Antonio Juvarra – Il canto di oggi e il canto di una volta

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L’ articolo mensile di Antonio Juvarra è dedicato questa volta alla recensione di due libri di didattica vocale. La sua disamina è puntuale e attenta, oltre che come sempre esposta con grande lucidità e io penso che l’ opinione di Antonio potrà interessare a molti lettori.

IL CANTO DI OGGI E IL CANTO DI UNA VOLTA

Nel catalogo della casa editrice ‘Ut Orpheus’ figurano, tra gli altri, due libri di didattica vocale: il primo si intitola “Esercizi per il riscaldamento e l’ educazione della voce” di Laura Cherici e il secondo si intitola “Il canto lirico nella tradizione italiana” di Sergio Catoni. Entrambi sono degni di attenzione in quanto rappresentano due concezioni tecnico-vocali radicalmente diverse: quella del belcanto, cioè della scuola di canto italiana storica, e quella (antitetica) della scuola moderna di canto, nata nella seconda metà dell’ Ottocento dalle teorie foniatriche di Manuel Garcia figlio.
Il libro di Laura Cherici è preceduto da una prefazione di Marco Tutino, che dice:

“In questo manuale di tecnica vocale si affronta con lucidità e pragmatismo il tema della preparazione necessaria per produrre e gestire correttamente il canto lirico, più precisamente il canto lirico all’ italiana. Da subito sono chiarite le caratteristiche peculiari di fonazione vocale che contraddistinguono le particolarità della nostra lingua. Ragioni e tipologie che nella storia del canto hanno visto crescere e svilupparsi proprio quello stile italiano al quale bene o male si riconosce un primato e un ruolo fondamentale nell’ esercizio della vocalità dal vivo.”

Nel leggere questa presentazione, subito viene spontaneo pensare: dunque finalmente abbiamo un metodo che recupera i principi della famosa (quanto ignota) tecnica vocale italiana! Purtroppo l’ entusiasmo iniziale subito si smorza, appena incominciamo a sfogliare il libro: a pag. 22 infatti ci imbattiamo in due fotografie, la prima di una bocca atteggiata “a uovo” e la seconda di una bocca atteggiata “a sorriso”, e apprendiamo che per l’ autrice quella da utilizzare sarebbe la prima. Scrive infatti la Cherici, sconfessando subito così la presunta italianità del suo metodo:

“Quella che io chiamo posizione ‘a uovo’ comporta l’ apertura della bocca in posizione allungata in senso verticale, come se si pronunciasse la vocale ‘O’ della parola ‘ora’. In essa bisogna imparare ad articolare tutte le vocali, in special modo la ‘I’ e la ‘E’. Sono vocali che per natura saremo portati a pronunciare verso i denti, ma così facendo la nostra bocca si aprirebbe in orizzontale, anziché in verticale, ritrovandosi a produrre i suddetti suoni schiacciati.”

Questa teoria non solo è anti-belcantistica, ma è anche anti-fisiologica e questo per il semplice motivo che la bocca è anatomicamente orizzontale e la sua forma rimane orizzontale con quattro vocali su sette, ‘ovalizzandosi’ solo con le vocali ‘O’ e ‘U’. Questo concetto lo si trova chiaramente espresso nel più importante trattato del belcanto, ‘Le riflessioni’ di Giambattista Mancini. Ora il paradosso è che la teoria della bocca “a uovo” viene fatta tranquillamente convivere dalla Cherici nel suo libro con citazioni di belcantisti, come ad esempio Tosi, che invece affermano esattamente il contrario. Addirittura lo stesso Manuel Garcia jr. (che pure è il trattatista post-belcantista da cui la Cherici ha mutuato i concetti di “vocale oscurata”, di “colpo di glottide”, di abbassamento diretto della laringe e innalzamento diretto del palato molle) scrive inequivocalmente nel suo trattato:

“Il modo di acconciar la bocca fu anche dagli antichi maestri riguardato sempre come cosa della massima importanza. UNA BOCCA APERTA OVALMENTE, A GUISA DI PESCE, PRODUCE SUONI DI CARATTERE BORBOTTANTE E LAMENTOSO. (….) Tosi nel 1723 e più tardi anche Mancini pongono per base che il cantante debba disporre la bocca come quando sorride naturalmente. Aprasi dunque la bocca, ma NON NELLA FORMA OVALE DI UNA ‘O’.”

Ove questo non bastasse, sempre Mancini, citato da Garcia nel suo trattato, approfondisce ancora di più la questione, arrivando a definire “mostruosa” la forma ovale della bocca, consigliata dalla Cherici. La definisce così non tanto per ragioni di inestetismo visivo, quanto perché, scrive Mancini, la bocca ‘a uovo’ produce “suoni sepolcrali e spenti”.
In effetti basta provare a parlare con questa posizione della bocca e il risultato sarà un effetto orso Yoghi, che non è propriamente il massimo risultato estetico che si possa auspicare parlando, tanto meno cantando. Si nota in questo caso uno strano fenomeno: la brillantezza naturale del suono (che è la qualità acustica che fa ‘correre’ la voce) semplicemente SPARISCE. Perché questo? Perché la brillantezza è generata proprio dal rispetto sia della forma naturalmente orizzontale della bocca, sia del movimento articolatorio orizzontale-circolare, che si svolge all’interno della bocca. Proviamo a dire la serie delle vocali ‘AEIOU’ in modalità naturalmente fluida-legata e ci si accorgerà che l’ articolazione umana (in tutte le lingue!) si svolge lungo un asse orizzontale e non verticale, asse orizzontale che ovviamente verrà alterato o distrutto se la bocca viene atteggiata ‘a uovo’. Questo asse orizzontale è il vero generatore della componente acustica della brillantezza, che la Cherici invece immagina sia generata da quelle cavità (la cosiddetta ‘maschera’) che recentemente la scienza ha scoperto essere NON una cavità di risonanza, ma, al contrario, una cavità di assorbimento del suono.

La natura obiettiva, universale di questo fenomeno acustico-fisiologico è sempre stata conosciuta dai belcantisti, da cui le loro ripetute raccomandazioni di non alterare la forma naturale della bocca con pretesti vari di tipo pseudo-tecnico. Purtroppo molti (tra cui la Cherici) confondono la maggiore apertura della bocca che interviene nella zona acuta, con la verticalizzazione della sua forma. È evidente quindi che l’ idea della Cherici secondo cui le diverse posizioni della bocca sarebbero una questione di preferenza soggettiva, è una teoria infondata. In realtà è la stessa struttura fisiologica, acustica e fonetica della fonazione umana a esigere il rispetto della forma naturale della bocca, che NON è verticale neppure quando, come negli acuti, la bocca per precise esigenze acustiche, si apre di più (come già succede naturalmente, chiamando qualcuno ad alta voce). È vero che ci sono cantanti che, compensando più o meno bene lo squilibrio acustico e fisiologico da loro così creato, possono atteggiare la forma della bocca ‘a uovo’ o ‘a trombetta’ e articolare in verticale, ma il risultato acustico non potrà mai essere dello stesso livello di perfezione che se rispettassero il processo dinamico dell’ articolazione, quale è stato stabilito dalla natura: di qui l’ eccellenza della scuola di canto italiana, che ha sempre avuto come stella polare il principio di naturalezza.

A questo punto risulta chiaro il motivo per cui i belcantisti raccomandavano l’ uso di vocali orizzontali come la ‘A’ e la ‘E’ e consigliavano di mantenere una bocca lievemente a sorriso: non per fissare una forma ‘ideale’, statica dello spazio di risonanza (come si farà nell’Ottocento con le bocche ovali o a imbuto), ma per garantire le condizioni perché il processo naturale dell’ articolazione possa funzionare da sintonizzatore automatico del suono puro. Da dove nasce l’ errore della Cherici, secondo cui bisognerebbe “imparare ad articolare tutte le vocali, come se si pronunciasse la vocale ‘O’ della parola ‘ora’”, teoria che rappresenta il massimo di anti-italianità che si possa concepire? Nasce dalla convinzione che le vocali orizzontali (o laterali) come la ‘A’, la ‘I’ e la ‘E’ siano, come lei scrive, “vocali che per natura siamo portati a pronunciare verso i denti, ma così facendo la nostra bocca si apre in orizzontale, anziché in verticale, ritrovandosi a produrre i suddetti suoni schiacciati.”

Chi propone teorie come questa (in primis il loro inventore Manuel Garcia jr.) non si è mai lasciato sfiorare da un dubbio: se alcune vocali funzionano male cantando, è più verosimile che la causa sia da ricercare in una loro difettosità genetica, naturale, o sia piuttosto da ricercare nella teoria tecnico-vocale sbagliata che le FA funzionare male? In effetti basta indagare un po’ più a fondo e si scopre che le vocali da ‘correggere’ hanno incominciato a non funzionare più bene in epoca relativamente recente, cioè da quando qualcuno nella seconda metà dell’ Ottocento si è inventata la storia secondo cui il suono dovrebbe essere ‘proiettato’ ‘avanti’, sul palato duro e/o in ‘maschera’. A questo punto è evidente che tutte le vocali che sono per loro natura foneticamente anteriori come la ‘E’ e la ‘I’, ma anche la ‘A’, a seguito di questo processo di anteriorizzazione , diventeranno “schiacciate”, ma questo schiacciamento sarà appunto solo il risultato di questo espediente tecnico-vocale errato e NON dell’ apertura naturalmente orizzontale della bocca. A questo proposito non si deve pensare che il principio dell’ apertura orizzontale (impropriamente detta ‘a sorriso’) della bocca sia una caratteristica della tecnica vocale settecentesca, precedente l’ invenzione delle tecniche vocali ‘a tubo’ della foniatria francese dell’Ottocento, perché lo stesso principio viene ribadito per iscritto da cantanti non propriamente ‘settecenteschi’ come Enrico Caruso e Aureliano Pertile, il quale nel suo trattato scrive testualmente che “l’apertura della bocca è più orizzontale che verticale”.

Ma rileggiamo le pagine iniziali del libro della Cherici, ad esempio la pag. 13, dove apprendiamo quale sia la fonte, molto poco italiana, da cui l’ autrice ha attinto queste sue idee: l’ affondo di Melocchi. Scrive infatti Laura Cherici:

“Col maestro Alain Billard, che veniva dalla scuola dell’ affondo di Arturo Melocchi, ho incominciato un estenuante lavoro sulle note tenute per cercare di ‘attaccare’ il suono più in basso, utilizzando l’ idea di quel ‘TUBO’, di cui mi aveva parlato il maestro Fedrighi.”

Questo outing della Cherici a favore dell’ affondo appare come un vero e proprio colpo di scena. Infatti in epoca di virus, più o meno debellabili, sembra incredibile che nella didattica vocale ITALIANA ancora resista il virus denominato ‘affondo’, metodo totalmente estraneo alla scuola di canto italiana storica e ai suoi principi tecnico-vocali.
Come è noto, il marchio ‘affondo’ (non l’idea, che non è sua) è riconducibile a un maestro di canto italiano, Arturo Melocchi, significativamente cacciato per incapacità dalla cattedra di canto del Liceo Musicale di Pesaro niente di meno che da Umberto Giordano, cioè proprio da uno dei compositori più eminenti di quell’ opera verista, di cui l’ affondo pretenderebbe comicamente di essere la tecnica vocale ‘filologica’. L’ affondo ha le sue origini nel Nord Europa. Infatti è da una costola adamitica di Manuel Garcia jr e della foniatria francese ottocentesca, ossia la famigerata “voce oscurata” (creata abbassando la laringe, alzando il palato molle e quindi letteralmente ‘intubando’ lo spazio di risonanza), che tale Georg Armin, un dr. Frankenstein tedesco del canto, ricavò nei primi anni del Novecento un parto mostruoso, che verrà poi replicato in Italia col nome di “affondo” da un dr. Frankenstein nostrano, Arturo Melocchi appunto, che pertanto può essere considerato a tutti gli effetti ‘figlio’ di Armin e ‘nipote’ di Garcia.  Questa configurazione vocale era già stata liquidata ‘ante litteram’ nel Settecento dal succitato Giambattista Mancini, quando nel suo trattato ironizza su quelli che “cantano a gola piena con voce pesante e affogata”, fornendo così il perfetto identikit dei futuri affondisti.

Le modalità con cui il suono viene ‘affondato’ (alias “appesantito e affogato”) o come minimo ‘intubato’, sono:

1 – scurire le vocali;

2 – mescolare una vocale anteriore con una vocale posteriore;

3 – abbassare direttamente la laringe;

4 – verticalizzare (cioè ‘intubare’) la forma dello spazio di risonanza;

5 – posizionare le note acute in basso, sotto quelle centrali.

Tutte queste modalità (tranne la seconda) vengono purtroppo fatte proprie e riproposte, una dopo l’altra, dalla Cherici nel suo libro. Partiamo dalla prima: scurire le vocali. La Cherici incomincia auspicando (giustamente) l’ utilizzo di “vocali chiare e pulite”, ma subito dopo si contraddice scrivendo:

“Tutte le vocali vanno pensate, e quindi cantate, come se fossero vocali più SCURE, in modo da arrotondare il suono.”

Ora è evidente che se una vocale è “pensata e cantata più scura” non può più essere “chiara e pulita”. La teoria della “voce scura” proviene direttamente dalla falsa equazione (inventata da Garcia e con lui entrata stabilmente nella didattica vocale) ‘vocale oscurata = vocale arrotondata’. In realtà per arrotondare il suono non bisogna affatto scurirlo, tant’ è che prima di Garcia jr. nessuno s’era mai sognato di affermare una cosa del genere. Per confutarla basta semplicemente fare presente che, se così fosse, nel canto non esisterebbero le vocali italiane ‘a’, ‘e’, ‘i’, ma solo le vocali miste (francesi, tedesche e inglesi) ‘ao’, ‘oe’, ‘y’ e a questo punto chi propone teorie del genere dovrebbe chiedersi perché il belcanto sia nato non in Francia o in Germania, ma in Italia, la cui lingua non contiene vocali miste. L’ incipit di “Amarilli mia bella” di Caccini, tutto basato su vocali pure (cioè non scurite artificialmente), è la migliore smentita musicale della trovata di Garcia ed è anche la prova che gli antichi maestri italiani avevano già trovato il modo di arrotondare le vocali nel canto senza alcun bisogno di ricorrere all’ espediente di Garcia dello scurirle, mescolarle o modificarle.

Indifferente a ciò, la Cherici prosegue per la sua strada, arrivando a individuare il rischio di distorsione acustica delle vocali non nel loro oscuramento & verticalizzazione, ma, al contrario, nel loro “allargamento”. Ora, tenuto conto che le vocali si creano in quello spazio di forma orizzontale che è la bocca e che lo spazio di risonanza del canto è bicamerale (cioè non è solo orale e non è solo faringeo, ma orofaringeo), il rischio di “schiacciamento” non è dato da un loro “allargamento” (considerato anche che delle sette vocali italiane ben quattro, cioè la maggioranza, e precisamente la ‘a’, la ‘e’ aperta, la ‘e’ chiusa’ e la ‘i’, sono vocali ‘orizzontali’), ma è dato dall’ incapacità di aprire la gola nel modo corretto, modo corretto che a sua volta non è dato (come crede la Cherici, ancora una volta sulla scorta di Garcia) dall’ alzare intenzionalmente il palato molle, altrimenti quello che si viene a creare è un TUBO VERTICALE, che non potrà che ‘intubare’ per definizione il suono.  La verticalizzazione (alias intubamento) dello spazio di risonanza, causata dall’idea di scurire le vocali e/o abbassare direttamente la laringe, fa quindi da perfetto ‘pendant’ (anti-belcantistico) alla precedente prescrizione della Cherici, quella di atteggiare la bocca “a uovo”.

Purtroppo più ci addentriamo nella lettura del libro, più si conferma che la strada scelta dalla Cherici va nella direzione diametralmente contraria a quella segnata dalla scuola di canto italiana storica e questa direzione è, in maniera sempre più inequivocabile, quella anti-acustica, anti-fonetica e anti-fisiologica dell’ affondo. Lo confermano frasi come queste:

“Cambiando vocale, dobbiamo evitare di cambiare posizione rispetto a quella di partenza, ottenuta con la ‘U’, senza rischiare di spostare la posizione sia interna che esterna del suono e della bocca, come a volte verrebbe naturale fare; perciò dobbiamo rimanere nell’ alveo che abbiamo creato e lo possiamo fare solo se pensiamo che le vocali più scure restino in una posizione verticale e non orizzontale.”

“Il segreto per riuscire a uniformare i nostri suoni, come mi ripeteva il maestro Billard, sta nel coraggio di rimanere fermi: una volta assicurata la prima nota nella giusta posizione, tutte le vocali, qualsiasi esse siano, devono rimanere nella stessa posizione senza che vi siano movimenti nell’apparato fonatorio o cambi facciali repentini.”

Applicare alla lettera queste indicazioni significa a tutti gli effetti ingessare la voce e distruggere la sua natura fluida e dinamica. Siamo veramente agli antipodi rispetto alla concezione di Mancini del canto come risultato dell’ “accordo tra MOTO naturale della gola e MOTO consueto della bocca” e al suo concetto di “felice flessibilità”. Siamo sideralmente lontani anche dal principio espresso da Tosi con le parole “che il canto trovi sempre libera tutta la sua organizzazione!” Qui di “libero”, di snodabile e di mobile non c’ è assolutamente nulla. E il bello è che poi con questa rigidità e immobilità precostituita del sistema di articolazione e di risonanza, si esige il rispetto dell’ obbligo di una “pronuncia e una corretta fonetica delle parole”, eliminando “le inflessioni dei dialetti di provenienza regionale dei vari cantanti.” In altre parole, prima si stabilisce che “ricercare la pronuncia corretta delle parole è un dovere dell’ artista” e poi si impone a questo stesso artista di “evitare, cantando una vocale, di cambiare la posizione rispetto a quella di partenza, ottenuta con la ‘U’”.

C’ è da chiedersi da dove sia nata l’ idea della Cherici (e di molti altri maestri di canto) che l’ articolazione naturale determini la chiusura della gola e la distruzione del legato e dell’ appoggio. La risposta è da ricercare nell’ ignoranza di questo fatto: il canto è la fusione di due opposti dimensionali, che sono il piccolo del parlato e il grande del respiro. Ne deriva che i movimenti articolatori del parlato POSSONO E DEVONO COESISTERE con l’ ampliamento dello spazio di risonanza interno (quello che viene definito ‘gola aperta’), quale è generato dalla respirazione naturale profonda. Sono questi movimenti articolatori minimali la vera causa di quella “punta del suono”, a cui accenna la Cherici quando parla della sensazione di un “forellino” da cui bisogna immaginare di far passare tutti i suoni. Pertanto teorizzare, come fa la Cherici, che quattro vocali su sette (‘a’, ‘e’ aperta, ‘e’ chiusa, ‘i’) debbano uniformarsi allo stampino prefissato della ‘u’ o della ‘o’ è come teorizzare che un cerchio deve trasformarsi in un poligono.

Riferendosi al fenomeno dell’ articolazione, la Cherici a un certo punto del suo libro parla ‘en passant’ di “micromovimenti”. Il concetto è giusto: si tratta infatti di movimenti naturalmente minimali, ma perché rimangano tali occorre che vengono lasciati avvenire e non fatti meccanicamente. E’ questa naturale minimalità che fa sorgere l’ illusione dell’immobilità. In questa illusione purtroppo cade la Cherici quando, dando credito alla concezione materialistica e pesantemente meccanico-muscolare dell’affondo, prescrive di “rimanere fermi nella stessa posizione” cantando. Ora, se solo si pensa che ogni vocale corrisponde a una diversa configurazione dello spazio di risonanza interno e a una diversa posizione della lingua, ci si potrà rendere conto dell’ assurdità dell’idea di mantenere la stessa posizione passando da una vocale all’ altra. In realtà la sensazione del mantenimento di una stessa posizione è solo un’ illusione che si genera come effetto della naturale essenzialità dei movimenti articolatori, se sono lasciati avvenire e non ‘fatti’. E’ insomma qualcosa che è paragonabile al fenomeno della ruota che gira e sembra immobile.
Al concetto di articolazione naturale come sintonizzatore automatico della voce fa riferimento il motto belcantistico “si canta come si parla”. Tutti i più grandi cantanti di tradizione italiana (da Schipa a Gigli) hanno fatto proprio questo principio.

Il principio belcantistico del mantenimento della normalità dei movimenti articolatori del parlato (che è distrutta ‘ipso facto’ dalla posizione ‘a uovo’ della bocca) non nasce pertanto da un’esigenza banalmente ‘cosmetica’ di ‘apparenza esterna’, ma è il segno e insieme la condizione perché possa crearsi l’armonia del vero canto.
Di Caruso, che alcuni tentano di annettere abusivamente alla tecnica meccanica dell’ affondo, le cronache del tempo riferiscono che la gente nel sentirlo cantare rimaneva ammaliata dal fiume di voce che usciva dalla sua bocca senza alcuno sforzo e dal fatto che quando cantava, dava l’impressione che stesse parlando, mentre il suo pianista Fucito testimonia che cantando non modificava per nulla le vocali (motivo per cui nel suo scritto sul canto Caruso parla di “suoni veri e puri”), tutte caratteristiche queste della tecnica vocale italiana storica ovvero belcantistica.

Il concetto di “posizione unica” ha senso quindi solo in due casi: quando, come abbiamo visto, si fa riferimento all’ ILLUSIONE di immobilità, generata dal servomeccanismo dell’articolazione naturale, e quando si fa riferimento all’ idea di una STESSA ALTEZZA a cui devono essere immaginate tutte le note (siano esse gravi, centrali o acute). Ovviamente si tratta essenzialmente di un’altezza mentale (da intendere come linea di galleggiamento, sotto la quale nessun suono deve scendere) e non di una precisa localizzazione anatomica. La Cherici condivide questa idea ma, influenzata dall’ affondo, pensa che siano le note più alte a dover essere immaginate alla stessa altezza delle note centrali o addirittura SOTTO di esse, mentre invece sono le note centrali a dover essere immaginate alla stessa altezza delle note non dico acute, ma medio-acute. Perché questo? Perché prendendo a modello le note centrali o addirittura gravi si inserisce nella composizione acustica del suono un eccesso di corposità, che poi farà da zavorra alla voce. Di qui il concetto belcantistico di “colare la voce”, che vuol dire appunto filtrare la corposità in eccesso del suono per fare sì che le note acute risuonino liberamente. Al contrario, sulla scia dell’ affondo, la Cherici immagina la voce come un edificio a più piani, per costruire il quale occorre partire dalle fondamenta, ossia dalla ‘stabilità’ delle note gravi. L’ analogia è sbagliata, dato che la voce è assimilabile semmai a qualcosa di liquido (o di aereo) e non di solido. In effetti la logica dell’ affondo funzionerebbe, ma solo se applicata all’ edilizia, non se applicata alla fonazione cantata e neppure alla nautica. Infatti, se applicata alla nautica, essa sfocerebbe in una teoria palesemente assurda e cioè che per far galleggiare una nave, occorre prima affondarla, teoria assurda che per l’ appunto è quella che viene applicata alla voce cantata dai seguaci del metodo, denominato appunto ‘affondo’.

Questa purtroppo è la logica, fatta propria dalla Cherici, quando, sulla scorta delle teorie di Mario Del Monaco, scrive che “l’ affondo è il punto di partenza per trovare poi, in un secondo momento, la ‘maschera’.” Quello che in realtà accade è molto diverso da ciò che immagina la Cherici: l’ affondo zavorra la voce perché scambia l’ ampiezza con la bassezza, dopodiché per compensare lo squilibrio acustico e fisiologico così creato, è costretto a esasperare artificialmente la componente frontale della brillantezza (rectius ipertimbratura), concepita come “maschera”. In altre parole (e qui sta tutta la parabola storica e ‘logica’ dell’affondo), la ‘maschera’ (cavità di risonanza immaginaria), che era stata giustamente buttata fuori dalla porta dall’ affondo, viene fatta rientrare dalla finestra dallo stesso affondo per compensare in qualche modo l’affondamento della voce, causato in precedenza.

Per tutti i motivi sopra esposti l’ apologia (o difesa d’ ufficio) del metodo dell’ affondo, che alla fine del libro la Cherici si sforza di fare, lascia il tempo che trova. Scrive la Cherici in proposito:

“Nonostante il grandissimo successo ottenuto dai primi utilizzatori di questa tecnica, nel corso degli anni essa è stata a più riprese sconsigliata e la sua validità contestata perché ritenuta troppo aggressiva nei confronti dell’ organo vocale. In realtà tali opinioni negative sono state generate da una scorretta applicazione della tecnica da parte di alcuni allievi.”

Sorvolando sul fatto che il “grandissimo successo ottenuto dai primi utilizzatori di questa tecnica” (Del Monaco, Martinucci e Cecchele, ma NON Corelli, che si è tenuto sempre a distanza di sicurezza da Melocchi!) è dovuto non alla tecnica dell’ affondo, ma al fatto che in tutti e tre i casi si trattava di voci naturali eccezionali, già pronte in giovanissima età per il palcoscenico (Del Monaco addirittura all’ età di 14 anni, secondo una sua testimonianza), occorre chiarire in via definitiva che le opinioni negative su questa tecnica derivano NON da una sua scorretta applicazione, ma da un suo VIZIO strutturale, genetico. Esso è il risultato di quattro ‘fatal error’:
1 – l’ idea che lo spazio che dà rotondità al suono vada cercato in basso;

2 – l’ idea che ‘gola aperta’ voglia dire abbassare direttamente la laringe e alzare direttamente il palato molle;

3 – l’ idea che la corposità del suono equivalga a potenza del suono, invece che a zavorra del suono;

4 – l’ idea che dando la massima tensione alle corde vocali, queste si irrobustiscano invece che logorarsi.

Per cercare di salvare il metodo anti-belcantistico, denominato ‘affondo’, la Cherici cita Mario Del Monaco, ma anche in questo caso, per l’ ennesima volta, sembra che la Cherici non legga le citazioni che inserisce nel suo libro. Scrive infatti significativamente Del Monaco nel brano della sua autobiografia, citato dalla Cherici:

“Col metodo dell’ affondo la mia gola non riusciva a sostenere più di mezza romanza e sentivo la voce molto dura e legata.” (sic) “Capii che la continua ricerca di ampiezza e profondità avrebbe a lungo andare pregiudicato l’ integrità del mio organo vocale. Così creai una mia tecnica di compromesso. Mantenni il metodo dei vocalizzi, ma usai per il canto un’ emissione molto più morbida e fluida..”

Il che è come dire: quando canto il repertorio in teatro, NON uso l’ affondo, altrimenti mi distruggo la voce, ma uso un mio metodo, molto più morbido. Al che uno si chiede: ma quando lo usava allora l’ affondo Del Monaco? Risposta: lo usava di tanto in tanto per fare i vocalizzi, ma è chiaro che si trattava di un rituale puramente scaramantico, che Del Monaco aveva incominciato a utilizzare dopo aver rischiato di perdere la voce, andando a studiare con un maestro fanatico della ‘maschera’.

In un video visibile su YouTube, Del Monaco sarà ancora più esplicito, affermando lapidariamente: “Se si vuole cantare e si vuole resistere, tutto quello che ha detto Melocchi bisogna cancellarlo e fare il contrario di quello che ha detto lui”, affermazione che, associata alla radiazione di Melocchi dal Liceo Musicale di Pesaro, decisa da Umberto Giordano in persona per inidoneità a insegnare il canto, vale come definitiva pietra tombale di questa tecnica vocale grottesca e integralmente anti-italiana.

Passiamo ora all’ altro testo, oggetto di questa analisi, il libro-intervista di Franco Viciani al maestro Sergio Catoni dal titolo ‘Il canto lirico nella tradizione italiana’. In questo caso il riferimento alla scuola di canto italiana storica, nota anche come scuola del belcanto, è pienamente legittimo e la conferma ci viene da tutti i principi tecnico-vocali esposti in maniera semplice e chiara nel libro. Per altro questi principi vengono fatti risalire erroneamente da Catoni alla scuola di Manuel Garcia jr., che invece rappresenta, come abbiamo visto, il responsabile principale della deviazione della scuola di canto italiana da quegli stessi principi, così come ho documentato nell’articolo del mese di gennaio di questo sito. Ad accreditare la falsa fliliazione di Garcia jr. dalla scuola del belcanto italiano sono stati in primis lui stesso con una falsa ‘autocertificazione’ e in epoca più recente cantanti come Lauri-Volpi e, incredibilmente, persino storici della vocalità come Rodolfo Celletti.

La prima violazione anti-belcantistica, perpetrata da Garcia, è rappresentata dalla teoria delle vocali geneticamente modificate e dell’oscuramento diretto del suono. Ora uno dei principi cardine del belcanto è stato sempre, al contrario, proprio quello del rispetto della purezza delle vocali. Innumerevoli sono gli aggettivi scelti dai belcantisti di ogni epoca per definire quel nucleo di luce, che è generato naturalmente dalle vocali pure del parlato e che nel canto bisogna mantenere intatto, pur soddisfacendo l’ esigenza di uno spazio più ampio che avvolge questo nucleo luminoso senza per altro spegnerlo né ingrossarlo. Si va dall’ aggettivo “franco” di Tosi, all’ aggettivo “limpido” di Mancini, all’ aggettivo “sorgivo” di Lauri Volpi, passando per gli aggettivi “vero e puro” di Caruso. L’ oscuramento diretto e la modificazione genetica delle vocali determinano invece automaticamente l’ ingrossamento del nucleo del suono e di conseguenza, come affermò anche Corelli, l’ appesantimento dell’emissione. Catoni chiama questa modalità di concepire e realizzare il suono “fare la voce”, dando ovviamente a questa espressione una connotazione negativa. Si tratta infatti di una modalità grossolana, analoga a quella usata dai bambini quando vogliono fare l’ imitazione del cantante lirico. Scrive Catoni in proposito:

“E’ soprattutto a partire dal verismo” (ma in realtà il fenomeno ha avuto inizio molto prima e precisamente intorno al 1840 in Francia) “che si sono andate cercando scorciatoie o ricette quasi miracolose per cantare con voce più stentorea, PRIVILEGIANDO IL VOLUME RISPETTO ALLA FLUIDITA’ DELL’ EMISSIONE e l’ enfasi rispetto alla linea di canto.”

Il “volume” di cui parla criticamente Catoni è per l’appunto l’ ingrossamento artificiale del nucleo del suono, fenomeno patologico che il celebre baritono Antonio Cotogni paragonò a quello che nel corpo è l’ eccesso di grasso. L’ aver assimilato la ‘corposità’ del suono (realizzata in questo modo) alla potenza del suono è il grande abbaglio in cui sono caduti, a partire dal 1840, gli autori dei moderni metodi vocali foniatrici (compreso l’ affondo, difeso dalla Cherici). Il risultato è stato la distruzione di moltissime voci, in primis quella dello stesso Gilbert Duprez, lo pseudo-inventore ottocentesco del Do di petto. Invece la “fluidità”, auspicata da Catoni in contrapposizione al “volume”, è quella componente acustica, nota anche come morbidezza”, che fa da discrimine tra LA tecnica belcantistica e le varie tecniche meccanicistiche, basate sulla compensazione e la risonanza forzata. Essa è percepita anche come leggerezza, qualità aerea e naturale altezza del suono, in assenza della quale il suono sarà o grosso e pesante o ipertimbrato e schiacciato. Volendo ricorrere a delle analogie si può dire che essa rappresenta il lubrificante o il lievito della voce, e proprio alla metafora del lievito sembra far riferimento Mancini quando nel suo trattato parla del suono giusto come risultato di un “perfetto e leggero impasto di voce.”

Uno dei Leitmotiv belcantistici che percorre tutto il libro di Catoni, è quello della semplicità, della naturalezza e della facilità, concepite come vera e propria cartina di tornasole della validità di una data tecnica vocale. Questo perchè “l’ essenza del canto è gioia”. Il tutto in accordo col motto di Lauri-Volpi: “le quattro virtù cardinali del cantante sono semplicità, spontaneità, sincerità e naturalezza”. Scrive Catoni:

“Ogni sensazione di fatica o di disagio che il cantante prova, si trasmette a chi ascolta sotto forma di insoddisfazione, togliendo così ogni piacere all’ ascolto e svuotando di senso l’ esperienza artistica.”

Quello che non hanno capito i fautori delle moderne tecniche vocali, derivate da Garcia, è che le virtù cardinali di Lauri-Volpi, sopra citate, non sono solo delle virtù estetiche, ma sono anche e soprattutto virtù tecnico-vocali. Uno dei modi per deviare da esse è appunto quello moderno di manipolare il suono, scurendolo direttamente o modificando le vocali. In questo modo si crea un circolo vizioso, per cui la la vocale modificata o scurita determina una distorsione acustica, che dovrà essere compensata artificialmente con tensioni muscolari non necessarie. Le compensazioni muscolari sono rappresentate, per quanto riguarda la respirazione, dall’ appoggio eccessivo (l”affondo’), chiamato da Catoni “appoggio supplementare” o “appoggio intenzionale”, e, per quanto riguarda la risonanza, dall’ ipertimbratura (la ‘maschera’). Per quanto riguarda la respirazione, degradata dai metodi moderni a contorsionismo meccanico-muscolare, Catoni scrive:

“La respirazione più corretta è quella più naturale possibile. L’ inspirazione è calma e normale, come natura ci detta, senza rigonfiamenti eccessivi, senza sforzi e movimenti goffi delle spalle, del petto e dell’addome.”

Analogamente anche l’ articolazione (che assieme alla respirazione naturale globale, contribuisce a creare il canto a risonanza libera, alias belcanto) affinché possa agire da sintonizzatore automatico della voce e generare la cosiddetta “linea del canto”, dovrà essere quella essenziale e sciolta del parlato e non quella “scolpita” dell’affondo e di altre tecniche banalmente declamatorie. Non a caso il motto belcantistico è “si canta come si parla” e non “si canta come si declama”. Scrive Catoni:

“È un errore calcare le consonanti: non aiuta né la chiarezza della dizione, né l’appoggio della voce. Anzi è dannoso perché interrompe il suono e spezzetta la frase. Occorre quindi pronunciare le consonanti con grande leggerezza.”

Solo una volta acquisita questa arte di sfiorare/accarezzare la pronuncia, si potrà affrontare un declamato drammatico, perché allora la pronuncia, pur animandosi naturalmente, rimarrà armoniosa e sciolta, continuando a generare la sintonizzazione automatica del suono, e non degenererà in detonazione e latrato, cioè nell’anti-canto. Questo è il motivo per cui la scuola del belcanto italiano si è sempre basata sui vocalizzi, al contrario della moderna scuola di canto foniatrica, basata sui SOVTE e i sui ‘consonantizzi’. La scoperta che naturalmente si canta e si parla sulle vocali e NON sulle consonanti (che vengono semplicemente lasciate avvenire e non ‘fatte’) è anche alla base del fenomeno del legato. A sua volta l’ educazione al legato facilita l’ apprendimento dell’appoggio, che secondo Catoni è l’ altra faccia del legato. In questo modo l’ appoggio viene ricondotto alla sua origine naturale, da cui ha tratto anche il nome, e che corrisponde a una sensazione di CONTATTO morbido con la base respiratoria, contattto che nella zona acuta evolve in una sorta di pressione elastica AUTOGENA, ma non degenera mai nelle contorsioni muscolari e nelle caricature meccanicistiche dell’ affondo. Tutto questo in accordo col principio ergonomico, tipicamente belcantistico, della massima resa con minimo sforzo.

Anche gli altri aspetti della voce cantata vengono affrontati da Catoni nel più rigoroso rispetto dei principi del belcanto, a partire dal tema del passaggio di registro, che nella sua essenza fonetico-acustica è un fenomeno NON di oscuramento/copertura del suono, ma di semplice chiusura fonetica delle vocali aperte. La corretta esecuzione del passaggio al registro acuto è ovviamente in funzione dell’ altro aspetto, fondamentale, affrontato da Catoni: il trattamento del settore acuto della voce cantata. Anche qui Catoni diverge felicemente dalla vulgata meccanico-foniatrica odierna: il cantante non è un facchino e quindi bisogna smontare tutte le teorie foniatriche dell’ appoggio come “lotta vocale” e/o “pressurizzazione del fiato”, che sono i moderni modi per sollevare con la forza delle braccia un’automobile, ignorando l’ esistenza del cric. Nel canto questo cric è la tecnica belcantistica. Essa è la tecnica realmente scientifica del canto perché tratta il corpo rispettando le vere leggi del suo funzionamento, alle quali non si accede con gli intellettualismi della fisio-anatomia foniatrica, ma con quello strumento di conoscenza e di aderenza alla realtà, che sono le SENSAZIONI primarie. Tutto questo in obbedienza agli inviti di Mancini a “scoprire e assecondare gli impulsi naturali” e a “conoscere dove la natura ci porta.”

Anche il metodo di sviluppo della voce di Catoni è in linea con i principi operativi, elaborati da Mancini: gradualità e delicatezza. Il maestro di canto infatti non è un demiurgo, ma è un semplice coltivatore, che si ispira al principio medico “primum non nocere”. Questo è vero soprattutto per quanto riguarda il modo di affrontare il registro acuto della voce, che deve basarsi sul rispetto di quella rigorosa ‘consequenzialità fluida’, in cui consiste il canto. Il che significa che una nota acuta è sempre l’esito naturale di una concatenzione causale che è data in primis dalla nota precedente e, risalendo a ritroso, arriva fino alla prima nota, quella dell’ attacco del suono. Ora se il cantante non interviene con attivazioni muscolari volontarie e con improvvise ‘impennate’ (chiamate dal castrato Tosi “villane spinte di voce” e dal belcantista Mengozzi “scosse”), accade che agisca naturalmente quella legge fisica universale, che è la forza d’ inerzia. Grazie a questa legge ogni nuova nota nasce sul movimento della nota precedente e quindi il cantante non fa assolutamente fatica. Si crea in questo modo il fenomeno del ‘canto sul fiato’ e a risonanza libera, che è una caratteristica distintiva del belcanto.

Nell’ ascendere alla zona acuta è di fondamentale importanza saper filtrare la corposità del suono, corposità che dai metodi meccanicistici è scambiata per potenza, mentre invece è solo zavorra, come già scoprì Lauri-Volpi quando coniò la felice formula del canto “suono leggero e potente” (e non suono ‘pesante e potente’). A questo processo di decantazione degli elementi pesanti del suono fa riferimento Mancini quando nel suo trattatto scrive che salendo alla zona acuta bisogna “colare la voce.” Analogamente Catoni parla della necessaria “elevazione” che deve avere il suono, termine che si spiega col fatto che l’ introduzione della giusta dose di morbidezza viene percepita dal cantante come leggerezza aerea e naturale galleggiamento in alto del suono. A questo punto la semplice evocazione mentale delle SENSAZIONI di dolcezza, morbidezza e leggerezza è in grado di creare (e questo è il miracolo di quello strumento musicale naturale che è la voce cantata) quella coordinazione muscolare che determina il giusto equilibrio acustico del suono e che dalla pseudo-scienza della foniatria è erroneamente scambiata per prima causa invece che, come in realtà è, SECONDA CAUSA del canto.

Abbiamo visto come, secondo il belcanto e quindi anche secondo Catoni, si possa affermare che se è vero che l’ acuto è il fiore che sboccia, la sua radice prima risiede nella nota iniziale della frase, cioè nell’ attacco del suono. Nello sviluppare il discorso, poi però Catoni devia dalla scuola del belcanto e si lascia influenzare parzialmente dalle teorie foniatriche. Infatti prima afferma giustamente che il primo suono va concepito e realizzato in modo semplice, ‘pulito’ e ‘sul fiato’ e poi però prosegue dicendo che questo avvio del suono si realizza col ‘colpo di glottide’, che è una delle bestemmie più antibelcantistiche elaborate dalla mente del parafoniatra Manuel Garcia jr. Per di più il termine ‘colpo di glottide’, già infelice di per sé, viene utilizzato da Catoni non solo come sinonimo di ‘attacco pulito’ (il “suono pronto” dei belcantisti), ma viene riproposto anche nelle sue implicazioni più specificamente tecnico-vocali, che Catoni spiega così:

“Quando le corde vocali si chiudono per attaccare una nota, il fiato e il suono devono uscire simultaneamente. L’ attacco non deve essere preceduto dall’ emissione di aria. La simultaneità tra emissione del fiato e produzione del suono, l’ istantaneità di questi due fenomeni, corrisponde al colpo di glottide. (….) Ciò che il colpo di glottide deve aiutare a produrre, è un attacco sulla vocale netto e preciso e non una vocale e un attacco stascicati, come accadrebbe se si facesse precedere il fiato al suono.”

Questa concezione dell’ attacco del suono, che per ironia della sorte è la stessa condivisa da Laura Cherici nel suo libro, risulta chiaramente viziata dal marchio meccaninistico della foniatria, essendo basata sulle astrazioni scientifiche invece che sulla completa aderenza alla realtà sensibile, cioè sulla natura. In effetti la dicotomia, stabilita da queste teorie, tra la nitidezza dell’ attacco e l’ emissione del fiato è fittizia, esistendo (forse) solo nei libri di fisio-anatomia. La realtà, nel suo aspetto di natura (la musa ispiratrice del belcanto), non scinde mai, ma fonde tra loro gli opposti, motivo per cui la tranquilla continuità dell’ emissione del fiato e l’ istantaneità dell’ accensione della scintilla iniziale del suono COESISTONO, senza che il cantante debba optare per l’ una o per l’ altra. Questo è ciò che facciamo in tutti gli atti che coinvolgono la fonazione, ad esempio parlando, ridendo ecc. In tutti questi atti naturali l’ avvio iniziale del suono avviene appunto ‘sul fiato’, senza nessuna improvvisa interruzione del suo flusso per farlo coincidere con l’avvio del suono, procedura che, se applicata al parlato, sfocerebbe in effetti grotteschi o burattineschi. In altre parole qualunque frase parlata (e cantata) incomincia ‘appoggiandosi’ su un flusso di fiato, che ha avuto inizio prima del suono, altrimenti come farebbe il suono a iniziare ‘sul fiato’, se ‘sotto’ il suono ancora non c’ è il fiato, perché l’ abbiamo bloccato con una piccola ‘apnea’ per assicurarci che il suono sia nitido e non arioso? La fobia dei suoni ‘ariosi’ è di per sé assurda, se solo si pensa che il SUONO E’ FATTO DI ARIA, per cui avere paura che il suono nasca ‘sporco d’ aria’ cantando è come avere paura di bagnarsi lavandosi o tuffandsi nel mare.

La verità (rimasta per sempre ignota al meccanicista Garcia, inventore del famigerato ‘colpo di glottide) è che tutte le volte che il suono nasce ‘arioso’ invece che ‘aereo’, la causa non è data dal fatto di aver lasciato che il fiato naturalmente fluisca (senza fermarlo per attaccare il suono), ma è data dal fatto di non aver lasciato che il suono nasca per AUTO-AVVIO, auto-avvio che per sua natura è immediato e istantaneo. Si rivela così il vero significato e il vero scopo dell’ esercizio degli staccati nella scuola del belcanto, e questo scopo non è certo quello di dare surreali lezioni di adduzione alle corde vocali (secondo la grottesca e presuntuosa utopia del colpo di glottide di Garcia), ma, al contario, è quello di sfruttare un servomeccanismo naturale perfetto, già esistente nel parlato, e ‘trapiantarlo’ nel canto, così com’ è. Senza cervellotici ‘colpi di glottide’ e relative ‘apnee prefonatorie’, che sono tutte forme di anti-natura e, per ciò stesso, di anti-canto. Esiste il marchio di Caino ed esistono i marchi di Garcia. Uno di questi è il ‘colpo di glottide’. Esso ha segnato più o meno gravemente tutta la didattica vocale moderna, riuscendo a influenzare, per fortuna solo marginalmente, anche un maestro come Catoni, che per tutto il resto si può considerare un autentico rappresentante e continuatore della scuola italiana del belcanto.

Antonio Juvarra


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