
Arturo Melocchi
Riceviamo e pubblichiamo il consueto articolo mensile di Antonio Juvarra, questa volta dedicato alla cosiddetta tecnica dell’ affondo vocale. Grazie come sempre ad Antonio per la collaborazione e buona lettura a tutti gli interessati.
LA VERA STORIA DI ARTURO MELOCCHI E DELL’ AFFONDO
Arturo Melocchi rappresenta il caso paradossale di un maestro di canto che raggiunse la notorietà grazie a due fatti:
1 – la fama mondiale conseguita da un allievo (Mario Del Monaco), che studiò con lui per un breve periodo, ma poi scrisse di lui che se avesse continuato a studiare col suo metodo, denominato ‘affondo’, si sarebbe distrutta la voce;
2 – la falsa credenza che questo metodo, un ferrovecchio foniatrico risalente all’ Ottocento, sia stato inventato da lui.
Ad accreditare questa falsa credenza fu lo stesso Melocchi, che non peccava certo di modestia, tanto da scrivere in una lettera, con plateale effetto boomerang, ovvero ‘bue che dice cornuto all’ asino’: “I maestri di canto di oggi fanno quasi tutti schifo”. Ma per avere un’ idea precisa del metodo dell’ affondo, cui è legato impropriamente il nome di Melocchi, è indispensabile fare una premessa storico-vocale, ricostruendone la precisa genealogia. Forse non tutti sanno che, a partire dall’ anno 1830 circa, per influenza della foniatria, lo studio del canto diventa laringocentrismo vocale, intendendo per laringocentrismo l’ ideologia pseudo-scientifica che pone la laringe al centro della vocalità. Il laringocentrismo diventa laringomania, quando il canto non viene più semplicemente messo in relazione, ma viene letteralmente RIDOTTO a questo falso centro, escludendo tutto il resto, il che determina anche il passaggio dall’ ossessione della posizione della laringe all’ ossessione di che cosa fanno le corde vocali all’ interno della laringe, aberrazioni queste da cui i belcantisti erano sempre rimasti felicemente immuni. Nella loro profonda saggezza i belcantisti infatti avevano scoperto una verità, che rimase e rimarrà per sempre ignota ai laringomani passati, presenti e futuri: nel canto la laringe è come la Medusa, che non si può guardare direttamente ma solo riflessa in uno specchio, altrimenti si rimane pietrificati. Per neutralizzare la medusa Laringe i belcantisti ricorsero come Perseo a un mezzo indiretto come lo specchio, ma naturale: il respiro. Grazie al respiro naturale globale (questo scoprirono i belcantisti) la laringe magicamente sparisce dall’orizzonte percettivo del cantante e invece di combattere contro di lui, si mette docilmente al suo servizio. In questo modo la tecnica del belcanto mostra di ispirarsi a un principio che nei trattati del belcanto viene definito “secondare gli impulsi naturali” e che, parafrasando Lao Tzu, si potrebbe esprimere anche con la massima:
“dimenticare il piede è il segno di una scarpa che calza,
dimenticare i fianchi è il segno di una cintura che regge,
dimenticare la laringe è il segno di una voce che canta.”
Insomma esattamente il contrario di ciò che insegnava Melocchi, il quale non si vergognava a definire la sua scuola “la scuola della laringe bassa”.
La laringomania vocale (prodotto intellettuale del meccanicismo illuministico che si basa, al contrario del belcanto, sul ricordare invece che sul dimenticare la laringe, e sul lottare contro gli impulsi naturali invece che assecondarli) irrompe nel Settecento in Francia con Jean Antoine Bérard, ma si afferma definitivamente e universalmente solo un secolo dopo con Manuel Garcia junior, figlio dell’ omonimo celebre tenore rossiniano Manuel Garcia senior. Con Manuel Garcia jr., ‘nonno’ tecnico-vocale di Arturo Melocchi, si afferma anche la nuova tipologia del maestro di canto: non più cantante o ex cantante, ma ‘diversamente cantante’ ovvero ‘parafoniatra’. È noto che Manuel Garcia jr. (esattamente come Melocchi) debuttò nella didattica vocale, diventando insegnante di canto al conservatorio, senza aver mai cantato in nessun teatro importante e senza aver mai scritto nulla, ma solo beneficiando di un ‘titolo artistico’ improprio e molto ‘italiano’: essere il figlio del succitato famoso tenore ed il fratello delle due osannate primedonne Maria Malibran e Pauline Viardot. Nell’ anno 1840, essendo stata presentata all’ Accademia delle scienze di Parigi dai foniatri Diday e Petrequin una memoria intitolata “Una nuova specie di voce cantata”, dove si favoleggiava della recente nascita di una fantomatica nuova tecnica vocale, basata sull’ abbassamento diretto della laringe e sull’ oscuramento del suono, Garcia, piccato, ci tenne a precisare pubblicamente che il merito della scoperta andava ricondotto a lui, che già dal 1830 praticava il metodo della “laringe bassa e fissa” (sic) e provvide nello stesso anno 1840 a presentare a sua volta una sua memoria scientifica sulla voce umana. È da una costola adamitica di Garcia, la famigerata “voce oscurata” (creata abbassando la laringe, alzando il palato molle e quindi letteralmente ‘intubando’ lo spazio di risonanza), che tale Georg Armin, un dr. Frankenstein tedesco del canto, ricavò nei primi anni del Novecento un parto mostruoso, che verrà poi replicato in Italia col nome di “affondo” da un dr. Frankenstein nostrano, Arturo Melocchi appunto, il protagonista eponimo della nostra storia, che pertanto può essere considerato a tutti gli effetti ‘figlio’ di Armin e ‘nipote’ di Garcia. Per rendersi conto dell’affinità (se non identità) tra l’ affondo di Melocchi e l’ affondo di Armin (autore di un trattato dal significativo titolo ‘La forza primordiale della voce’), basti pensare che Armin fu il primo a parlare di irrobustimento delle corde vocali, da realizzare portando in alto le caratteristiche del registro di petto, di manovre ginniche (come spostare pianoforti) come mezzo per rafforzare i muscoli dell’ appoggio, di mantenimento della laringe bassa, di dilatazione massima dello spazio sopraglottico, di collegamento tra resistenza glottica e appoggio addominale, ecc. ecc.
Arturo Melocchi fece proprie le aberrazioni foniatriche di Armin e attuò quello che si può considerare un vero e proprio stravolgimento della prospettiva tecnico-vocale del belcanto ossia: a fondamento dello studio del canto non pose più la ricerca della giusta armonia tra due processi naturali (l’ articolazione e la respirazione), della giusta qualità del suono e del giusto equilibrio risonanziale, ma pose il controllo muscolare diretto, visto dalla prospettiva angusta, meramente astratta e intellettualistica della fisio-anatomia. È da questa (folle) UTOPIA del controllo muscolare diretto degli organi fonatori (corde vocali comprese) che deriva il disastroso ‘fatal error’ tecnico-vocale denominato affondo. Applicato all’adduzione delle corde vocali, esso genera, come nefasto corollario, questa teoria, fatta propria anche dai moderni ‘foniatri artistici’: la prevalenza della funzionalità dei muscoli tiro-aritenoidei, che caratterizza il registro di petto, sarebbe secondo loro anche all’ origine delle frequenze che generano lo squillo e la maggiore udibilità della voce, motivo per cui (scrive un teorico dell’affondo) “l’ uso accresciuto della componente di petto del suono accresce lo squillo, generando quegli armonici che conferiscono alla voce il focus e la brillantezza.” Ancora oggi un foniatra, Franco Fussi, mostra di condividere questa teoria, sostenendo che “il corretto equilibrio dei risuonatori prevede che nel suono esista un corpo, uno spessore, una ampiezza di cavità, che fornisce pienezza e rotondità alla voce” e che “la ricerca del ‘corpo’ del suono, il senso del volume e dello spessore dell’emissione corrisponde all’assemblaggio di formanti superiori in un prevalente rinforzo armonico sui 3000 Hz detto “formante del cantante” e all’ abbassamento in frequenza dei picchi formantici (quindi timbro più scuro)” (citazione testuale).
Leggendo queste fantasiose teorie, smentite da ben tre secoli di storia del canto italiano, si può affermare che ciò che Melocchi e i foniatri passati e presenti non hanno mai capito è che LA ROTONDITÀ DEL SUONO NON È SINONIMO DI CORPOSITÀ e che, qualunque cosa facciano le corde vocali, la componente della corposità non C’ ENTRA NULLA né con la potenza della voce né con la sua maggiore udibilità, dato che essa produce solo un ingrossamento del nucleo del suono e un appesantimento dell’emissione. Come avevano capito i belcantisti, essa pertanto può emergere legittimamente SOLO nell’ ambito circoscritto del registro grave della voce (anticamente chiamato “di petto”), ma non può assolutamente essere estesa (contrariamente a quanto teorizzano gli affondisti e alcuni moderni foniatri) alla zona acuta della voce e neppure alla zona centrale, altrimenti la voce a lungo andare si distrugge. Proprio a questo proposito il celebre baritono Antonio Cotogni (secondo la testimonianza di Lauri Volpi, suo allievo) ebbe a dire significativamente che la corposità-volume del suono “è come il grasso nel corpo: non è muscolo” e che “come l’ obesità, essa è la morte prematura dei suoni”. Ma già un secolo prima in un trattato classico del belcanto, le “Riflessioni pratiche sul canto figurato”, l’ autore, il castrato Giambattista Mancini aveva criticato sarcasticamente con parole definitive quelli che (come i futuri affondisti) cantano “a GOLA PIENA con voce pesante e affogata”. D’ altra parte, anche se non avessimo le conferme di questi due autorevoli rappresentanti della scuola di canto italiana storica, sarebbe la stessa logica elementare a suggerirci che se una componente del suono (la corposità) è associata alla zona grave della voce (da cui il termine “registro di PETTO”), non si capisce come essa possa essere trasferita alla zona acuta della voce (detta “registro di TESTA”). In altre parole l’equazione ‘suono basso = suono grave, corposo’ ha come sua correlativa l’ equazione ‘suono alto = suono leggero, acuto’. Teorizzare pertanto l’ assurdità di un suono alto corposo è come teorizzare che, siccome la maggiore forza trainante di un’automobile si ha con la prima marcia, allora occorre usare la prima marcia anche per andare a 200 km all’ ora. Le equazioni prodotte dall’affondo (ampio = basso, basso = pieno, pieno = potente) sono pertanto equazioni farlocche per la semplice ragione che a generare la potenza del suono è un tipo di adduzione delle corde vocali che naturalmente interviene SOLO nella zona acuta della voce (da cui l’espressione ‘parlare a voce alta’ per indicare il ‘parlare a voce forte’). È per aver dato per buona la falsa teoria della corposità del suono come fonte della potenza e dell’ udibilità della voce, che la formula del belcanto (“suono calmo, sferico, LEGGERO E POTENTE”), verrà col tempo buttata nella spazzatura e sostituita con un’ altra formula, di segno contrario, e cioè, per l’ appunto, il “suono spasmodico, verticalizzato, PESANTE E SPINTO” dell’ affondo.
La concezione laringocentrica del canto di Melocchi la ritroviamo espressa ed esemplificata per bocca di Mario Del Monaco in questo divertente video, intitolato “Incontro di Ugo Gregoretti con Mario Del Monaco”. Il video nasce all’insegna dello scherzo, in sintonia con lo spirito ironico, giocoso e demistificante di Gregoretti. Tuttavia a un certo punto Del Monaco diventa serio e, in ossequio alla teoria laringea di Melocchi, al minuto 1.52 afferma che lo scopo degli “speciali vocalizzi, basati sulla laringe”, da lui praticati, è quello di “tenere i muscoli delle corde vocali sempre in tensione” (sic).
In realtà a generare lo squillo della voce non affatto è il proposito di mettere in tensione direttamente le corde vocali (operazione meccanica che induce rigidità perché va contro la FISIOLOGIA della fonazione umana, che invece si basa sul controllo INDIRETTO, senso-motorio e non meccanico, delle corde vocali) e a dimostrarlo (involontariamente) in questo video è proprio lo stesso Del Monaco. In che modo? Al minuto 2.08 Del Monaco dà un esempio (non canoro, ma rozzamente ‘fonatorio’…) di questi suoi “speciali vocalizzi, basati sulla laringe” e che altro non sono che una successione di staccati eseguiti sulle diverse vocali, utilizzando il colpo di glottide. Ovviamente Del Monaco li esegue usando la tecnica dell’ affondo e applicandola non solo all’ attacco del suono, che ne risulta artificialmente ingrossato, ma anche all’ apertura dello spazio di risonanza, ciò che determina una vistosa (e abnorme) apertura della bocca anche nella zona centrale della voce. Trattandosi di un’ apertura preimpostata, meccanica ed esagerata, il risultato è la soppressione della scioltezza articolatoria, che è quella che fa da sintonizzatore automatico della voce e mantiene naturalmente brillante il suono. Il risultato paradossale è che i suoni prodotti in questo modo da Del Monaco sono, benché ‘iper-appoggiati’, meno a fuoco di quelli da lui prodotti semplicemente leggendo una frase e usando la normale voce parlata, suoni che infatti vengono giudicati significativamente dal foniatra presente “chiari, squillanti, forti” (minuto 0.42). Il risultato dell’esperimento smentisce quindi le teorie tecnico-vocali di Melocchi, esemplificate qui da Del Monaco, e conferma la concezione (contraria) del belcanto e cioè: a generare lo squillo della voce non è un qualche astruso meccanicismo laringeo, ma è semplicemente il mantenimento della brillantezza naturale del suono parlato anche nella zona acuta della voce cantata (dove naturalmente ‘sboccia’ la potenza vocale), ciò che ovviamente esige come condizione necessaria anche la capacità di aprire la gola correttamente e di ‘appoggiare’ correttamente il suono.
Per altro, che in realtà anche Mario Del Monaco fosse arrivato dentro di sé alla stessa conclusione è dimostrato sia dal suo commento finale in questo stesso video (commento che suona o come un lapsus o come una ‘excusatio non petita’: “ovviamente quando canto, non canto con questa durezza”), sia da altre sue analoghe affermazioni, fatte in altre occasioni (“quando si canta bisogna tenere la voce alta, leggera, aerea”). Il che significa sostanzialmente questo: non essendo concepibile che un cantante esegua il repertorio con una tecnica vocale che è l’ OPPOSTO di quella usata per fare i vocalizzi (a meno che non sia schizofrenico), si può dire che quelli che nel video Del Monaco definisce “esercizi finalizzati a mantenere la meccanica”, nel suo caso in realtà non avevano più niente a che fare con la tecnica vocale, essendo soltanto una sorta di personale rito di natura ossessivo-compulsiva. Lo strano fenomeno si spiega nel seguente modo: Del Monaco da giovane era rimasto traumatizzato dalla paura di aver perso per sempre la voce dopo aver studiato per un breve periodo con un maestro di canto fanatico della ‘maschera’, tale Manlio Marcantoni. Pur avendola poi ritrovata facendo i ‘fondi’ di Melocchi, Del Monaco non riuscì più a staccarsi dalla fobia di perdere la voce e dall’ idea superstiziosa che se non avesse continuato a fare questi esercizi, avrebbe rischiato di perderla nuovamente. A dimostrare inoppugnabilmente che di questo si trattava (cioè di un rituale nevrotico che nulla ha a che fare con la tecnica vocale) è la stesso Del Monaco nella sua autobiografia, dove scrive:
“Era possibile che insistendo su quella su quella strada” (l’ affondo) “finissi in un’altra deviazione” (come già gli era successo con l’ opposta deviazione della ‘maschera’). “PER FORTUNA a un certo momento intervenne il mio istinto. Capii che la continua ricerca di profondità a lungo andare avrebbe pregiudicato l’ integrità del mio organo vocale. Così creai una mia tecnica di compromesso: mantenni i vocalizzi, ma usai per il canto un’ emissione morbida e fluida.”
Il che è come dire: quando canto, NON uso la tecnica di Melocchi, ma per scaramanzia (non si sa mai) ogni tanto faccio qualche vocalizzo ‘fondo’, espediente che Del Monaco in un’ intervista confessò di aver usato durante tutta la sua carriera, definendolo “il suo piccolo segreto”. Del Monaco insomma, a differenza di molti suoi colleghi, caduti nel baratro dell’ affondo, aveva capito perfettamente un concetto: che per salvarsi dalla padella non occorre buttarsi nella brace, ossia, fuor di metafora, che per trovare l’ ampiezza del suono e l’ apertura della gola (che Marcantoni, il maestro fanatico della maschera, gli aveva inibito) non era necessario ingrossare il nucleo del suono e sprofondare la voce sotto la laringe, come invece teorizzava Melocchi, smentito in questo da tre secoli di VERA (e gloriosa) tecnica vocale italiana (che non prevedeva né ‘maschere’ né ‘affondi’). Questa tradizione tecnico-vocale (scandalosamente ignota a Melocchi), comprende anche Enrico Caruso, che nel suo scritto ‘On the art of singing’ (altrettanto ignoto a Melocchi) afferma:
“Il più grave errore commesso da molti cantanti è attaccare il suono all’altezza del petto o della gola.” (cioè affondando il suono). “Anche se si ha un organismo forte e una voce bellissima, non si può resistere a questo. Questo è il motivo per cui così tanti artisti che hanno debuttato brillantemente, poi scompaiono molto presto oppure proseguono con una carriera molto mediocre.”
Anche per quanto riguarda l’apertura della bocca, Caruso smentisce totalmente l’ approccio di Melocchi, una delle cui fissazioni era l’ apertura abnorme della bocca anche nel settore centrale della voce. Scrive infatti Caruso :
“Chi si intende di canto, sa che per aprire la gola non c’ è bisogno di aprire molto la bocca. La gola si apre in virtù della respirazione. Tranne che per le note acute l’ apertura della bocca è come quando si sorride.”
Questa affermazone di Caruso è in linea con tutta la tradizione vocale autenticamente italiana, com’è confermato autorevolmente dal trattato di Mancini, che nel Settecento forniva profeticamente a noi posteri una radiografia ‘ante litteram’ dell’ affondo, scrivendo con riferimento a quelli che cantano con la bocca spalancata (ossia ‘alla Melocchi’):
“Per tale smoderata apertura di bocca i cantanti mai potranno avvedersi che, le fauci restando così tese, ne verrà in conseguenza tolta quella flessibilità necessaria per dare alla voce la natural chiarezza e facilità. Quindi, se resta inemendata nello scolaro siffatta situazione di bocca, canterà il poverino, ma sempre con una voce AFFOGATA, cruda e PESANTE.”
Chiarito in via definitiva che il metodo dell’ affondo non ha nulla a che fare con la scuola di canto italiana storica e che la potenza della voce non esige affatto le astruse manovre laringee e addominali, teorizzate dall’affondo, a questo punto è divertente assistere a uno strano fenomeno psico-antropologico e ci riferiamo allo sforzo profuso dai moderni fautori dell’ affondo per nascondere l’evidenza rappresentata dal DNA foniatrico e franco-tedesco del loro metodo, e per tentare di nobilitarlo, attribuendogli fantomatiche origini italiane. Il tutto senza rinunciare alla tentazione di dare alla loro storia anche un tocco di esotico e di avventuroso, così come si conviene ad ogni mito originario di rifondazione, basato sul ‘viaggio’, e basti pensare ai miti di Ulisse e di Enea. Nel sito di un apostolo dell’ affondo, A.M., docente di conservatorio, si favoleggia ad esempio che un bel giorno un Indiana Jones del canto, il sunnominato Arturo Melocchi appunto, spinto dall’ ardore per la ricerca dell’ autentico canto all’ italiana, si spinse fino in Cina, dove casualmente trovò qualcosa che, secondo lui, era stato inventato in precedenza in Italia tanto tempo prima. In pratica, come se Marco Polo, tornando dalla Cina, avesse portato a casa come souvenir una barca cinese, raccontando che quella era la copia, fatta anticamente da un cinese, di una gondola veneziana. Ma ecco come viene presentata nei particolari nel suddetto sito l’epica storia di Indiana Melocchi, che qui di seguito riproponiamo come intermezzo folkloristico, che ci dà la misura del grado di attendibilità storica, logica e filologica dell’ autore di questo metodo e dei suoi sostenitori. Il nostro eroe parte dunque per la Cina, dove incontra un misterioso sig. Hang, il quale gli rivela i segreti di una prodigiosa tecnica vocale, che lui aveva appreso da un ignoto maestro di canto russo (sic), il quale a sua volta l’ aveva appresa a S. Pietroburgo da un prestigioso baritono italiano, nato a Parigi, di nome Leone Giraldoni, che oltre che in Francia, in Spagna e in Italia, insegnava anche in Russia. In sostanza abbiamo a che fare con un presunto metodo italiano DOC, che sarebbe rimasto italiano, pur passando attraverso ben tre contaminazioni: Francia, Russia, Cina.
La domanda che sorge spontanea a questo punto è: ammesso che l’ italo-francese Giraldoni si sia fatto capire dal suo allievo russo, come avrà fatto il russo a comunicare col cinese e il cinese con l’italiano (Melocchi)? Il russo parlava in cinese o il cinese parlava in russo e l’ italiano che cosa mai avrà capito del cinese?
E fin qui siamo ancora nell’ambito delle obiezioni marginali, dato che l’ obiezione fondamentale rimane la seguente: ma Melocchi non poteva fare l’ archeologo del belcanto italiano restando in Italia invece di andare in Cina, tanto più che Giraldoni aveva insegnato anche in Italia? Cosa dovremmo pensare di uno Schliemann (lo scopritore della città di Troia), ipoteticamente turco invece che tedesco, che invece di cercare i resti della mitica città omerica nella sua Turchia (dove poi in effetti fu scoperta), fosse andato a cercarla in California o in Messico? Per non dire poi della beffa finale, di cui Melocchi non ebbe mai coscienza: che le teorie di Leone Giraldoni (quali sono sono documentate nei trattati di canto da lui scritti) non hanno NULLA di belcantistico e di italiano, essendo state elaborate in Francia poco più di trent’ anni prima che nascesse Melocchi, e quindi anch’ esse si basano, tanto per cambiare, sulla mania di controllare cosa fa la laringe quando si canta. Il che significa, ricorrendo a un’ iperbole, che è come se l’ archeologo Melocchi avesse scambiato una lattina di Coca Cola, lasciata da qualcuno nella tomba di Tutankhamon, per un’ urna del 1300 a.C.
Ma chi era il trattatista che aveva prodotto la lattina di Coca Cola di Giraldoni? Non certo il belcantista DOC Pier Francesco Tosi o l’ancor più grande Giambattista Mancini (altrimenti si sarebbe trattato di un’urna autentica e non una lattina…), ma (tanto per cambiare) il succitato Manuel Garcia jr., inventore dei tubi verticali foniatrici, della voce bicolore e dei ‘colpi di glottide’. In conclusione, imbattendosi nel nome di Giraldoni, Melocchi si era illuso di essere riuscito a ricollegare il metodo appreso dal cinese Hang alle sue presunte origini italiane, chiudendo così il cerchio. In realtà il cerchio si era sì chiuso, solo che non si trattava del cerchio italiano del belcanto, ma di un altro ‘cerchio’: quello francese, foniatrico e laringocentrico, inaugurato da Garcia. Con questa beffa al quadrato conclusiva: il Giraldoni reale (qual è attestato dai suoi trattati), pur avendo ereditato il laringocentrismo di Garcia, proponeva un approccio al canto molto più morbido di quello che poi avrebbe adottato Melocchi col ‘suo’ metodo (metodo non a caso denominato in Italia “metodo forte” e in Argentina “metodo duro”) e a questo punto la domanda è: la colpa della cantonata fu di Mr. Hang, che non aveva capito nulla di quanto riferitogli dall’ allievo russo di Giraldoni, oppure fu di Melocchi, che più che dal laringocentrismo ‘soft’ di Giraldoni, si era in realtà lasciato influenzare dal laringocentrismo ‘hard’ di Georg Armin (il succitato dr. Frankenstein tedesco del canto)? Per la verità, parlare di laringocentrismo ‘hard’ a proposito dell’ affondo di Melocchi è ancora alquanto eufemistico: cosa pensare infatti di un ‘metodo’ che prescrive l’ utilizzo di vocalizzi sulla ‘U’ (i cosiddetti “fondi”), tenendo forzatamente abbassata la mandibola e la laringe, fino ad arrivare all’afonia, afonia concepita (seriamente!) come un mezzo per irrobustire le corde vocali e dare più squillo alla voce? Se infatti ora usciamo dal sito di A.M., col suo folklore esotico, e passiamo a quello di G.R. (altro apostolo dell’ affondo), ci imbattiamo in sconcertanti testimonianze, che ci fanno entrare direttamente nel museo degli orrori, ovvero nel ‘gabinetto del dott. Caligari’ di Arturo Melocchi. Ecco ciò che ‘utopizzava’ Calegari-Melocchi secondo i suoi allievi:
“Il tenore Aldo Bottion mi raccontava che, dopo le lezioni da Melocchi, lui ed altri allievi andavano sulla spiaggia di Pesaro continuando vocalizzare ancora come matti fino a perdere la voce e che dopo tre giorni di riposo le voci erano grandi il doppio.”
Ora non si deve pensare che l’ afonia fosse il deprecabile incidente capitato ad allievi troppo esuberanti e imprudenti nello sperimentare la voce, essendo invece una precisa tappa obbligata (o stazione di ‘via crucis’…), prevista dal ‘metodo’ Melocchi, come è dimostrato da quest’altra testimonianza, contenuta nello stesso sito:
“Un allievo di Melocchi mi raccontò di questi “vocalizzi forti”, fatti con la mano che spingeva indietro la mascella inferiore e poi dell’ AGONIA (?!) di non poter più parlare. Per questo dopo le lezioni andavano sempre al cinema”.
Che dire di queste affermazioni (demenziali)? Manca solo che ci venga raccontata anche la favola che dopo due o tre ‘fondi’ di Melocchi i rospi, previa bollitura, si trasformavano magicamente in usignoli, e avremo toccato l’ apice della scienza tragicomica, applicata al canto. A proposito di favole, c’ è da dire che la formula di Melocchi (ululare con la mandibola e la laringe abbassate al massimo fino ad arrivare all’afonia, dopodiché rimanere in silenzio tre giorni in attesa che la voce magicamente risorga dall’afonia con accresciuto ‘squillo’) ricorda molto, quanto a logica (e dolore alle corde vocali a parte), il consiglio che il Gatto e la Volpe diedero a Pinocchio, quando gli proposero una singolare forma ‘botanica’ di investimento finanziario ovvero: sotterrare i suoi zecchini, in modo che dal metallo così ‘affondato’ si generasse per un prodigioso fenomeno di ‘botanica minerale’, un albero con centinaia di zecchini al posto delle foglie. In entrambi i casi il principio risulta identico, quasi evangelico: sotterrare-affondare qualcosa e poi restare in attesa che dalla morte risorga la vita. La formula di Melocchi in effetti capovolge molto intelligentemente la formula tradizionale del belcanto ovvero: non più il saggio “cantare sugli interessi e NON sul capitale della voce” di Giambattista Rubini, ma il foniatrico “cantare sul capitale della voce e NON sugli interessi” di Arturo Melocchi. Ma c’ è di più (e di peggio). Il crimine più grave, commesso da Melocchi, fu infatti quello di aver degradato i vocalizzi (geniale scoperta della scuola di canto italiana storica) da esercizi fonetico-acustici di sintonizzazione del suono, quali erano, a banale e brutale ginnastica laringea. A confermare questo fatto è lo stesso Mario Del Monaco del periodo ‘affondistico’, che in un’ intervista afferma che lo scopo dei “fondi” è “esercitare l’ aritenoide, che è il muscolo tensore delle corde vocali, tirandolo come si tirano le briglie del cavallo, allo scopo di concentrare la voce” (testuale), perfetto esempio, questo, di scienza comico-surreale, tenuto conto del fatto che mentre le briglie del cavallo si possono tirare effettivamente, invece le corde vocali non si possono FISIOLOGICAMENTE azionare direttamente, dato che la loro vibrazione può avvenire solo come EFFETTO del concepimento mentale del suono (parlato o cantato che sia), motivo per cui ogni tentativo di controllo diretto delle corde vocali, in quanto grossolano, non porta affatto a “concentrare la voce”, come affermava Del Monaco quando ancora credeva all’ affondo, ma, al contrario, a ingrossare il nucleo del suono e quindi ad appesantire l’ emissione (vedasi il succitato discorso di Cotogni sulla corposità del suono come “grasso” e “obesità”).
Se i titoli artistici di Garcia junior consistevano, molto italianamente, in nient’ altro che in una serie di tournée del circo vocale ‘Garcia & sons’ nel Far West americano (tournée simmetriche e quasi contemporanee a quelle del circo equestre di Buffalo Bill in Europa) e in una probabile ‘spinta’, datagli dai familiari per arrivare a insegnare al conservatorio, non molto diversi si presentano i titoli artistici che permisero ad Arturo Melocchi di ottenere la cattedra di canto al Liceo Musicale ‘Rossini’ di Pesaro. Anche qui ci immergiamo nell’ italianità più pura, purtroppo in senso rigorosamente non vocale: ritroviamo infatti Melocchi insegnante di canto in un’istituzione musicale all’età di soli trent’ anni (come Garcia), avendo come unico titolo il diploma di canto, nessun titolo artistico, ma… la raccomandazione del suo maestro Gallignani, direttore dell’istituto. Melocchi assurse a notorietà per essere stato per un certo periodo il maestro di Mario Del Monaco, prima che quest’ ultimo decidesse di mettere sopra questa ‘tecnica’ una perfetta pietra tombale con la sua famosa frase, che ha il valore di una sentenza: “se si vuole cantare e si vuole resistere, tutto quello che ha detto Melocchi bisogna cancellarlo e fare il rovescio di quello che ha detto lui” (citazione testuale).
Come abbiamo visto, la ricetta base dell’ affondo, e cioè “abbassare direttamente la laringe oscurando la voce”, non fu inventata da Melocchi, ma da Manuel Garcia jr. nel 1840. Melocchi di suo ci aggiunse soltanto un drastico peggioramento con l’introduzione di tre idee farlocche, che riescono ad essere allo stesso tempo anti-fisiologiche, anti-acustiche e anti-belcantistiche:
1 – l’ idea che lo spazio che dà rotondità al suono vada cercato in basso;
2 – l’ idea che la corposità del suono equivalga a potenza del suono invece che a zavorra del suono;
3 – l’ idea che con gli ululi ‘afonogeni’ le corde vocali si irrobustiscano (invece che, come in realtà accade e come il buon senso suggerisce, distruggersi).
Solitamente a Melocchi vengono attribuiti numerosi allievi, soprattutto tenori. Questo contrasta con la testimonianza di Mario Del Monaco, che in questa intervista di Aronne Ceroni si lascia scappare una frase sorprendente: “ricordo che di tutti i suoi allievi, nessuno ha mai cantato, compreso Bocci, che è stata una vittima di Melocchi” (citazione testuale).
Occorre ammettere che non può non apparire come minimo strano, se non sospetto, un ‘apprezzamento’ per il proprio maestro, espresso da un allievo con l’ affermazione secondo cui nessun altro allievo di questo maestro è riuscito a diventare cantante, anzi uno di questi è stato addirittura una sua “vittima”, ma, come abbiamo visto, i maniaci dell’ affondo non si può dire che brillino per capacità logiche, da cui le ‘perle’ da loro quotidianamente prodotte ed esibite su internet e altrove.
Ma torniamo al nostro Melocchi (maestro di canto per grazia ricevuta, targata Gallignani), maestro di cui:
1- il suo allievo ‘di rappresentanza’ Del Monaco andava in giro a dire che studiando con lui, dopo un’ ora di lezione rimaneva afono per una settimana, tanto da non riuscire più neanche a dire “buona sera!” (sic!) e che aveva “sempre diffidato di lui”, tanto da andare contemporaneamente a lezione per precauzione anche da un altro maestro, tale Morigi, che “gli era stato più utile di Melocchi” (sic);
2 – tutti (compreso il padre di Del Monaco, che inizialmente proibì al figlio di andare a studiare da lui) a Pesaro dicevano che rovinava la voce.
Sorge spontanea a questo proposito la domanda: se questo è ciò che disse di Melocchi il suo allievo di rappresentanza, che cosa avranno mai detto di lui i suoi detrattori? Sorpresa: niente di peggio di ciò che appunto ne disse il suo sostenitore più rappresentativo, ma che se viene detto dagli oppositori, ecco che allora misteriosamente diventa motivo di scandalo con conseguenti anatemi, mentre se viene detto dal primo, induce subito a cambiare discorso, facendo finta di niente. Per la verità c’ è anche chi, pur di salvare l’ idolo Melocchi, arriva eroicamente a prendere le distanze persino da Del Monaco, sostenendo che l’ affermazione secondo cui Melocchi non avrebbe prodotto nessun cantante al di fuori di lui, non sarebbe veritiera e troverebbe la sua spiegazione solo nell’ egolatria di Del Monaco. In realtà basta poco per scoprire che invece ad avere ragione era proprio Del Monaco. Infatti dal 1912 (anno in cui incominciò a insegnare) al 1939 (anno del debutto di Del Monaco), quindi per ben ventisette anni, non troviamo alcuna traccia di allievi di Melocchi che siano diventati cantanti professionisti, eccettuati i casi di Mario Melani e dello stesso Mario Del Monaco, che però possiamo considerare come due eccezioni che confermano la regola (contraria), in considerazione dei seguenti fatti:
1 – entrambi erano in possesso di una voce naturale, tale da metterli in grado di iniziare la carriera operistica giovanissimi (22 e 24 anni);
2 – nella citata intervista con Aronne Ceroni e in altre interviste Del Monaco, raccontando la sua storia, precisa di aver debuttato solo per merito proprio e che, DOPO gli studi con Melocchi (e Morigi..,) aveva continuato a studiare come autodidatta per un lungo periodo, periodo durante il quale aveva elaborato un suo personale modo di cantare, opposto a quello di Melocchi e da lui definito significativamente “alto, leggero e aereo” (citazione testuale);
3 – nell’ intervista con Aronne Ceroni, Del Monaco smentisce la favola (per altro alimentata anche da lui) secondo la quale la potenza della sua voce sarebbe stata il frutto degli studi con Melocchi, confessando (o lasciandosi sfuggire) che in realtà già all’età di 14 anni (sic) la sua voce era una voce eccezionalmente potente, tanto da esibirsi in concerto cantando brani impegnativi come l’ Improvviso dell’Andrea Chenier e attirando l’ attenzione dello stesso Melocchi, con cui ancora NON studiava.
Che la tecnica vocale di Melocchi non fosse propriamente “leggera” (litote) era di pubblico dominio. Aggiungiamoci il ‘segreto’ dei ‘fondi’ afonogeni e ci vuole poco a considerare più che attendibile quella diceria. Così deve aver pensato anche la commissione, capeggiata da Umberto Giordano, mandata nel 1941 a fare un’ ispezione al Liceo musicale di Pesaro (in procinto di diventare conservatorio) allo scopo di accertare l’ idoneità dei vari insegnanti e, probabilmente, per accertare anche la veridicità delle voci secondo cui Melocchi rovinava la voce agli allievi. La commissione confermò queste voci, togliendo a Melocchi la cattedra di canto. Ove non bastasse, la bocciatura di Melocchi fu confermata anche da un altro compositore di spicco dell’epoca, Riccardo Zandonai, divenuto nel frattempo direttore del conservatorio. La causa del licenziamento? Un complotto fascista ai danni dell’ antifascista (immaginario) Melocchi, provano a mistificare, com’è il loro solito, i sostenitori dell’ affondo per salvare il loro guru. Ora la bassezza di chi per primo ha fatto circolare questa fandonia (lo stesso Melocchi nella sua domanda di riassunzione, inviata al ministero) non è data tanto dalla sua falsità, che rimane comunque spudorata. (Infatti se Melocchi fosse stato realmente un antifascista, non ci sarebbe stato neppure bisogno di scomodare Giordano per licenziarlo, perché bastava imporgli di prestare giuramento di fedeltà a fascismo, giuramento che, in base a una precisa legge, era già obbligatorio da anni per tutti i dipendenti statali). La bassezza della tesi farlocca dell’ antifascismo come causa del licenziamento di Melocchi è data piuttosto da un altro fatto: essa implica logicamente l’ ipotesi calunniosa che Umberto Giordano, a quel tempo già una celebrità mondiale, abbia accettato e abbia avuto bisogno, per ingraziarsi il regime fascista, di sporcarsi le mani licenziando ingiustamente uno sconosciuto insegnante di un liceo di provincia. Ora anche i più sprovveduti sanno che per questo lavoro di ‘manovalanza’ sarebbe bastato un oscuro burocrate, senza bisogno di scomodare un personaggio pubblico come Giordano. Tanto più che non si trattava neppure di licenziare, ma, molto più semplicemente, di non accettare la domanda di uno sconosciuto insegnante di essere considerato idoneo a continuare a insegnare in un istituto musicale, che stava per diventare un conservatorio.
Per fortuna a smentire indirettamente, pur senza volerlo, la fandonia dell’antifascismo di Melocchi come presunta motivazione del suo licenziamento, sarà lo stesso fratello di Del Monaco, Alberto, il quale nel 2017 ha scritto su facebook che suo padre, “allora alto funzionario del Ministero degli interni e fervente fascista, non appena seppe del licenziamento di Melocchi, fece in modo che con decreto del Ministero della cultura popolare gli fosse assegnato un congruo contributo mensile, in quanto insigne insegnante”. Sorvolando sull’incongruenza, data dal fatto che quell’ “insigne insegnante” era lo stesso da cui pochi anni prima proprio il padre di Del Monaco aveva proibito al figlio di andare a lezione, date le voci poco tranquillizzanti che circolavano su di lui, e volendo dare per veritiera questa testimonianza di Alberto Del Monaco, se ne deduce allora logicamente che se Melocchi fosse stato quell’ antifascista reale (e non ‘virtuale’) che si vuol far credere, allora nessun “alto funzionario fascista”, compreso il padre di Del Monaco, si sarebbe mai esposto né avrebbe mosso un dito per chiedere a quello stesso regime fascista che l’ aveva appena licenziato per antifascismo, di fargli il regalo di un “congruo contributo mensile”. Il motivo allora per cui quello stesso padre che, stando alle parole del figlio Mario Del Monaco, aveva proibito al futuro famoso tenore di andare a lezione da Melocchi, si diede poi la briga di procurare a quest’ ultimo un “congruo assegno mensile”, andrà più verosimilmente cercato nel fatto che nel frattempo il figlio aveva iniziato una promettente carriera lirica e (soprattutto) nel fatto che il padre non era a conoscenza dei retroscena su Melocchi, che proprio il figlio (e non i detrattori dell’ affondo!) avrebbe rivelato molti anni dopo nell’ intervista con Aronne Ceroni, retroscena da cui Melocchi non esce propriamente come “insigne insegnante” (litote).
No, nessun licenziamento per antifascismo, quindi, ma qualcosa di molto più banale e squallido e cioè: a detta di tutti, secondo la testimonianza dello stesso Mario Del Monaco, Melocchi semplicemente rovinava la voce, facendo talvolta persino sanguinare le corde vocali agli allievi durante le lezioni, ma pare che per i seguaci dell’ affondo questo fatto, testimoniato da Franco Corelli e Renata Tebaldi (vedi: Stefan Zucker, “Franco Corelli and a revolution in singing”) sia del tutto irrilevante, qualcosa insomma che può impressionare solo le persone ‘schizzinose’ che cercano pretesti per screditare la gente che vale. Lo scandalo del licenziamento di Melocchi non impedì tuttavia che con l’ esplodere del successo di Del Monaco, puntualmente si creasse (come sempre succede in questi casi) una fila di cantanti che, incuranti del piccolo particolare che Melocchi era stato cacciato per incapacità, fecero di tutto per studiare con lui, fenomeno analogo a quello che si sarebbe riprodotto anni dopo, quando altri allievi, incuranti del fatto che anche il successivo insegnante ‘storico’ dell’ affondo, allievo del primo, non aveva mai emesso in vita sua un suono cantato né in un teatro, né tanto meno a lezione (!), incominciarono a fare la fila per diventare suoi allievi. Spiegazione del fenomeno: il secondo insegnante di affondo era semplicemente il fratello di Mario Del Monaco, Marcello, il che evidentemente bastò a far scattare negli allievi l’ italianissimo ragionamento: ‘se-io-vado-a-lezione-da-lui-poi-lui-mi-fa-sentire-dal-fratello-che-così-mi-farà-cantare-nei-teatri’.
Tra gli allievi di Melocchi possiamo distinguere tre categorie:
1 – la categoria degli allievi che, come ebbe a precisare Mario Del Monaco, mai diventarono cantanti;
2 – la categoria di quegli allievi (i già citati Mario Melani e Mario Del Monaco), che diventarono cantanti, ma solo o principalmente perché GIA’ dotati di eccezionali voci NATURALI.
3 – la categoria di quegli allievi che, ugualmente superdotati vocalmente, andarono a studiare da Melocchi DOPO che il successo di Del Monaco esplose e solo (o principalmente) perché Melocchi era stato l’ insegnante di Del Monaco.
Tra gli allievi appartenenti alla prima categoria (ossia allievi che mai cantarono) ritroviamo dunque anche il fratello di Del Monaco, Marcello, e qui risorge spontanea la domanda che abbiamo sollevato per il caso Garcia ossia: se Marcello Del Monaco si fosse chiamato Marcello Rossi invece che Marcello Del Monaco, sarebbe riuscito, come fece, a riciclarsi come maestro di canto, oppure sarebbe stato costretto a continuare a fare a tempo pieno il suo lavoro di dirigente scolastico? La domanda ovviamente è di natura esclusivamente retorica e non esige risposta. In effetti qui ci troviamo di fronte al caso anomalo di uno di quegli insegnanti di canto che, come Celletti, mai emisero un suono cantato in vita loro (tanto meno a lezione), ma che, siccome si chiamavano Marcello Del Monaco e non Marcello Rossi, gli affondisti della voce (e della ragione) non esitano a difendere a spada tratta, attribuendo loro una sorta di speciale ‘immunità critica’, per cui magicamente accade che il criterio che loro usano come (unico) ‘argomento’ CONTRO gli ALTRI insegnanti (ossia: fammi sentire come canti e ti dirò se il metodo che insegni è giusto), per i Melocchi e i Marcello Del Monaco ecco che improvvisamente cessa di valere. Ma c’è di più. Il fatto che Marcello Del Monaco e Rodolfo Celletti durante le loro lezioni non facessero nessun esempio vocale, si potrebbe anche giustificare adducendo il fatto che già in partenza si presentavano come non cantanti. Ma che Melocchi, diplomato in canto nonché sedicente inventore di una nuova tecnica vocale (il quale in una sua lettera addirittura si vanta della propria voce, affermando narcisisticamente: “ho 76 anni e mai ebbi voce più bella, ricca, forte e chiara ed estesa di oggi”) NON EMETTA UN SUONO CANTATO A LEZIONE, ma si limiti di tanto in tanto ad ‘accennare’, lascia, eufemisticamente parlando, di stucco…
In questa lezione, tenuta da Melocchi non a Del Monaco (come indicato erroneamente nel titolo del video) ma a Limarilli, si rimane innanzitutto stupefatti dalla modalità di emissione dell’ allievo in questione: una modalità spinta e pesante, ma evidentemente approvata da Melocchi, che a riguardo non eccepisce nulla. In particolare, a partire dalla zona medio-acuta della voce tutti gli attacchi del suono risultano duri e questa durezza porta indubitabilmente il ‘marchio Melocchi’, essendo esattamente la stessa usata da Del Monaco negli ‘esercizi laringei’ da lui esemplificati nel video con Gregoretti (vedi sopra). Date queste premesse, non ci si meraviglia se poi l’ allievo accusa segni di raucedine, raucedine incredibilmente spiegata da Melocchi con queste parole: “la raucedine è dovuta al fatto di puntare su una profondità, che non è stabile ancora” (sic). In altre parole, la raucedine non sarebbe la conseguenza del fatto che questa profondità è realizzata come grossolano AFFONDAMENTO della voce (per eccesso di corposità) invece che come belcantistico GALLEGGIAMENTO sulla profondità, bensì, paradossalmente, del fatto che essa era ancora insufficiente. Il discorso tecnico-vocale di Melocchi insomma è tutto incentrato sulla quantità invece che sulla qualità del suono, sull’ ingrossamento sistematico del nucleo del suono (che nel suo trattato anche AURELIANO PERTILE raccomanda di non ingrossare mai), sulla modalità meccanica esterna con cui suscitare il fenomeno (“apra di più la bocca e prema in giù!”), invece che sui suoi aspetti senso-motori, che ne sono la vera causa. In questo modo Melocchi si mostra totalmente sordo alla qualità estetica e tecnico-vocale non solo degli attacchi del suono dell’ allievo, che, appena lasciata la zona centrale della voce, risultano tutti vistosamente duri, pesanti e ingrossati, ma anche delle note acute, che vengono tutte riappoggiate meccanicamente, invece che nascere sull’ onda di energia delle note precedenti. Questo ricreare DIRETTAMENTE il suono ad ogni nota (che Melocchi definisce “fare sì che la gola articoli tutte le note”), invece di lasciare che questo avvenga naturalmente, ossia in automatico, è ciò che rende impossibile il crearsi del fenomeno del legato, inconveniente a cui l’allievo cerca di ovviare ricorrendo a un vistoso portamento per collegare la seconda e la terza nota più alta di ciascun vocalizzo, espediente che però può dar luogo al massimo a un ‘incollamento’ esterno dei suoni, il quale però non ha nulla a che fare con quel collegamento intimo, ‘centrale’ dei suoni, che caratterizza invece il vero legato.
In conclusione, da questa registrazione appare chiara la concezione su cui si basa la presunta ‘nuova tecnica vocale’ dell’affondo: l’ ignoranza totale della distinzione tra, da una parte, il nucleo del suono, tramite il quale si attua il processo di sintonizzazione, e, dall’ altra parte, lo spazio ampio che lo circonda e che gli dà rotondità, da cui il sistematico ingrossamento del nucleo, che in questo video l’ allievo è indotto da Melocchi ad attuare (appena lasciata la zona centrale) per cercare spazio e rotondità nel posto sbagliato, e il conseguente effetto di continua distorsione del suono tramite uno ‘scavo’ artificiale, che blocca i micro-movimenti automatici dell’ articolazione-sintonizzazione naturale del suono, sostituiti da una rozza manovra meccanicistica, che Melocchi definisce “articolare nota per nota”, manovra che è l’ equivalente del disattivare il servo-sterzo di una macchina per muoverlo meglio e con maggiore ‘professionalità’. Se pensiamo che questo video (che per chiunque abbia orecchie per sentire rappresenta una vera e propria prova regina, o pistola fumante, a carico dell’ insegnante) non è stato pubblicato dai nemici dell’ affondo, ma dai suoi sostenitori, non possiamo non ribadire che uno dei segni distintivi della forma mentis denominata ‘affondo’ è l’ autismo conoscitivo. Esso si esprime, tra le numerose altre, con le seguenti perle: i fautori dell’ affondo sono a corto di cantanti da inserire nel loro catalogo di Leporello? Sì. E allora loro ci aggiungono anche cantanti che non c’entrano nulla con l’ affondo, come Caruso e la Tebaldi, oppure che con l’ affondo c’ entrano poco come Corelli, il quale ebbe sì una breve sbandata per l’ affondo, definendolo (in senso positivo!) “canto di laringe”, ma poi (come fece Mario Del Monaco) alla fine della sua vita provvide a liquidarlo con queste parole: “Il suono scuro di Melocchi vuol dire pesantezza. A Mario Del Monaco è riuscito benissimo” (perché, aggiungiamo noi, in realtà Del Monaco a un certo punto incominciò a pensare a NON affondare…) “ma agli altri?” (citazione testuale, tratta dal video di YouTube intitolato “Franco Corelli – Last words on singing”).
Il ‘finale di partita’ di Melocchi fu abbastanza triste. La sua domanda di riassunzione, inviata al Ministero della pubblica istruzione, non ebbe risposta. Nonostante questo, fu riassunto ugualmente, grazie all’ iniziativa del presidente della fondazione Rossini, ma per soli due anni e con stipendio decurtato. Dopodiché andò in pensione, continuando a dare lezioni private, lezioni per altro scarse di numero se Melocchi, notoriamente orgoglioso, fu costretto ad accettare periodici aiuti in denaro da parte di Mario Del Monaco per tirare avanti. Nelle lettere di ringraziamento, da lui inviate a Del Monaco e alla moglie, troviamo frasi come “sono rimasto stupefatto e istupidito da tanta generosità”, “ancora oggi non saprei come dimostrare la mia riconoscenza” e “dirò solo che Dio vi benedica entrambi!”, espressioni che, sproporzionate come sono rispetto all’ entità della somma elargita in quell’occasione da Del Monaco (l’equivalente odierno di 750 euro), ci danno il senso dello stato di indigenza in cui Melocchi visse nei suoi ultimi anni e allo stesso tempo ci trasmettono l’ amarezza dell’insegnante che vorrebbe ancora risultare utile, se non fosse che ormai l’ allievo prediletto da tempo ha preso le distanze da lui. Ecco allora un’ intera pagina di una lettera di Melocchi, spedita alla moglie di Del Monaco, fatta di consigli tecnici ‘ipotetici’ (l’ ipotesi essendo ‘se Del Monaco andasse ancora a lezione da lui’), consigli tecnici basati sulle solite fissazioni foniatriche della laringe bassa, del palato molle alto e della “mascella che articola”:
“Dica a Mario che tenti, che anzi DEVE tentare la mezza voce, ma a laringe bassa e palato molle alto e che non cada mai durante la sillabazione.” “La scuola mia (laringe bassa), gli diede la più forte e bella voce del teatro lirico mondiale.”
Naturalmente, in mancanza dell allievo, la lettera non poteva che sfociare tristemente nel topos del’ ‘ubi sunt’ ovvero del “dove sono i bei momenti?”, tipico degli amanti non corrisposti, e nelle autogiustificazioni nella speranza di ricostruire un rapporto:
“Se alcune volte l’ ho bruscamente sgridato nei miei scritti, gli è perché così…. Dove sono andati a finire…. (omissis)? Questo è ciò che mi rattrista e m’ imbestialisce. Non sarebbe male (tutt’ altro!), se almeno una volta all’ anno un cantante intelligente passasse otto o dieci giorni con il Suo Maestro”.
Il sogno di Melocchi era destinato a rimanere frustrato, dato che Del Monaco non sarebbe più tornato a lezione da lui: da anni ormai aveva capito che, come in seguito scriverà nella sua autobiografia, dal metodo dell’ affondo e dal suo ‘inventore’ bisognava stare a distanza di sicurezza, se si voleva sopravvivere vocalmente. Se adesso passiamo ai moderni sostenitori del metodo Melocchi, rimane un fatto ironico la loro insistenza nel mantenere come sua denominazione ufficiale il termine ‘affondo’, che suona a tutti gli effetti come un beffardo ‘nomen omen’ o iettatoria e autolesionistica ‘profezia che si autorealizza’. L’ aspirazione dei cantanti infatti è sempre stata quella di ‘volare’ o, per lo meno’, di ‘galleggiare’. Qui invece ci troviamo di fronte a gente il cui ideale è ‘affondare’, il che è come se qualcuno avesse l’ idea di dare alla propria compagnia aerea la denominazione ‘Precipizio’ o alla propria società di investimento finanziario la denominazione ‘Fallimento S.p.a.’ Per spiegare questo fatto singolare occorre risalire all’ errore cognitivo originario, genetico, culturale dell’ affondo, errore che consiste nell’ignorare ciò che ormai è un dato acquisito dalla scienza moderna: la struttura della realtà è fatta più di vuoto che di pieno. Questo sia a livello macroscopico che microscopico. In altre parole ormai tutti sanno che anche una statua di marmo, che sembrerebbe la manifestazione oggettiva della compattezza, della solidità e della stabilità, non è in realtà che un vorticare di elettroni in uno spazio vuoto. Analogamente anche il suono cantato più potente, che sembrerebbe un condensato di corposità e consistenza, in realtà, se prodotto in base ai principi della tecnica vocale italiana (che NON è quella dell’affondo e neppure quella della maschera), ha idealmente la struttura di un atomo, il quale esternamente appare qualcosa di compatto, mentre invece è un vuoto con al centro un quantitativo minimale di materia, chiamato nucleo, la cui massa ha, con lo spazio che lo circonda, lo stesso rapporto dimensionale di quello esistente, rispettivamente, tra una briciola di pane e un campo da tennis. In effetti la semplice nozione moderna di energia nucleare avrebbe dovuto essere sufficiente a dissipare l’ ingenua, vecchia credenza, condivisa dall’affondo, nell’ esistenza di un rapporto tra l’ energia e la potenza, da una parte, e la massa e la pesantezza, dall’altra. È chiaro insomma che, come già avevano intuito due secoli fa i belcantisti, il vero suono GRANDE (a differenza del suono GROSSO) è un suono con un nucleo piccolo e uno spazio ampio che lo circonda, e che questo spazio ampio è uno spazio vuoto e non pieno.
Attualmente l’ attuale diffuso regresso della didattica vocale alla materialità più angusta, paradossalmente spacciata per ‘scientifica’, si manifesta anche con la permanenza di tecniche come l’ affondo. Insomma l’abbaglio preso dall’ affondo, metodo che ambirebbe a presentarsi come il ‘turbo’ della voce (quando ne è invece la zavorra), è qualcosa che potrebbe avere come suo equivalente logico l’ idea di varare un transatlantico, avendo preventivamente riempito di piombo tutti i suoi spazi vuoti per renderlo più ‘resistente’. La valorizzazione della ‘massa’, tipica dell’ affondo, invece che dell’ energia immateriale, tipica della tecnica belcantistica, è lo zoccolo duro che accomuna tutte le forme di affondo e si esprime anche nel nome del metodo, ‘affondo’, che nonostante tutte le critiche, come abbiamo visto, è stato significativamente mantenuto inalterato dai suoi fautori, proprio perché esso allude al fondamento e al senso profondo di questa tecnica vocale: l’ idea di andare nella zona bassa, grave, compatta della voce per trovare là quella corposità e quello spessore del suono, tradizionalmente chiamato ‘petto’, con cui poi creare anche gli altri suoni della gamma vocale in modo che abbiano la stessa ampiezza e lo stesso peso. Con questa idea, che Marcello Del Monaco ha testualmente espresso con la frase sintetica “ricerca delle risonanze di petto tramite l’ affondo della laringe e del diaframma”, il metodo dell’ affondo mostra non solo di confondere il concetto di ‘registro’ col concetto di ‘risonanza’, mescolando arbitrariamente tra loro un fenomeno laringeo (il registro “di petto”) con un fenomeno risonanziale, ma anche di ignorare la distinzione tra ‘altezza risonanziale’ (che nel canto rimane sempre invariata e che è rappresentata dal senso del galleggiare sulla profondità senza mai ‘affondare’) e base respiratoria (che agisce come ‘molla’ che ammortizza i dislivelli e rende omogenea l’ emissione). In questo senso col metodo dell’ affondo è come se i passeggeri di una macchina fossero invitati a tenersi aggrappati ai sedili (per non essere sbalzati fuori) perché qualche cretino, bloccando gli ammortizzatori, li ha trasformati in amplificatori d’urto. Può stupire il fatto di ritrovare sia nella tecnica belcantistica sia nella tecnica dell’ affondo lo stesso concetto di ‘suono di petto’, ma la differenza, fondamentale, tra le due concezioni è questa: che l’ affondo ne fa la sostanza, il centro e il senso del suo approccio al canto, mentre la tecnica del belcanto, basata sull’ osservazione concreta della realtà e non sulle teorizzazioni pseudo-scientifiche, NON ne fa un principio estetico e tecnico-vocale che valga per tutta la gamma vocale, ma lo considera come la semplice modalità con cui affrontare le SOLE note del registro grave, con il conseguente obbligo tassativo di ‘passare’ a un’altra modalità di emissione GIÀ NELLA ZONA CENTRALE DELLA VOCE, che invece nell’affondo è oggetto di un’ operazione di ‘irrobustimento’ artificiale del suono, effettuato estendendo disastrosamente a questa zona della voce e persino a quella superiore, la corposità caratteristica della zona grave della voce.
Abbiamo parlato di ‘osservazione concreta della realtà’ a proposito del metodo belcantistico e di ‘teorizzazione pseudo-scientifica’ a proposito dell’affondo. In effetti il paradosso è questo: il metodo belcantistico, nato da una cultura basata sull’osservazione e il rispetto della natura, dimostra di essere molto più ‘scientifico’ (nel senso di conoscenza obiettiva, nata dall’esperienza concreta, del fenomeno reale) rispetto all’ affondo, che invece è il classico prodotto di laboratorio (foniatrico) e quindi si basa su teorizzazioni astratte, che sono avulse sia dalla realtà concreta, sia dalla moderna ricerca scientifica, la quale da tempo non crede più all’ esistenza della cosiddetta “risonanza di petto”. Esiste anche un secondo paradosso, risultato delle aporie logiche in cui è avviluppato questo metodo: avendo affossato la voce nel modo sopra spiegato, gli affondisti a un certo punto, per ridare un po’ di brillantezza alla voce, sono stati costretti non solo a recuperare determinati concetti dal metodo antitetico della ‘maschera’ (come il ‘giro in avanti’, la ‘proiezione’ e la concentrazione del suono in un punto collocato nel palato duro), ma anche a rinnegare implicitamente l’ unica intuizione valida dell’affondo e cioè che la rotondità del suono è qualcosa che deriva non da una qualche mitica e fantastica cavità di risonanza nasale e/o paranasale, ma, puramente e semplicemente, dalla GOLA, e si sono uniti al folto gruppo di quelli che vedono nella gola un pericoloso terreno minato, da cui stare distanti.
Antonio Juvarra
Ma di tutto questo non c’è da stupirsi: una delle imprese umane più disperate infatti rimane quella di cercare di convincere i fautori dell’affondo dell’esistenza di un’entità (a loro) aliena, che ha nome: logica della Realtà…
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