
Ricevo e pubblico il consueto post mensile di Antonio Juvarra, questa volta dedicato ai concetti di ‘vocale aperta’ e ‘vocale chiusa’ nel canto. Ringrazio come sempre Antonio per la collaborazione e auguro a tutti una buona lettura.
CANTARE ‘APERTO’, CANTARE ‘COPERTO’ E LA PANZANA ACUSTICA DELLA ‘VOCE OSCURATA’
C’ era una volta (prima che qualcuno, verso la prima metà dell’ Ottocento, si mettesse a vivisezionare ‘scientificamente’ la voce) il suono cantato, concepito come qualcosa di armoniosamente integro. L’ idea era che esso nascesse da un seme, il parlato, che, come tutti i semi, per natura è piccolo e semplice e poi grazie al respiro trova spazio e cresce, diventando suono cantato. Ma ecco che qualcuno incominciò a pensare che quel seme andasse preventivamente sezionato e scisso in base agli schemi analitici della razionalità scientifica. Da quella prima scissione (che, come le scissioni nucleari, non può non generare ‘fall out’ radioattivi) derivarono tutte le successive scissioni: il suono ‘avanti’ e il suono ‘indietro’, il suono ‘chiaro’ e il suono ‘scuro’. L’ idea (artificiale) di un suono ‘da portare ‘avanti’ (o ‘in maschera’) fu la causa prima dello squilibrio acustico che ancora oggi affligge lo studio del canto, squilibrio non sanato, ma compensato dai successivi espedienti inventati, il più deleterio e diffuso dei quali fu l’ espediente francese di scurire (ovvero modificare geneticamente) le vocali come mezzo per arrotondare il suono, appiattito e schiacciato dal proposito pseudo-tecnico di ‘portare il suono avanti’. Cantare ‘aperto’ e cantare ‘coperto’ sono altre due espressioni del gergo tecnico-vocale che derivano direttamente da questa scissione originaria e che contribuiscono ad aumentare notevolmente la dose di anti-cartesiane ‘idee oscure e confuse’, che forma la sostanza della didattica vocale attuale. Vediamo quali sono i veri significati di queste due espressioni e da dove traggono origine.
APERTO: per i fautori di questo termine il significato (positivo) è quello di suono chiaro, limpido, non manipolato o adulterato. Per i detrattori il significato (negativo) è quello di suono piatto, sguaiato, dilettantesco.
COPERTO: per i fautori di questo termine il significato (positivo) è quello di suono rotondo, brunito, ‘passato’ (di registro). Per i detrattori il significato (negativo) è quello di suono scurito artificialmente, intubato, distorto.
Per uscire da questa impasse conoscitiva e capire perché si siano combinati insieme un significato positivo e un significato negativo, occorre partire da alcune premesse:
1 – LO SPAZIO DI RISONANZA DEL CANTO È UNO SPAZIO BICAMERALE, frutto della fusione dello spazio di risonanza della bocca e di quello della gola, motivo per cui un suono prodotto unicamente o prevalentemente con lo spazio di risonanza della bocca sarà brillante ma schiacciato (ovvero ‘aperto’ in senso negativo), mentre un suono prodotto unicamente o prevalentemente con lo spazio di risonanza della gola, sarà rotondo ma opaco (ovvero ‘coperto’ in senso negativo);
2 – Nelle vocali foneticamente aperte l’ apertura della bocca prevale rispetto all’ apertura della gola; viceversa, nella vocali foneticamente chiuse l’ apertura della gola prevale rispetto all’ apertura della bocca;
3 – Il passaggio dal registro centrale al registro acuto delle voci maschili consiste, da un punto di vista acustico, nella CHIUSURA FONETICA DELLA VOCALE, per cui la vocale ‘è’ diventa ‘é’ e la vocale ‘ò’ diventa ‘o’;
4 – Poiché la vocale ‘a’, contrariamente alle vocali ‘e’ ed ‘o’, nel parlato esiste solo in versione foneticamente aperta, si può dir che è solo grazie al canto che, superata una certa altezza, essa può acquisire la forma di vocale foneticamente chiusa, che è la condizione perché si attui il passaggio di registro e si canti nella zona acuta senza gridare;
5 – La CHIUSURA FONETICA delle vocali aperte in corrispondenza del passaggio al registro acuto non c’ entra nulla con l’ OSCURAMENTO diretto delle vocali;
6 – Infatti il leggero oscuramento del suono che si nota a partire dalla nota di passaggio al registro acuto È E DEVE RIMANERE UN EFFETTO COLLATERALE NON VOLUTO del passaggio di registro;
7 – Ne consegue che la prescrizione di oscurare direttamente le vocali salendo alla zona acuta della voce, determina la distorsione del suono e si può definire LA GRANDE CANTONATA PRESA DAI FONIATRI FRANCESI DELL’ OTTOCENTO E DA LORO TRASMESSA A TUTTA LA DIDATTICA VOCALE SUCCESSIVA, compresa quella attuale.
In Garcia la confusione del concetto di vocale ‘passata di registro’ (e quindi chiusa foneticamente) con il concetto di vocale oscurata arrivò a un punto tale da indurlo a teorizzare una vera e propria assurdità acustica e cioè quella secondo cui la vocale ‘é’ (che, pur essendo una vocale chiusa, è una vocale anteriore) sarebbe una vocale di ‘timbro scuro’, mentre la vocale ‘ò’ (che, pur essendo una vocale aperta, è una vocale posteriore) sarebbe una vocale di ‘timbro chiaro’. È interessante notare come i termini originali timbre clair (timbro chiaro) e timbre sombre (timbro scuro), che troviamo nel trattato di Garcia, siano diventati poi nella traduzione italiana, rispettivamente, timbro aperto e timbro chiuso, il che, se per un verso getta luce sul fenomeno acustico del passaggio di registro alla zona acuta come chiusura fonetica della vocale, per un altro verso ha contribuito a fissare la falsa equazione ‘oscuramento=passaggio di registro’.
Ben presto, come sinonimo di ‘suono chiuso’ (ovviamente nel senso di “vocale chiusa in gola aperta” di De Luca), si affermò il termine di ‘suono coperto’, termine che presentava numerosi vantaggi rispetto al termine ‘suono chiuso’: innanzitutto non evocava una ‘chiusura’ della gola (cioè il contrario del suo significato), in secondo luogo con la sua rima si presentava come perfetto correlativo di ‘aperto’, e in terzo luogo evocava un senso di naturale altezza (essendo ogni ‘coperchio’ più alto della pentola), senso di altezza suscitato (tra l’ altro) dall’ apertura del piano più alto della gola, rappresentato appunto dallo spazio rinofaringeo (il che per altro non ha nulla a che fare con i foniatricismi dell’ alzare il palato molle o del mandare il suono in ‘maschera’). Per questi motivi già ai tempi di Garcia il termine ‘voce coperta’ era comunemente usata come sinonimo di ‘voix sombrée’.
Per approfondire ulteriormente il discorso riguardante lo spazio di risonanza della voce cantata, occorre partire da un fatto: poiché il parlato fa uso essenzialmente della cavità della bocca (da cui il termine ‘or-azione’, ovvero, etimologicamente dire ‘con la bocca’), la nostra coscienza di parlanti ha fatto riferimento al grado di apertura della bocca per definire ciò che viene percepito come aperto e come chiuso. Questo dato di fatto è però anche quello che ci porta erroneamente a cercare nella cavità della bocca (invece che in quella della gola) lo spazio che dà la rotondità al suono cantato, e questo cercare lo spazio nel posto sbagliato (la bocca) porta automaticamente a ingrandire-distruggere la naturale ‘piccolezza’ dei movimenti articolatori parlati, che è quella che consente loro di agire da sintonizzatore automatico della voce cantata (da cui il famoso detto di Schipa “parole piccole mai grandi”), movimenti minimali che per altro, ricordiamo, non hanno nulla a che fare con i rimpicciolimenti artificiali della pseudo-tecnica e neppure con i ‘parlati intonati’.
Se pensiamo che, come abbiamo visto, ciò che distingue il canto dal parlato è (anche) il fatto di utilizzare come spazio di risonanza non solo la cavità della bocca, ma anche quella della gola (da cui il termine ‘gorgheggio’, ossia, nell’ italiano moderno, ‘goleggio’), ne deriva logicamente che il vero spazio di risonanza globale, integrale del canto sarà quello ‘bicamerale’ bocca/gola, il solo, tra l’ altro, in grado di rispettare, in rapporto alle diverse altezze tonali e alle diverse dinamiche, la diversa apertura della bocca e della gola che caratterizza ogni vocale (le cavità della ‘maschera’ non essendo, com’è noto, una cavità di amplificazione, ma di assorbimento del suono), per cui l’ utilizzo esclusivo o prevalente di una sola cavità (la bocca o la gola) dovrà essere considerato segno di incompletezza e inefficienza vocale così come accadrebbe se un motore funzionasse a tre pistoni invece che a quattro. Di qui l’ accezione negativa che col tempo hanno assunto i termini ‘voce aperta’ e ‘voce coperta’, ossia dopo che questa ‘apertura’ e questa ‘copertura’ hanno incominciato ad essere realizzate aprendo abnormemente la bocca (suono aperto) o la gola (suono coperto), in entrambi i casi distruggendo la naturale interrelazione dinamica esistente tra queste due cavità, per privilegiarne una sola. Ne consegue che tutti quegli insegnanti che esaltano la presunta superiorità di una vocale come la ‘I’ o come la ‘U’, motivandola col fatto che nel produrre queste vocali la gola è più aperta (vedasi Kraus per la vocale ‘I’ e la Kabaivanska per la vocale ‘U’), ignorano che questa maggiore apertura della gola è compensata da una maggior chiusura della bocca nel produrre queste vocali (per ciò stesso definite “chiuse”), per cui dire che la I (o la U) è superiore alle altre vocali perché la gola è più aperta è come dire che la somma di 4 (gola) + 2 (bocca) è superiore alla somma di 2 (gola) + 4 (bocca), la prima somma rappresentando lo spazio globale della vocale ‘chiusa’ e la seconda rappresentando lo spazio globale della vocale ‘aperta’.
Tenendo conto delle premesse suesposte, è chiaro a questo punto che quello che i belcantisti chiamavano “chiaroscuro” NON era il frutto di nessuna intenzione di schiarire e scurire direttamente il suono, ma era il risultato naturale della giusta relazione dinamica tra la cavità della bocca (che dà brillantezza al suono) e la cavità della gola (che gli conferisce rotondità e brunitura). Che i cantanti italiani della prima metà dell’ Ottocento non pensassero affatto a scurire le vocali per renderle più rotonde (come invece prescrive la ricetta foniatrica, introdotta nel canto dai francesi) è provato dalla testimonianza di Gilbert Duprez, il noto tenore ottocentesco, cui fino a poco tempo fa veniva erroneamente attribuita la scoperta del cosiddetto ‘do di petto’. Nel suo trattato ‘L’ art du chant’ del 1845 Duprez scrive: “Si vocalizza sulla vocale ‘A’. Non pronunciare questa ‘A’ come nella parola (francese) “ami”, ma come nella parola (francese) “ame”, aprendo tutta la gola. Questo è quello che IN FRANCIA viene chiamato MOLTO IMPROPRIAMENTE “scurire i suoni.” Gli italiani usano solo questa modalità di emissione, ma NON CONOSCONO L’ ESPRESSIONE ‘scurire i suoni’”.
Questa affermazione di Duprez è sufficiente da sola a smontare tutta la mistificazione (iniziata con Garcia e poi riproposta per quasi due secoli da fior di cantanti del Novecento) dell’ oscuramento della voce (e in particolare della vocale ‘A’) come mezzo necessario per arrotondare la voce. Con questa frase infatti Duprez TESTIMONIA che i cantanti italiani del tempo cantavano sì ‘a gola aperta’ (cioè usando la risonanza totale della voce), ma ignoravano del tutto il concetto di “scurire i suoni”. In questo modo Duprez involontariamente dimostra anche che l’ utilizzo di vocali scure come la ‘A’ della parola francese ‘ame’ NON è affatto la causa dell’ apertura della gola (come lui, assieme a Garcia e ai foniatri francesi dell’epoca teorizzava) e questo per il semplice fatto che in italiano non esiste la ‘A’ scura della parola “ame”, ma esiste solo la ‘A’ chiara della parola francese “ami”, che secondo Duprez non si dovrebbe usare nel canto. Ne consegue che i cantanti italiani dell’ Ottocento (dai quali Duprez aveva appreso il suo presunto “nuovo modo di cantare”) non facevano affatto uso dell’ espediente anti-acustico (inventato dai francesi) di oscurare e modificare le vocali per arrotondare il suono. Esiste anche una prova documentale, che suona come una pernacchia involontaria alla teoria francese dell’ oscuramento della ‘A’ come mezzo per arrotondarla. Nel suo metodo di canto il grande maestro di canto Francesco Lamperti (di cui in Francia si diceva che gli studenti andavano in pellegrinaggio da lui a Milano come i musulmani vanno alla Mecca) scriverà che la ‘A’ deve essere formata nel fondo della gola, stando attenti che non si trasformi in ‘O’, e precisando che deve trattarsi della vocale ‘A’ della parola ‘anima’ (precisazione superflua, dato che in italiano esiste un solo tipo di A, e anche involontariamente ironica, dato che ‘anima’ in francese si dice ‘ame’, cioè proprio la parola scelta da Duprez come esempio di ‘A’ scura) In sintesi, quella di Lamperti rappresenta la teoria diametralmente opposta a quella francese dell’ oscuramento intenzionale del suono.
Purtroppo, poiché la legge della compensazione universale vuole che alle doti vocali dei grandi cantanti raramente si accompagnino analoghe doti intellettuali e culturali, quello che successe a partire dalla seconda metà dell’Ottocento fu uno strano fenomeno: molti grandi cantanti incominciarono a ripetere a pappagallo la ricetta foniatrica dell’ oscuramento diretto del suono e della modificazione genetica delle vocali (da alcuni chiamata oggi eufemisticamente “adattamento delle vocali”), pur cantando in tutt’altro modo. Tra i grandi cantanti del Novecento che hanno riproposto (a parole!) la teoria dell’ oscuramento diretto del suono come mezzo per arrotondarlo, bisogna distinguere due categorie:
1 – la categoria dei cantanti per i quali l’ oscuramento delle vocali, da molti chiamato “copertura”, è un mezzo per arrotondare il suono in TUTTA l’estensione della voce;
2 – la categoria dei cantanti per i quali la ‘copertura’ delle vocali riguarda solo la zona di passaggio al registro acuto.
Appartengono alla prima categoria cantanti come Mathilde Marchesi, Aureliano Pertile, Pasquale Amato, Amelita Galli-Curci, Piero Menescaldi, Giuseppe Danise, Fedora Barbieri, Giacome Lauri Volpi, Mirella Freni, Georges Thill, Fiorenza Cossotto. Appartengono alla seconda categoria cantanti come: Luciano Pavarotti, Mattia Battistini, Riccardo Stracciari, Nicolai Gedda, Franco Corelli, Sesto Bruscantini.
Può stupire il fatto di trovare nella prima categoria tenori di alto livello, come Pertile e Lauri Volpi, che furono modelli di purezza del suono, ma purtroppo è frequente che nei cantanti si crei una divaricazione tra le caratteristiche naturali della loro voce e l’ interpretazione razionale (influenzata dagli insegnamenti avuti) da loro datane, il che dà luogo a un paradossale ‘predicare male e razzolare bene’. Questa divaricazione diventa schizofrenia quando un Pertile arriva a scrivere:
“Le vocali a, e, i, o, u, non si devono usare nel canto col medesimo colore della lingua parlata. Il linguaggio dà: à, è, ì, ò, ù. Il colore, che dà la giusta impostazione, viene dato da tutto quanto ho prima descritto, più il colorito seguente alle vocali. L ‘à deve essere pronunciato ao; l’ ò come ò, l’ i come un i francese, l’ e come eu, l’ u come uo. (….) In tal modo il colore delle cinque vocali, che nella lingua parlata è così diseguale, viene nel canto assai avvicinato.”
Totalmente sballata e antibelcantistica è la teoria, fatta propria qui da Pertile, secondo cui le vocali del parlato andrebbero oscurate-modificate, perché per natura “disuguali”, e che a ‘uguagliarle’ sarebbe il canto (che è come pensare che il pane si faccia col pane e non con la farina). È evidente infatti che l’ effetto di ‘uguaglianza’ è dato, per un verso, dalla capacità del cantante di creare uno spazio ampio e morbido attorno al nucleo del suono, generato dalle vocali parlate, e, per un altro verso, dal conservare il movimento sciolto ed essenziale dell’ articolazione parlata anche col tempo ‘dilatato’ che caratterizza il canto rispetto al parlato. A smentire la teoria di Pertile delle vocali cantate come geneticamente diverse dalla vocali parlate (teoria che nasce dall’ interpretazione errata, da lui data, sulla scorta di Garcia, del fenomeno della ‘voluminosità’ delle vocali nel canto) ci sono (per fortuna) le sue stesse registrazioni. Ad esempio questa:
Questa aria, eseguita magistralmente da Pertile, è particolarmente istruttiva da questo punto di vista proprio perché abbonda di ‘A’ a tutte le altezze. Ebbene, tutte queste ‘A’ sono delle ‘A’ perfettamente pure. Persino in quella zona che PRECEDE il passaggio di registro e per la quale molti, Celletti in primis, prescrivono di “oscurare il suono” (dimostrando così di ignorare la differenza tra ‘oscurare’ e ‘ammorbidire’ l’ emissione), Pertile canta delle ‘A’ impeccabili, cioè pure. Solo a partire dal Sol acuto, come effetto-causa del passaggio di registro, la vocale ‘A’ viene non oscurata, ma CHIUSA FONETICAMENTE. Si può dire insomma che con questa e altre registrazioni il Pertile cantante sconfessa (felicemente e definitivamente) il Pertile teorico del canto in versione foniatrica, cioè alla Garcia.
L’ incomprensione della vera natura delle vocali parlate la ritroviamo anche in Lauri Volpi, quando scrive:
“Comunemente la vocale parlata, mancando di risonanze, risulta piatta e secca. Si prenda, poniamo, la vocale A pronunciata naturalmente, immune da intenzioni tecniche. Questa vocale risuona aperta, talvolta sfacciata, con un colore di bocca. Non importa. Questo suono, a patto che non sia gutturale o nasale, potrà sempre raddrizzarsi dal piano orizzontale di natura. Per ottenere l’ A estetica, tecnica, artistica, sarà sufficiente illuminare la mente con l’ idea della “verticalità” del suono. L’ A naturale diventerà un’ A sonora, musicale, rotonda con il solo dirigere la colonna d’ aria vibrante contro le cavità cervicali, anziché abbassare, flettere i raggi sonori sul “piano radente” della cavità orale.»
[G. Lauri-Volpi – “Misteri della voce umana” – Dall’ Oglio, 1957]
Con questa affermazione anche Lauri Volpi dimostra di non essere riuscito a individuare (ovviamente non come cantante, ma come teorico del canto) il rapporto genetico esistente tra vocali parlate e vocali cantate, il che è come farsi ingannare dall’ assoluta diversità di forma e dimensioni di un seme rispetto a una pianta, e sulla base di ciò negare l’ esistenza di qualsiasi rapporto tra il seme e la pianta. È incredibile poi come Lauri Volpi, che pure aveva avuto la felice intuizione del suono cantato come “suono sferico”, qui invece individui nella verticalità la differenza tra il suono parlato e il suono cantato, ignorando che la verticalità sfocia direttamente nell’ intubamento del suono. Si tratta dello stesso errore fatto dai fautori dell’ oscuramento del suono e della modificazione delle vocali pure in vocali miste, tutte modalità che sono causa di verticalizzazione-intubamento. Anche in questo caso il Lauri Volpi teorico del canto trova la sua puntuale smentita nel Lauri Volpi cantante, come dimostra inequivocabilmente questa sua registrazione:
Affermare, come sostiene Lauri Volpi, che le ‘A’ di questa aria, per diventare “estetiche, tecniche, artistiche” sono state “raddrizzate dal piano orizzontale di natura” e “verticalizzate” è assolutamente ‘fantasioso’. Ancora più fantasiosa (e ricavata direttamente dalla fantascienza foniatrica di fine Ottocento) è l’ altra idea del Lauri Volpi teorico del canto, quella secondo cui “la ‘A’ naturale diventerà una ‘A’ sonora, musicale, rotonda, se si dirige la colonna d’ aria vibrante contro le cavità cervicali” e a questo punto si chiarisce definitivamente il motivo per cui Corelli, dopo dieci anni di devoti “pellegrinaggi vocali” da Lauri Volpi in Spagna, improvvisamente li abbia interrotti, affermando che “se si pensa di mandare il suono in maschera, la gola si chiude”. Lo sbaglio di Lauri Volpi (e, con lui, di molti altri cantanti e insegnanti) consiste nel pensare che nel canto a determinare la “piattezza” e lo schiacciamento della ‘A’ sia la sua naturale orizzontalità (da cui l’ idea di verticalizzarla). In realtà, a determinare questo effetto di ‘apertura’ in senso negativo non è l’orizzontalità (che invece è la modalità con cui si manifesta, correttamente, la brillantezza naturale del suono), ma è il fatto di usare solo la bocca come cavità di risonanza, invece che la bocca E la gola. Ad aver compreso per primi (e, purtroppo, anche per ultimi) questi concetti, sono stati i belcantisti e basta citare in propositi queste due affermazioni illuminanti di Giambattista Mancini, tratte dal suo capolavoro ‘Riflessioni pratiche sul canto figurato’ (1774):
1 – “Il maestro deve osservare diligentemente in quale larghezza di bocca la voce riesca più chiara, più purgata e più estesa e quindi rilevare quale e quanta debba essere l’ apertura della bocca.”
2 – “Non utilizzando il cantore il moto delle fauci, ma solo il moto della bocca ed a quel segno e in quella guisa ch’ egli usa fare quando ride, ne viene per conseguenza ch’ egli allora eseguisce al naturale il belar d’ una capra e il nitrir d’ un cavallo.”
A dimostrazione di come le teorie foniatriche dell’ oscuramento del suono abbiano determinato una vera e propria deformazione uditiva, nel senso di prendere per reali cose inesistenti (in questo caso la fantomatica ‘copertura-oscuramento’), citiamo un passo della recensione di un concerto del tenore De Lucia, dove il critico scrive
“Da artista intelligente qual è, Fernando De Lucia ha provveduto a coprire i suoni, mettendo in essi una gran quantità di vocale ‘O’” (‘The Sun’, dicembre 1893)
Proviamo ora a verificare, sentendo una sua registrazione, la presunta presenza di quella “gran quantità di vocale ‘O’” con cui De Lucia, secondo il critico, avrebbe “coperto” le altre vocali. In questo caso ci aspetteremmo di sentire qualcosa come “Oh sì, boen mio con l’oessoeroe”… Quello che invece (fortunatamente!) sentiamo, è questo:
Si entra poi nel comico involontario quando cantanti come Pasquale Amato arrivano a elaborare espedienti per insegnare agli americani la mitica A italiana, ignorando ancora una volta che, a differenza dell’ inglese e del francese, l’ italiano prevede un solo tipo di ‘A’ (che, contrariamente all’ idea di Amato, è quello della parola ‘father’ e non della parola ‘Boston’) e che l’ ILLUSIONE, data all’ esterno, della sua modificazione-arrotondamento-oscuramento non è creata concependo mentalmente una diversa vocale, ma continuando a concepire la vocale ‘A’ pura e lasciando che la dilatazione progressiva dello spazio di risonanza (la ‘gola aperta’) impedisca alla vocale di diventare ‘schiacciata’ o ‘sguaiata’. Scrive Pasquale Amato:
«La vocale usata nel mio caso in Italia e in centinaia di altri casi che ho notato è una vocale leggermente più ampia, che può essere trovata a metà strada tra la vocale “ah” di “father” e la “aw” della parola “law” (legge). Non è un suono sordo, ma non è il suono di “ah” in “father”. Forse la parola “doff” o la prima sillaba di Boston, se correttamente pronunciata, dà la giusta impressione.»
[Pasquale Amato, “Vocal Study in Sunny Italy” – The Etude, Jan 1918]
Si passa dalla fonetica immaginaria alla logica e all’acustica ‘oniriche’ leggendo ciò che il tenore Menescaldi teorizzava sull’ argomento:
“Cantando gli spartiti, arrotondare su queste note la vocale “A” nella stessa maniera, e dare a tutte le vocali una sonorità più rotonda, “più scura” come si dice in italiano. In questo modo le note di passaggio”passano da sole”.
«Cantare sempre con una “voce rotonda e sonora” senza “mai” cercare un’ emissione “sul sorriso” che produce una voce chiara, aperta, con dei suoni piatti, sbiancati e tutti indietro. Perché per essere ben in avanti e ben in maschera (per usare questi due termini familiari) la voce dev’ essere molto rotonda “e sostenuta col massimo della forza”, la qual cosa produrrà “il massimo della proiezione in testa, grazie al fiato”.»
[“La méthode de chant du ténor Piero MENESCALDI de la Scala de Milan” – articolo di Achille Gambetta apparso sulla rivista LYRICA, il numero di aprile-maggio-giugno-luglio, del 1936]
Qui ‘apprendiamo’ due rilevanti amenità acustiche: che oscurando le vocali, poi queste “passerebbero da sole” al registro acuto (??) e che il rischio dei suoni “indietro” non sarebbe dato dall’oscurare il suono e dal mescolare vocali come la ‘E’, la ‘A’ e la ‘I’ con vocali POSTERIORI (come la fonetica insegna), ma dal contrario, cioè dall’ esagerare le risonanze orali, cioè “avanti”, suscitate dal sorriso. Stessa logica ‘capovolta’, che paradossalmente individua nelle vocali posteriori la fonte del suono ‘avanti’, troviamo anche in Mirella Freni, che afferma:
«(…) io la A, io per natura la porto ad aprire, anche parlando, e mi va indietro e so che se io canto (accenna cantando) “A” mi va via… devo cercare di metterla più avanti, mischiata magari con un po’ di O, che viene fuori la A giusta lo stesso e questo si deve anche studiare; si deve cercare di mischiare anche le vocali (…)»
[“Scuola di canto”, presentata da Mirella Freni e Luciano Pavarotti – Modena, 1976]
Tutto questo è niente in confronto con le elucubrazioni tecnico-vocali del baritono Giuseppe Danise, che in una famosa lezione data a Giuseppe Valdengo, riesce a essere più criptico di un oracolo etrusco, dettando la seguente formula (comico-demenziale): “Voce chiara nella strozza [gola] e appoggio scuro nella bocca”. “Si deve dire ‘LO’ invece di ‘LA’. La vocale deve essere scura, non la posizione!” (???). Con Fedora Barbieri passiamo dalla fanta-fonetica alla ‘fanta-fisiologia’, la quale stabilisce che, per passare da una vocale all’altra, la lingua debba rimanere immobile e si muovano solo le labbra (provare per… ridere):
«Un buon esercizio è quello di cantare i cinque suoni vocalici–A, E, I, O, U–su un solo fiato, tenendo la gola esattamente nella medesima posizione, e modificando solamente la posizione della bocca, tanto quanto è necessario, con le labbra, per distinguere con chiarezza le vocali. Questo tipo di canto proietta il suono in maschera, e questa è l’ unica collocazione corretta per una buona risonanza.»
[“Is there an ‘Italian’ Method?” – The Etude, Oct 1954]
Lo stesso guazzabuglio, cambiato di segno (cioè imponendo l’ immobilità non più alla lingua, ma alle labbra) viene proposto da Fiorenza Cossotto (ovviamente, anche in questo caso, non la Cossotto cantante, ma la Cossotto ‘teorica’), la quale, ignorando che lo schiacciamento di vocali naturalmente orizzontali come la ‘A’ e la ‘E’ non è causato dalla loro orizzontalità, ma dal fatto di portarle troppo avanti (magari per assicurarsi che il suono sia ‘in maschera’), afferma:
“Ho constatato che le vocali troppo aperte [dilatate] non funzionano. La A dovrebbe tendere verso AO, la O verso U. Mai cantare AA [diede un esempio, cantando una A bianca con la bocca aperta orizzontalmente]. Perlomeno, io parlo per me stessa, la O verso U, la I verso E, perché la I è di già chiusa. (…) Per anni il mio maestro mi fece cantare A, E, I, O, U sulla stessa nota senza cambiare posizione.” “Cerco di usare le labbra in un modo naturale. Non si dovrebbe rendere diversa la U dalla O. Oppure, nel passare dalla O alla I,non puoi fare…» [Ella passò da una posizione rotonda delle labbra sulla O ad una posizione allargata della bocca sulla I.] Piuttosto, si dovrebbe fare O…I.» Ella mantenne le labbra relativamente rotonde ed invariate.(…) «…è qui che si ha bisogno di un maestro,» ella disse, «per controllare il colore della vocale. Quando passo dalla A alla U, non posso produrre una AA bianca. Devo fare un’AO che assomigli a una U, e una U che assomigli ad un’AO. Cerco di cambiare le vocali il meno possibile.»
[Intervista a Fiorenza Cossotto, in: J. Hines – “Great Singers on Great Singing”
Approdiamo finalmente a qualcosa di sensato con questa affermazione di Bergonzi:
“Nella tecnica vocale ci sono molti errori, errori voluti o dallo studente o dall’ insegnante: non esiste nella tecnica vocale il “chiuso” e l’ “aperto”, cioè non esiste AAA e non esiste OOO. Esiste solo il suono COPERTO.”
[Masterclass di Carlo Bergonzi a Yale, 1988]
Questa affermazione, opportunamente spiegata (nel senso di intendere l’ aperto e il chiuso come componenti parziali del suono ‘integrale’) ci riporta alle premesse iniziali, ossia: il suono cantato a risonanza libera è generato dalla fusione di DUE spazi di risonanza, che sono la bocca e la gola. Se nella formazione del suono interviene unicamente o prevalentemente la bocca, avremo quello che si definisce, in senso negativo, il ‘suono aperto’ (da Bergonzi qui indicato con la vocale AAA). Se invece interviene unicamente o prevalentemente la gola, avremo quello che si definisce, in senso negativo, il ‘suono chiuso’ (da Bergonzi qui indicato con la vocale OOO). Solo se i due spazi di risonanza (bocca e gola, ‘aperto’ e ‘chiuso’) si fondono, avremo il suono ‘integrale’ del belcanto, da Bergonzi qui indicato col termine “coperto”. A questo punto si manifesterà un fenomeno singolare, che non interessa solo il canto e che il filosofo Heidegger ha spiegato così:
“L’ atto fondamentale della dialettica hegeliana è quello di far apparire gli opposti per vederli. Una volta arrivati a questo, occorre elevare gli opposti alla propria unità. La loro unità è come un arco che si tende più in alto dei due opposti, uno di fronte all’altro.”
Ossia: quando due opposti (avanti/indietro, aperto/chiuso), posti sullo stesso piano l’ uno di fronte all’ altro, si fondono, allora la loro SINTESI viene percepita dalla mente del cantante come un sorvolare il piano della loro contrapposizione. Da qui i concetti tecnico-vocali di ‘canto sul fiato’, di ‘copertura’ del suono (nel significato datogli da Bergonzi) e di ‘voce alta’, concetti che per altro non hanno nulla a che fare né con la “maschera” né con l’ oscuramento del suono. Poiché il superamento-sintesi di questa antitesi è percepito come dimensione che trascende il piano delle contrapposizioni e delle tensioni reattive, esso si può definire anche ‘trascendentale’. Questo piano ‘trascendentale’, che è quello dove fa la sua apparizione il canto, non è altro che il classico ‘tutto’, superiore alla somma delle sue parti.
Antonio Juvarra
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