affondo: il massimo abbassamento della laringe e il suo prodotto, cioè il suono rigorosamente “sempre raccolto”, ovvero modellato su vocali chiuse, posteriori e ‘verticali’ come la ‘U’ e la ‘O’ chiusa. Contro questa idea, che stravolge il concetto belcantistico di “suono puro” e di “voce spiegata”, si espresse in maniera critica anche il suo allievo Gianfranco Cecchele, che nella sua ultima intervista, da lui rilasciata poco prima di morire, osservò che in questo modo si sopprime “la parte alta del suono, che è più importante di quella bassa” col risultato di “affogare la voce”, evento infausto che ad ogni persona dotata delle normali facoltà logiche non può non apparire come l’ effetto scontato di ogni “affondare”.
Un’ altra teoria di Melocchi, riproposta qui da Marcello Del Monaco e ancora più discutibile della prima, è quella secondo cui la corposità del cosiddetto ‘suono di petto’ andrebbe estesa anche alla zona più alta, in tal modo ignorando la fondamentale distinzione, stabilita dal belcanto, tra rotondità pesante delle note gravi e rotondità “LEGGERA e potente” (Lauri Volpi) delle note acute, col risultato di zavorrare l’ emissione e distorcere il suono.
Il secondo apostolo dell’ affondo, che qui consideriamo, è il già citato Antonio Marcenò, allievo di Marcello Del Monaco. La sua ‘mission’ è stata cercare di accreditare come fatto accertato quello che rappresenta il mito (o panzana) di carattere storico-vocale dell’ affondo: la sua derivazione dall’ antica tecnica vocale italiana. A tale scopo, probabilmente ritenendo sufficiente applicare nella sua ricerca il principio, scoperto da Ennio Flaiano, che stabilisce che in Italia la linea più breve per collegare due punti è il ghirigoro, Marcenò si è messo a favoleggiare di un Marco Polo del canto, il nostro Arturo Melocchi per l’ appunto, che per cercare il belcanto italiano un bel giorno parte per la Cina (?), dove apprende da un misterioso cinese (tale Hang o Hong) una altrettanto misteriosa tecnica-vocale, che il cinese aveva appreso da un ignoto maestro russo, che a sua volta l’ aveva appresa a S. Pietroburgo da un maestro francese di origini italiane, di nome Leone Giraldoni, che verso la fine dell’ Ottocento si era messo a insegnare canto in Russia. Una bella favola, per di più esotica, non c’ è che dire. Peccato che Leone Giraldoni, il presunto fondatore primigenio dell’ affondo, non abbia nulla a che fare con l’ affondo, e Melocchi, per rendersene conto, non aveva alcun bisogno di andare in Cina. Bastava che, standosene comodamente in Italia, andasse a leggersi il trattato di canto che Giraldoni in persona aveva scritto e che si intitola “Metodo analitico, filosofico e fisiologico per l’ educazione della voce”. Leggendolo, si scopre che là dove Melocchi prescrive il massimo abbassamento della laringe, Giraldoni invece scrive che “la laringe non sarà che IMPERCETTIBILMENTE abbassata.” Là dove Melocchi prescrive un’ apertura pronunciata della bocca previo “arretramento della mascella inferiore”, Giraldoni invece scrive che “la bocca deve essere aperta naturalmente e senza sforzo e come mossa ad un leggero sorriso.” Là dove Melocchi prescrive assurde manovre di ginnastica laringea per rafforzare i muscoli aritenoidei delle corde vocali (i famigerati “vocalizzi fondi”), Giraldoni scrive, al contrario:
“Non ammetto che l’ attacco del suono venga prodotto da un costringimento dei muscoli della laringe, che necessitando uno sforzo (per piccolo che sia), abituerebbe la gola a costringersi, ciò che reputo più dannoso che utile.”
Infine, là dove gli affondisti, come abbiamo visto, facendo finta di niente hanno ripescato dal cestino (dove l’ avevano giustamente buttata) la ‘maschera’, invece Giraldoni, fedele alla tradizione belcantistica, scrive che NON nella ‘maschera’ ma“nell’ antro faringeo e boccale risiede il nostro Stradivari, la nostra cassa armonica.” (sic)
Ci si può chiedere a questo punto perché mai i fautori dell’ affondo (e Melocchi per primo) abbiano avuto bisogno di inventarsi la storia di una fantomatica filiazione dell’ affondo dalla scuola di Leone Giraldoni. I motivi più probabili sono due:
1 – Leone Giraldoni era un prestigioso baritono verdiano (verdiano nel senso letterale che fu il primo a impersonare ruoli come Simon Boccanegra e Renato del ‘Ballo in maschera’ di Verdi). Pertanto includere la sua figura nell’album dell’ affondo era molto utile per attribuire i necessari quarti di nobiltà alla scuola di Melocchi;
2 – come Garcia aveva fatto per primo, influenzato dai foniatri francesi del tempo, anche Giraldoni mette al centro dello studio del canto determinate idee moderne, totalmente estranee alla scuola di canto italiana storica: l’ abbassamento della laringe, l’ innalzamento del palato molle e la respirazione diaframmatico-addominale di Louis Mandl, incluso il divieto dell’ innalzamento del torace in fase inspiratoria. Qual è però la differenza fondamentale tra Giraldoni e Melocchi? Che mentre Melocchi ripropone queste idee moderne in forma esasperata e talmente hard da sfiorare il grottesco, invece Giraldoni le ripropone solo formalmente, nel senso che in realtà ne vanifica il principio meccanicistico di base e questo avviene sia quando sconfessa le manovre utopistiche di controllo diretto delle corde vocali, sia quando precisa che la laringe deve essere abbassata “IMPERCETTIBILMENTE”. Chiunque abbia capito qual è l’essenza della tecnica del belcanto, avrà capito anche che questo avverbio va interpretato non in senso traslato, ma in senso rigorosamente letterale. In altre parole abbassamento “impercettibile” della laringe non vuol dire abbassamento talmente minimale da non essere percepito, ma vuol dire abbassamento che non DEVE essere percepito dal cantante, il che può avvenire solo a una condizione: che non sia fatto direttamente, cioè meccanicamente, ma sia lasciato avvenire indirettamente, cioè naturalmente, grazie alla distensione inspiratoria, e questo è il principio fondamentale che differenzia la concezione tecnico-vocale del belcanto da quella delle moderne tecniche meccanicistiche e pseudoscientifiche, affondo compreso. Questo vale anche per l’ altra prescrizione foniatrico-meccanicistica, che fa da pendant all’ abbassamento della laringe, e cioè l’ innalzamento del palato molle. Entrambi questi movimenti NON DEVONO essere percepiti dal cantante, esattamente come succede con ogni organo del corpo, quando funziona normalmente, cioè naturalmente.
Ora, quand’è che invece la localizzazione della laringe viene percepita dal cantante? Quando appunto, come prescrivono le nuove concezioni foniatriche, si ricorre al suo abbassamento diretto. In questo caso l’ azione muscolare diventa troppo grossolana per creare la VERA apertura della gola, ricordando che la gola è, assieme alla bocca, una delle due (uniche) cavità di risonanza della voce e che questi due spazi di risonanza devono essere “accordati” tra loro (Mancini), dato che se invece se ne assolutizza uno, estrapolandolo dalla sua relazione armonica con l’altro, il risultato sarà la distorsione acustica, che è quello che succede con l’ abbassamento meccanico della laringe e della mandibola, teorizzate da Melocchi.
L’ abbassamento meccanico della laringe, in quanto azione muscolare grossolana, ha due effetti negativi. Innanzitutto ostacola o altera quella che Lauri Volpi chiamava la “libera articolazione”, ovvero il sintonizzatore automatico della voce, e questo effetto negativo si riscontra anche con la seconda trovata dell’ affondo: imporre come ‘stampino ideale’ una data vocale, che nel caso dell’affondo è la ‘U’. Se si pensa che a ogni vocale corrisponde naturalmente una diversa forma dello spazio di risonanza e un diverso grado di abbassamento della laringe, non ci vuole molto a capire che nessuna vocale può diventare il modello spaziale e risonanziale delle altre vocali o la voce andrà in distorsione acustica, impedendo il crearsi del fenomeno della risonanza libera, tipica del canto di alto livello, noto anche come belcanto. Il grado di assurdità di un espediente del genere si evidenzia ancora meglio se si pensa che, per quanto riguarda la forma dello spazio di risonanza, ogni vocale è, in senso letterale, uno strumento musicale diverso rispetto alle altre, e il fattore fisiologico e tecnico-vocale che rende possibile la magia della transizione immediata, nitida e impercettibile dalla forma spaziale di una vocale a quella della vocale successiva, è l’ articolazione naturale. Pertanto dire che la ‘U’ (o una qualsiasi altra vocale) deve diventare il modello delle altre vocali, equivarrebbe a dire che, suonando un oboe, a un certo punto bisogna fargli assumere una forma simile a quella di un clarinetto.
Il secondo effetto negativo dell’ abbassamento meccanico della laringe è che in questo modo l’ inspirazione non può realizzarsi come fenomeno olistico di distensione-espansione-elevazione e l’ appoggio si trasforma in AFFONDO, che è la sua degenerazione. La stessa cosa dicasi per l’ abbassamento del diaframma e questo è il preciso motivo per cui nei trattati classici del belcanto (Tosi e Mancini) non si parla mai né di abbassamento della laringe, né di abbassamento del diaframma, né di innalzamento del palato molle, né di altre manovre da elefante nella cristalleria. Questo non per ignoranza della fisiologia (come hanno pensato nella loro presunzione gli apprendisti stregoni della cosiddetta ‘scienza del canto’), ma, al contrario, per SUPERIORE CONOSCENZA della voce e del canto. In sintesi il vero controllo della voce è un autocontrollo passivo e indiretto di tipo senso-motorio, che avviene scoprendo e “assecondando gli impulsi naturali” (Mancini), e non tramite un controllo attivo e localizzato di tipo meccanico, come ‘utopizzano’ i fautori dell’ affondo.
Scoprire che il falso pezzo di antiquariato, scoperto da Melocchi (la tecnica vocale del controllo diretto della laringe, del palato e del diaframma) era in realtà solo una patacca moderna, prodotta dalla foniatria francese del tempo, avrebbe dovuto essere sufficiente per far aprire gli occhi a Melocchi & C. sulla vera natura e origine dell’ affondo. Rendersi conto poi che per trovare il pezzo autentico bastava rimanere in Italia andando a leggersi i trattati di Mancini e dei Lamperti, senza dover andare in Cina, suonava come una plateale beffa, dai cui effetti traumatizzanti gli apostoli dell’ affondo hanno pensato bene di proteggersi, dedicandosi al loro sport preferito: mettere la testa sotto la sabbia e tirare fuori dal cassetto nuove panzane con cui coprire quelle vecchie. Una di queste panzane è quella secondo cui l’ affondo di Arturo Melocchi in realtà si sarebbe basato su un approccio morbido, belcantistico alla vocalità e che solo successivamente, con i suoi continuatori, sarebbe intervenuta (per incomprensione o ignoranza) una deviazione in senso pesantemente meccanicistico, e questa è la favola, che viene raccontata nel sito (ancora visibile) del secondo apostolo dell’ affondo, Robleto Merolla e che ritroviamo anche nel recente manuale ‘Esercizi per il riscaldamento e l’educazione della voce’ di Laura Cherici. A smentirla involontariamente è però lo stesso Merolla quando scrive:
“Ricordo di essere giunto da lui con una vocalità che il Maestro non riteneva sufficiente a far sì che la voce giungesse sino all’ ultima fila del teatro e che quindi bisognava renderla più ampia, più timbrata, lavorando molto nel registro basso e centrale, in modo da creare le fondamenta per poter arrivare con la stessa ampiezza e volume sino al massimo del registro acuto.”
Ebbene, questo gonfiare il centro della voce nell’ illusione così di irrobustirla è l’altra grande cantonata presa dai fautori dell’ affondo e va contro un principio fondamentale della tecnica del belcanto, principio che Antonio Cotogni riaffermò autorevolmente nell’ Ottocento, spiegando che questo tipo di ‘volume’ (che consiste nel portare la corposità delle note “di petto” nella zona acuta) è come il “grasso nel corpo, che non è muscolo” e a lungo andare “porta alla morte del suono.”
La metafora preferita dagli affondisti (e qui riproposta da Merolla) e cioè il registro grave della voce come luogo da scavare per costruire le “fondamenta” su cui si appoggia la voce, è quindi radicalmente errata e ciò per il semplice motivo che la voce non è un’ entità solida, materiale, ma fluida. Traducendo (correttamente) la metafora edilizia dell’ affondo in metafora nautica (quale si addice all’ essenza della voce), subito appare chiaro come la ricerca in basso delle ‘fondamenta’ della voce corrisponda a un evento molto diverso e infausto: l’ affondamento della nave-voce. Se si preferisce un’ altra analogia, si può dire che la corposità, estesa abusivamente al di là della zona della voce dove è legittima (la zona detta per l’ appunto ‘grave’), è solo zavorra che appesantisce l’ emissione e porta alla spinta e alla distorsione acustica. Persino uno dei ‘cantanti di rappresentanza’ dell’ affondo, il già citato Gianfranco Cecchele, nell’intervista rilasciata a ‘Opera Click’ riconobbe questo, quando disse che cantando in questo modo si ottiene nel centro della voce un suono pieno, ma col ‘piccolo’ inconveniente che poi quando si passa alla zona acuta, là dove la voce dovrebbe ‘sbocciare’ e dispiegarsi in tutta la sua naturale potenza, invece si rimpicciolisce, e che questo difetto l’ aveva riscontrato in molti allievi attuali dell’affondo, definendolo “un grave errore di tecnica vocale”.
La seconda panzana, raccontata dall’ufficio propaganda dell’ affondo è che questa sia stata la tecnica vocale per antonomasia di cantanti come Mario Del Monaco, Franco Corelli, Nicola Martinucci e Gianfranco Cecchele, quando in realtà tutti e quattro questi cantanti hanno fatto carriera principalmente perché in possesso di una voce naturale, già pronta per il teatro, e l’ affondo l’hanno utilizzato solo per un breve periodo, prima di ripudiarlo ufficialmente, avendone scoperto la pericolosità. Più precisamente, volendo ricorrere a citazioni ad hoc, Corelli ha detto: “l’ affondo scurisce la voce e lo scuro, che è la scoria della voce, vuol dire pesantezza”; Martinucci ha detto: “l’ affondo è l’ anti-canto”; Cecchele ha detto: “l’ affondo affoga le voci grandi e toglie la timbrica al suono” (citazioni tutte rigorosamente autentiche e testuali). Per quanto riguarda poi Mario Del Monaco, in questo video lo sentiamo pronunciare parole che suonano come una vera e propria pietra tombale dell’affondo e cioè: “se uno vuol cantare e vuole resistere, tutto quello che ha detto Melocchi deve cancellarlo e fare il rovescio di quello che ha detto lui.” (sic)
In effetti tutto il video rappresenta una totale sconfessione dei principi dell’ affondo, di cui Del Monaco evidenzia implicitamente i plateali cortocircuiti logici. In che modo? Consigliando l’ allievo di sfiorare la prima ottava senza affondarla e spiegando che questa è la condizione perché la voce poi possa sbocciare (o “sfogare”) naturalmente in tutta la sua potenza e ricchezza di armonici nella zona acuta, Del Monaco riafferma un principio belcantistico, che in epoca moderna verrà ribadito anche da altri grandi cantanti come Lauri Volpi e Aureliano Pertile. Anche la successiva affermazione di Del Monaco, secondo cui la vocale ‘U’ dà rotondità al suono, ma lo priva delle “frequenze alte della voce”, rappresenta una bocciatura esplicita delle teorie di Melocchi e a questo proposito sembra incredibile che Melocchi abbia potuto pensare che una vocale come la ‘U’ aumenti lo squillo della voce, quando tutti sanno che lo squillo è l’ esaltazione nella zona acuta degli armonici della brillantezza, che sono assenti nella ‘U’, vocale (scura, chiusa e verticale) della morbidezza e non della brillantezza. Infine un vero colpo di scena (e una rivoluzione copernicana rispetto alle teorie dell’ affondo) è il consiglio che dà Del Monaco nel video e cioè pensare il suono non nel naso, ma al livello del naso in modo da trovare l’altezza del suono. Già in un’altra occasione Del Monaco aveva riaffermato questo principio, dicendo che “quando si canta, bisogna lasciare che la voce si spanda in alto leggera e aerea”, ma la liquidazione definitiva, attuata da Mario Del Monaco, dell’affondo di Melocchi è testimoniata dal seguente video dove, rivolgendosi al padre di un suo allievo, lo sentiamo dire:
“Suo figlio sta imboccando una nuova strada dal punto di vista tecnico-vocale. Si sta sganciando dalla pressione sulla laringe per acquisire le frequenze alte, ossia indirizzare la voce nella maschera e quasi nel naso. Se non ci si sgancia dalla laringe, un’ opera lirica non la si può cantare, altrimenti ci si affatica. La voce infatti si amplifica non in virtù della laringe, ma in virtù delle cavità di risonanza.”
Con queste parole Mario Del Monaco sancisce ufficialmente il fallimento dell’ esperimento di quel dr. Frankenstein del canto che fu Arturo Melocchi e ne dà la precisa motivazione: un cantante lirico non può cantare un’ opera pensando alla laringe (che, aggiungiamo noi, sarebbe come proporsi di fissare il sole per vedere meglio). Tanto meno può cantare tenendo pressata la laringe in basso, altrimenti si distrugge, ed è scandaloso che a divulgare un espediente così sgangheratamente pericoloso sia stato un tizio, Melocchi per l’ appunto, che nelle registrazioni delle sue lezioni non lo sentiamo mai fare esempi vocali cantando con la laringe “affondata”, ma sempre e solo ‘accennando’ e tenendo paradossalmente la laringe alta e la gola chiusa…
Purtroppo, se la negazione dei principi dell’ affondo, ufficializzata qui da Del Monaco, è ineccepibile, non altrettanto lo è il rimedio da lui suggerito per questo errore e cioè l’“indirizzare la voce nella maschera”, indicazione questa che dimostra come neppure a Del Monaco fosse chiaro il vero significato dell’ antichissimo concetto di ‘voce alta’. Questa mitica altezza del suono (di cui parlò per la prima volta Isidoro da Siviglia nel VI secolo d. C.) non ha nulla a che fare con il sarchiapone moderno della ‘maschera’, ma corrisponde alla percezione mentale che il cantante ha, quando il suono ha trovato il suo perfetto equilibrio acustico. Il che significa che il suono non deve mai essere “indirizzato nella maschera” o portato ‘avanti’ o in alto (altrimenti, come ha affermato Corelli, “la gola si chiude”), ma deve nascere mentalmente GIÀ in alto, all’altezza di una linea immaginaria che (orientativamente e non anatomicamente) è sopra la bocca e sotto gli occhi. In altre parole il suono, anche se appoggiato sulla muscolatura respiratoria, non deve essere affondato, ma deve GALLEGGIARE SULLA PROFONDITÀ, precisando che il senso della profondità è generato dalla respirazione naturale globale (che è quella che apre anche nel giusto modo la gola), mentre il senso dell’ altezza-galleggiamento è generato dal perfetto accordo acustico tra le due cavità di risonanza, nel rispetto dell’ articolazione naturale parlata. La vera profondità insomma è una profondità vista dall’ alto (che è il motivo per cui è nata l’espressione ‘alto mare’), mentre quella dell’affondo di Melocchi non è profondità, ma solo bassezza.
Come vedremo meglio più avanti, questa concezione belcantistica (e anti-affondistica…) era stata ribadita anche da Caruso con le parole:
“Il più grave errore commesso da molti cantanti è attaccare il suono all’ altezza del petto o della gola.” (cioè affondando il suono…)
Ma un’ ulteriore autorevole bocciatura dell’ affondo è quella che troviamo negli scritti di un altro grande cantante che gli affondisti tentano abusivamente di annettere al proprio metodo e questo cantante è Aureliano Pertile, il quale nel suo trattato così scrive significativamente dei cantanti dell’ affondo laringeo (tecnica vocale già esistente prima che Melocchi ci mettesse sopra la sua etichetta):
“Un’ apertura di gola eccezionale e una laringe completamente abbassata causano grande difficoltà nell’ uguaglianza dei registri, fanno spendere molte energie, consumano fiato e sono di difficile controllo. Inoltre fanno perdere la dolcezza della voce, INGROSSANDONE IL CALIBRO” (dove il ‘calibro grosso’ corrisponde al “grasso come morte del suono” di Cotogni, e il ‘calibro piccolo’ corrisponde al nucleo lucente del suono, quale nasce non dai trogloditici “fondi” e “colpi di glottide”, ma dall’ auto-avvio del suono puro del parlato).
A questo punto è di fondamentale importanza chiarire un concetto che gli affondisti mostrano di non aver ancora capito nel momento in cui scambiano la “voce alta” del belcanto con la “voce in maschera” delle moderne tecniche foniatriche. La percezione (mentale) del vero suono alto (che, ripetiamo, è un suono GIÀ alto e non ‘portato in alto’) può nascere solo a tre condizioni:
1 – che il cantante inizi il suono tramite il suo semplice e naturale auto-avvio (il “suono franco” e “pronto” dei belcantisti e l’ ”attacco vero e puro” di Caruso);
2 – che abbia appreso come si realizza la vera apertura della gola (il che può avvenire solo grazie alla respirazione naturale globale);
3 – che non cerchi di indirizzare o ‘proiettare’ il suono in nessun punto dello spazio (interno o esterno).
Se ora torniamo all’ interpretazione che dell’ affondo di Melocchi hanno dato i suoi apostoli, troviamo che la massima esaltazione-edulcorazione, ovvero falsificazione promozionale, della figura di Melocchi è quella attuata dal maestro che dà il titolo a questo articolo, PARIDE VENTURI, il quale nel seguente video arriva addirittura a definire sensazionalisticamente Melocchi “il più grande insegnante di canto di tutti i tempi.” (!)
A dar credito alla testimonianza di questo video sembrerebbe che Arturo Melocchi (il presunto “più grande insegnante di canto di tutti i tempi”…) fosse quasi un belcantista. Infatti i suoi principi tecnico-vocali secondo Venturi sarebbero stati questi:
1 – niente suoni spinti nella ‘maschera’ (sarchiapone francese, già liquidato ante litteram dai belcantisti italiani come “vizio del naso”);
2 – canto concepito come semplice “parlare sul fiato”;
3 – educazione vocale basata sulla ‘messa di voce’ e non sullo sforzo;
4 – contatto della voce non con le corde vocali, ma col diaframma (il famoso ‘appoggio sul fiato’ del belcanto).
Peccato che questo quadretto idillico, dipinto da Paride Venturi, abbia pochi rapporti con la realtà, oppure diciamo che ce l’ha, ma esattamente come il dr. Jekyll ha rapporto con Mr. Hyde.
Che razza di ‘tecnica vocale’ fosse in realtà quella di Arturo Melocchi risulta ormai accertato storicamente in via definitiva dalle parole di un testimone al di sopra di ogni sospetto, il tenore Mario Del Monaco, l’ allievo di rappresentanza di Melocchi, che in questi due video provvede a svelarci con la sua viva voce i retroscena (macabri) della scuola di Arturo Melocchi, il presunto “più grande insegnante di canto di tutti i tempi’:
https://www.youtube.com/watch?v=spEp0rEu0BI
Da queste testimonianze apprendiamo dunque che nel momento in cui, andando contro il volere del padre, Del Monaco decise di prendere lezioni da Melocchi. si premunì dotandosi di un ‘antidoto’ nella persona di un insegnante ‘segreto’ (tale Antonio Morigi), incaricato di dare a Del Monaco delle ‘controlezioni’ di canto per impedire che Melocchi facesse a lui quello che “tutti dicevano a Pesaro” faceva alle voci degli altri allievi: scassarle. Un’ altra precauzione, presa consapevolmente da Del Monaco, fu quello di ‘assumere’ Melocchi a piccole dosi, andando a lezione da lui solo due volte al mese, invece che due volte alla settimana, come facevano gli altri allievi. In effetti, se è vero che, come riferisce qui Del Monaco, dopo una lezione con Melocchi “si rimaneva rauchi per una settimana e si steccava anche per dire ‘buona sera!’” (citazione testuale), si capisce perché Del Monaco arrivi, nella seconda di queste due interviste, a paragonare Melocchi alla stricnina (!), stricnina che, apprendiamo significativamente da Wikipedia, è un veleno, che però “nella prima metà del Novecento, veniva usato a piccole dosi come stimolante e come doping nello sport, prima che si scoprisse che a causa della sua alta tossicità, provocava convulsioni, per cui quest’uso fu in seguito abbandonato”. Insomma, esattamente quello che succedeva agli allievi di canto che nello stesso periodo storico decisero di assumere la stricnina dell’ affondo senza aver preso l’ antidoto, preso da Del Monaco. Non dimentichiamo in proposito che sia Corelli sia la Tebaldi, che avevano frequentato il conservatorio di Pesaro, hanno testimoniato che a più di un allievo di Melocchi era accaduto di perdere sangue dalle corde vocali durante la lezione, il che spiega perché, nella zona dove operava, la scuola di Melocchi si sia meritata il titolo significativo e icastico di “scannatoio”.
La verità dunque è che, contrariamente alle storielle edificanti, raccontate da Robleto Merolla e Paride Venturi, Arturo Melocchi cercava eccome la forza della voce nelle corde vocali! Anzi, sempre secondo la testimonianza di Del Monaco, questa era la sua fissazione ed è ‘grazie’ a questa fissazione che Melocchi riusciva, con una sola lezione, a mettere K.O. per una settimana anche voci d’acciaio come quella di Del Monaco. (Figuriamoci che fine faceva fare a quelle normali). La giustificazione, addotta da Melocchi per questi suoi atti di sadomasochismo vocale, spacciato per ‘scienza’, è la bislacca teoria secondo cui “cercando lo sforzo massimo dei muscoli tensori delle corde vocali” queste si ‘irrobustirebbero’. Più precisamente, riferisce Del Monaco, Melocchi era dell’ idea che “i vocalizzi non servono a niente, se non fanno lavorare la laringe, sottoponendo alla massima tensione i muscoli aritenoidei delle corde vocali, che devono essere tirati come si tirano le briglie del cavallo” (?!), teoria totalmente demenziale per il semplice fatto che fisiologicamente le corde vocali (così come il diaframma) non possono essere controllate direttamente. Non solo. L’ altro principio foniatrico-demenziale, adottato da Melocchi, era che “più si sale nel registro acuto, più bisogna abbassare la laringe”: tutt’altro quindi che il “semplice appoggio sul fiato” come fondamento del metodo Melocchi, di cui favoleggia Paride Venturi nel video!
Nel video Paride Venturi fa due affermazioni, che esigono un chiarimento. La prima è un ‘truismo’, ossia un’affermazione in apparenza ovvia e autoevidente, che è: “la voce nasce in gola e non nella maschera.” Ora, che la voce NON nasca nella maschera è vero a tutti gli effetti, non essendo la ‘maschera’ una cavità di risonanza ma, al contrario, una cavità di assorbimento del suono (cioè di anti-risonanza), come il belcanto ha sempre saputo e come anche la scienza attuale alla fine ha dovuto riconoscere, dopo che nell’ Ottocento l’ aveva inventata. Invece, che la voce nasca in gola è solo apparentemente vero (e quindi falso ai fini del canto). Più precisamente, la voce nasce sì in gola fisicamente e fisiologicamente, ma la percezione che l’ essere umano ne ha (sia parlando, sia cantando) è che essa nasca NELLA BOCCA e questa verità si è impressa anche nel linguaggio, dove la fonazione umana comunicativa ha significativamente preso il nome non di ‘faringazione’ o ‘glottazione’, ma di ORAZIONE (cioè, appunto, fenomeno che avviene nella BOCCA). Questo perché è nella bocca che, grazie al processo naturale di articolazione-sintonizzazione del suono, avviene la trasformazione del primordiale RONZIO, prodotto dalla vibrazione delle corde vocali, in VOCE UMANA ed è nella bocca che si riflettono naturalmente (senza alcun bisogno di esservi “portate” o “proiettate”!) le onde sonore.
In effetti l’ idea che la voce nasca nella laringe è qualcosa che a nessuno verrebbe in mente, se qualcuno non glielo dicesse. Si tratta pertanto di una mera nozione intellettuale, del tutto avulsa da quel vissuto sensoriale, soltanto grazie al quale l’essere umano può creare il canto. Da questo punto di vista l’idolatria della laringe degli affondisti ha raggiunto un livello tale che qualcuno è arrivato addirittura a suggerire che il cantante dovrebbe immaginare la bocca collocata nella laringe, il che fa il paio, quanto ad assurdità, con l’idea, di segno opposto, di Alfredo Kraus di immaginare che le corde vocali siano collocate nella ‘maschera’. In questo modo i fautori dell’ affondo sono riusciti a uguagliare i fautori della ‘maschera’ in quell’ operazione che consiste nel lasciare che le loro fobie irrazionali producano strampalate idee tecnico-vocali come la ‘bocca-laringe’ e il ‘naso-laringe’.
La fobia dei fautori della ‘maschera’ ha per oggetto, come abbiamo visto, la gola, considerata quasi come un terreno minato da cui occorre stare a distanza di sicurezza, ‘proiettando’ il suono ‘avanti’ e rifugiandosi nella cavità di risonanza irreale della maschera. La fobia dei fautori dell’ affondo ha invece per oggetto la bocca, che bisognerebbe verticalizzare o “ovalizzare” per paura dei cosiddetti ‘suoni aperti’, ignorando che i suoni diventano ‘aperti’ in senso negativo non a causa della naturale orizzontalità della bocca (che tale deve rimanere anche cantando!), ma perché non si è riusciti a trovare il giusto collegamento-fusione (l’ “accordo” di Mancini) tra lo spazio di risonanza della bocca e lo spazio di risonanza della gola. Ricordiamo in proposito che persino Pertile (ossia un cantante che, volendo adottare la terminologia di Melocchi, NON era propriamente un “tenore castrato”!) scrive nel suo trattato che la bocca si apre più orizzontalmente che verticalmente, mentre Gigli (ricollegandosi direttamente al belcanto e sconfessando i moderni tubi verticali di Garcia-Melocchi) afferma che nella zona acuta la percezione dello spazio di risonanza interno ASSOMIGLIA a quella della vocale ‘A’.
In questo modo entrambe le ‘tecniche’ (la ‘maschera’ e l’”affondo”) sono arrivate a considerare come spazio tabù e quindi mettere fuori gioco una delle DUE (uniche) cavità di risonanza REALI della voce, escludendo dallo spazio di risonanza totale della voce rispettivamente la gola e la bocca. Il risultato di questi stravolgimenti è che i suoni prodotti con la tecnica della ‘maschera’ saranno sempre tendenzialmente schiacciati e i suoni prodotti con la tecnica dell”affondo’ saranno sempre tendenzialmente intubati. Questo perché sia agli ‘affondisti’, sia ai ‘mascheristi’ resterà sempre ignota una semplice ma fondamentale verità, scoperta dai belcantisti: lo spazio di risonanza della voce cantata è uno spazio BICAMERALE. Una verità questa, che è stata espressa da Mancini nel Settecento con l’idea che l’ educazione vocale consiste nel trovare “l’ accordo tra bocca e gola”, ed è stata riproposta da Giraldoni nell’ Ottocento con l’idea dell’ “antro faringeo e boccale” come vera “cassa armonica e Stradivari della voce”. Altro che gli spazi ‘monocamerali’ e rigidi dell’ affondo, coi suoi tubi verticali (vedi Melocchi), e della maschera, con le sue marmitte orizzontali (vedi Alfredo Kraus)!
La seconda affermazione discutibile di Venturi è quella secondo cui “Melocchi non ha scoperto niente di nuovo”, il che è vero ma non nel senso che immagina Venturi. Nel dire questo infatti Venturi vuole far credere (ricorrendo a una frase a effetto, basata sul topos retorico dell’ ‘understatement’) che Melocchi avrebbe ‘solo’ ripristinato l’ antica tecnica vocale italiana, precedente l’ invenzione del già citato sarchiapone scientifico, noto come ‘maschera’. Le cose in realtà stanno diversamente. Che Melocchi non abbia scoperto niente di nuovo è senz’ altro vero, ma solo nel senso che ha copiato pari pari le idee di Manuel Garcia figlio, il primo sovvertitore dei principi del belcanto. O meglio, come ha detto sarcasticamente Shakespeare di quegli attori che “vogliono essere più Orco dell’ Orco e più Erode di Erode”, anche Melocchi ha voluto essere più Garcia di Garcia e in questo modo ha dato il colpo di grazia alla tecnica del belcanto, che Garcia per primo aveva alterato e stravolto. Prima di analizzare il contributo di Melocchi all’ ‘operazione Garcia’, vediamo come quest’ ultimo ha attuato il suo stravolgimento, stravolgimento che storicamente ha determinato la deviazione della didattica vocale dalla scuola di canto italiana storica, nota anche come scuola del belcanto:
1 – con l’idea del “timbro scuro” della voce e con l’idea dell’abbassamento diretto della laringe e del sollevamento diretto del palato molle, lo spazio di risonanza del canto, che i belcantisti avevano concepito come “voce spiegata” e “voce espansa”, viene innaturalmente verticalizzato, sopprimendo la componente orizzontale della brillantezza e quindi letteralmente intubando il suono;
2 – la genesi del suono viene ricondotta non più all’ auto-avvio del suono puro del parlato, secondo la concezione del belcanto, ma a quell’atto grossolanamente meccanico che è il “colpo di glottide”. Da questo punto di vista la frase sopra citata di Melocchi, ripresa da Paride Venturi, e cioè “il suono nasce nella gola”, include in sé anche il significato di suono che nasce al livello delle corde vocali. In questo modo si evidenzia ancora di più la sua distanza abissale dalla concezione (molto più evoluta) del belcanto, secondo la quale invece, volendo usare le parole di Lauri Volpi, il suono nasce solo materialmente in gola, ma in realtà, per quanto riguarda la sua vera prima causa, nasce “nel fondo della coscienza”;
3 – l’ unità organica e indivisibile del ‘chiaroscuro’ belcantistico (misteriosa fusione del centro di luce creato dal suono parlato con lo spazio ampio e avvolgente, creato dal vero respiro, entrambi rispettati nella loro autonomia) viene scissa in due stampini artificiali (il timbro SCURO e il timbro CHIARO), il che ha lo stesso grado di insensatezza e di allontanamento dalla realtà di chi teorizzasse l’ esistenza di due tipi di atomi: gli atomi fatti di solo nucleo e gli atomi fatti di soli elettroni.
4 – viene introdotta la falsa teoria (ancora oggi spacciata per fatto obiettivo) secondo cui le vocali orizzontali ‘A’, ‘E’, ‘I’ per arrotondarsi dovrebbero verticalizzarsi e mescolarsi con vocali posteriori come la ‘U’ e la ‘O’, che è il modo perfetto per spegnere la lucentezza naturale del suono e ingrossarne il nucleo (ovvero il “calibro” di cui parlava Pertile), in altre parole per INTUBARE il suono.
(fine della prima parte)
Antonio Juvarra
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