Antonio Juvarra – “Dizionario storico delle scemenze tecnico-vocali”

Con questo ricco e articolato glossario, Antonio Juvarra riassume e spiega tutti i termini della didattica vocale da lui chiariti e contestati fino ad oggi nell’ ambito dei suoi articoli mensili. Buona lettura a tutti e grazie come sempre ad Antonio per la collaborazione.

DIZIONARIO STORICO DELLE SCEMENZE TECNICO-VOCALI

ABBASSARE LA LARINGE: storica scemenza fisio-anatomica che fa da ‘pendant’ con la coeva scemenza fonetico-acustica dello “scurire la voce” (vedi la voce ‘timbro chiaro e timbro scuro’). L’ introduzione nel canto, avvenuta in Francia intorno al 1830, dell’ espediente meccanico dell’ abbassamento DIRETTO della laringe, rappresenta il (disastroso) debutto ufficiale della foniatria nella didattica vocale. L’ espediente venne salutato come la scoperta tecnico-vocale del secolo (quasi una sorta di geniale uovo di Colombo del canto) dai suoi autori, il cui pensiero sottaciuto (classico mix di ignoranza, pionierismo, ingenuità e ottusa presunzione) potrebbe essere espresso da questa domanda (retorica): ma come hanno fatto i belcantisti a non capire che per aprire la gola bastava abbassare la laringe? La giusta domanda che i ‘laringomani’ della foniatria francese dell’Ottocento, inventori di questa trovata, avrebbero dovuto umilmente porsi, è invece un’altra: ma se i belcantisti italiani non si sono mai sognati di ricorrere a manovre muscolari grossolane come questa per portare il canto all’eccellenza ineguagliata a cui l’avevano portato, non è che per caso la nostra trovata sia superflua se non nociva?. In effetti la natura di questo e dei successivi interventi della foniatria nell’ ambito della didattica vocale rimarrà sempre, irrimediabilmente e fatalmente, quella dell’ elefante che entra nella cristalleria. Che cosa fa del tocco dei foniatri quella funesta zampata dell’ elefante che manda in frantumi il cristallo del canto? L’idea utopistico-naive, vero e proprio marchio di Caino del pensiero foniatrico nonché paradossale bestemmia fisiologica, secondo cui ricorrendo ad azioni muscolari dirette e localizzate, si otterrebbe come risultato un controllo più preciso della voce. Qual è in questo caso il cristallo fatto a pezzi dallo zampone foniatrico? È lo spazio di risonanza del vero canto, quale può essere percepito e creato dal cantante solo se attinge alla risorsa del respiro naturale globale e non se ricorre alle trovate paleo-scientifiche delle azioni muscolari dirette e localizzate. Questo spazio è naturalmente sferico (e non cilindrico) e include in sé anche la percezione della sua progressiva espansione (la “voce spiegata” dei belcantisti). Ora con la manovra meccanica dell’ abbassamento diretto della laringe (solitamente correlata con l’ idiozia simmetrica dell’ innalzamento diretto del palato molle) accade che questo spazio da sferico diventa tubolare, l’ espansione diventa allungamento verticale e questo è sufficiente a impedire che si crei il fenomeno della risonanza libera, tipica del canto di alto livello. Per farsi un’idea dell’ errore-orrore di una metamorfosi del genere, basti pensare per analogia a un’ altra sfera ideale, quella in cui spazia l’ uomo vitruviano di Leonardo da Vinci, e immaginare che cosa succederebbe se quello spazio sferico lo trasformassimo in un cilindro, cioè appunto in un tubo verticale: l’ uomo si ritroverebbe subito letteralmente ‘imbottigliato’, le sue braccia non potrebbero più evocare l’ apertura alare degli esseri che volano, ma dovrebbero rimanere o sollevate in alto in atto di tragica resa, o reclinate desolatamente in basso, come accade agli ammanettati e ai reclusi in spazi claustrofobici. Ebbene, questo è il simbolo del destino che attendeva gli esseri che canta(va)no, all’ indomani dell’invenzione dei tubi vocali verticali da parte della foniatria.

AFFONDO: altro nefasto prodotto foniatrico DOC, risalente agli anni Trenta del Novecento. Il termine è l’ abbreviazione della denominazione originaria completa, che è “affondo della laringe e del diaframma”. Alla base di questa doppia scemenza c’è un’idea ingenua, che è la seguente: se oltre alla laringe abbasso direttamente anche il diaframma, divento ancora più ‘scientifico’. Il marchio “affondo” (non l’ idea, che non è sua) è riconducibile a un maestro di canto di provincia, di nome Arturo Melocchi, significativamente cacciato per incapacità dalla cattedra di canto del Liceo Musicale di Pesaro niente di meno che da Umberto Giordano, cioè proprio da uno dei compositori più eminenti di quell’ opera verista, di cui l’affondo pretenderebbe comicamente di essere la tecnica vocale ‘filologica’. Melocchi assurse a notorietà per essere stato (per poco più di un anno!) il maestro di Mario Del Monaco, prima che quest’ ultimo decidesse di mettere sopra questa ‘tecnica’ una perfetta pietra tombale con la sua famosa frase, che ha il valore di una sentenza,: “se si vuole cantare e si vuole resistere, tutto quello che ha detto Melocchi bisogna cancellarlo e fare il rovescio di quello che ha detto lui” (citazione testuale). Quella di Melocchi infatti è una ‘tecnica’ che si basa sulla teoria demenziale secondo cui facendo ululati sulla ‘U’ con la laringe abbassata al massimo fino ad arrivare all’ afonia e rimanendo poi in silenzio per qualche giorno, la voce poi magicamente risorgerebbe dall’ afonia con accresciuto ‘squillo’ e le corde vocali si irrobustirebbero. L’ affondo capovolge quindi molto intelligentemente la formula tradizionale del belcanto ovvero: non più il saggio “cantare sugli interessi e NON SUL CAPITALE della voce” di Giambattista Rubini, ma il foniatrico “cantare sul capitale della voce e NON SUGLI INTERESSI” di Arturo Melocchi. È opportuno ricordare che la ricetta base dell’ affondo, e cioè “abbassare direttamente la laringe oscurando la voce”, non fu inventata da Melocchi, ma da Manuel Garcia jr. un secolo prima. Melocchi di suo ci aggiunse soltanto un drastico peggioramento con l’introduzione di tre idee farlocche, che sono allo stesso tempo anti-fisiologiche, anti-acustiche e anti-belcantistiche: 1 – l’ idea che lo spazio che dà rotondità al suono vada cercato in basso; 2 – l’ idea che la corposità del suono equivalga a potenza del suono invece che a zavorra del suono; 3 – l’ idea che con gli ululi ‘afonogeni’ le corde vocali si irrobustiscano (invece che, come in realtà accade e come il buon senso suggerisce, distruggersi).

AVANTI: scemenza di segno opposto a quella dell’ affondo, il suono ”avanti’, se inteso con un’ accezione esclusivamente positiva, porta presto all’ assolutizzazione della dimensione frontale della risonanza e alla ‘schizofonia’, ovvero alla scissione dell’ unità inscindibile del ‘chiaroscuro’ belcantistico nei due spezzoni artificiali del timbro ‘chiaro’ (o ‘avanti’) e del timbro ‘scuro’ (o ‘indietro’) (vedi), scissione perpetrata intorno agli anni quaranta dell’ Ottocento dal già citato Manuel Garcia jr. Una volta spezzata l’ interrelazione armonica esistente tra ‘chiaro’ e ‘scuro’, ‘avanti’ e ‘indietro’, su cui si basava la tecnica del belcanto, l’ assolutizzazione dell’ avanti determina ipso facto la demonizzazione del polo opposto, l’ ‘INDIETRO’ (vedi) e la conseguente riduzione del suono da tridimensionale a bidimensionale, ovvero ‘piatto’. È a questo punto che si entra direttamente nella dimensione comico-surreale: infatti la gola, da normale cavità di risonanza qual era secondo il belcanto, ben presto diventa la Gola, malefica entità metafisica, da cui è di vitale importanza stare a distanza di sicurezza. L’ impresa del bravo cantante consisterà allora nel saltarla, previo un opportuno ‘giro’ (vedi) del suono o del ‘fiato’, che gli dà l’ illusione di approdare al paradiso della “maschera’ (vedi), dove finalmente sarà salvo. Come nel gioco delle tre carte, il miraggio rappresentato dalla (inesistente) cavità di risonanza della maschera, serve in realtà a nascondere il vero scopo del fantomatico ‘giro in avanti’ del suono: infatti, arretrando per prendere la rincorsa e fare il ‘salto della gola’, succederà che, senza averlo voluto ufficialmente, la gola si aprirà quel minimo che impedisca al suono ‘avanti’ di apparire per quello che è: un suono a due dimensioni, ovvero ‘piatto’, alias ‘schiacciato’.
C’ è infine chi, particolarmente nevrotico, non si accontenta di fare in modo che il suono sia ‘avanti’ e non ‘indietro’. Infatti, per quanto ‘avanti’, sul palato duro, il suono è pur sempre dentro, il che significa che facilmente può essere contaminato dalla vicinanza con la malefica Gola. Meglio quindi essere prudenti e per sicurezza teorizzare non il suono ‘avanti’, ma il suono ‘fuori’. Anzi, per maggiore cautela è meglio convincersi che il suono deve nascere già ‘fuori’ e che persino la pronuncia debba svolgersi ‘fuori’ (???). Di fronte a un delirio del genere una cosa si può affermare con sicurezza: che l’idea che i bambini nascano portati in volo dalla cicogna, appare in confronto come il non plus ultra del realismo e della concretezza. (E c’è chi la chiama ‘arte del canto’ questa ‘faringofobia’, portata alla paranoia).

COLPO DI GLOTTIDE: il ‘colpo di glottide’ è uno dei tanti colpi di testa di Garcia, da lui tragicomicamente scambiati per colpi di genio. Il ‘senso’ del concetto di colpo di glottide è paragonabile, nei casi più gravi, a quello di un tizio che per accendere un computer, teorizzasse che bisogna dargli una martellata, e, nei casi meno gravi, a quello di un tizio che girasse la chiavetta di accensione della sua automobile per mettere in moto un motore già acceso. Ancora più grottesca e criminale del concetto di colpo di glottide è la spiegazione che ne darà Garcia nel suo trattato e che così recita: “si prepari il colpo della glottide col chiuderla momentaneamente. Questa operazione arresta e accumula l’ aria in quel posto, poi, come se per mezzo di una molla si schiudesse d’un tratto un’uscita, la si apra mediante un colpo secco e vigoroso.” (sic). Che cosa c’entri tutto questo col canto non è dato sapere. È dato sapere invece con certezza che questa manovra demenziale dell’ ANTI-CANTO è l’ embrione da cui deriveranno sia i “fondi” laringei di Melocchi, sia le “figure obbligatorie” della Estill. Occorre ricordare in proposito che al tempo di Garcia questa trovata nefasta suscitò le sacrosante reazioni dei cantanti pensanti, che si riunirono addirittua in un comitato, capeggiato dal baritono Victor Maurel (il primo Jago e il primo Falstaff di Verdi), il quale organizzò una serie di conferenze in tutta Europa per mettere in guardia i cantanti contro questo attentato alla voce. Purtroppo la mente di Garcia (non illuminata, ma fulminata sulla via della Scienza…), non si lasciò visitare dal minimo dubbio circa l’ efficacia della sua trovata, tanto che fino alla morte (che lo colse centenario) continuò tranquillamente a riproporla in tutto “l’ universo e in altri siti” (come direbbe un famoso “dottore” operistico, suo collega in ciarlataneria) con i deleteri effetti pandemici che ancora oggi i cantanti subiscono. Il tentativo sgangheratamente utopistico di Garcia di riprodurre razionalmente (ovvero facendone la mera caricatura esterna) quel fenomeno meccanicamente irriproducibile della fonazione umana, che è l’ AUTO-AVVIO del suono per concepimento mentale im-mediato (automatismo naturale cui i belcantisti avevano dato il nome di “suono franco” e “suono pronto”) si rivelò ben presto per quello che era: un parto mostruoso del dott. Frankenstein. Al netto dei sogni di gloria scientifica di Garcia, il grado di sprovvedutezza e infantile presunzione di chi lo concepì è paragonabile a quello di un bambino che per fare luce in una stanza, invece di aprire le imposte e far entrare i raggi del sole, sperasse di illuminare la stanza disegnando su un foglio di carta un sole giallo.

COPERTURA: Parigi, anno 1840: in contemporanea viene pubblicato il trattato del ‘diversamente foniatra’ Manuel Garcia jr. e all’ Accademia delle Scienze (o, più precisamente, Tempio della religione della Scienza), viene presentata la relazione dei foniatri ‘tout court’ Diday e Petrequin, intitolata “Une nouvelle espèce de voix chantée”. Quale sarebbe questa fantomatica “nuova specie di voce cantata”? Nient’ altro che, secondo la definizione testuale degli autori, la “voce oscurata, coperta, dentro.” (sic). La distanza tra l’ antica “vox alta, clara, suavis” di Isidoro da Siviglia e Guido d’ Arezzo, con la sua “natural chiarezza e facilità” (Mancini), e l’ obbrobrio della “voce oscurata e coperta” di Diday e Petrequin rimane ovviamente abissale. La “copertura” nasce quindi come sinonimo di oscuramento, procedura farlocca attuata da Garcia sia con mezzi diretti, abbassando direttamente la laringe (“tenuta fissa e bassa” secondo le sue testuali parole) e alzando direttamente il palato molle, sia con mezzi indiretti, mescolando (rectius contaminando) le vocali anteriori con le vocali posteriori. Col tempo la sinonimia copertura/oscuramento si sarebbe ampliata, inglobando in sé anche il meccanismo del passaggio di registro, per cui ancora oggi il 90 % dei maestri di canto è convinto erroneamente che per effettuare il passaggio occorra scurire il suono, invece che chiudere foneticamente la vocale (vedi ‘suoni coperti’). A questo punto, se qualcuno avesse la curiosità di conoscere il motivo dell’ attuale, incredibile diffusione delle voci intubate tra i cantanti lirici, troverebbe subito qui la spiegazione.

CORDE VOCALI: le due minuscole strisce di carne, note come “corde vocali”, in epoca di idolatria scientifica come la nostra, non potevano non diventare oggetto di un culto particolare. Eccole quindi campeggiare ovunque (nei trattati di canto, nei convegni di “foniatria artistica”, nei siti internet sul canto, nelle bacheche facebook, ecc.) a significare che è attorno ad esse che ormai viene fatto ruotare (tristemente) il discorso riguardante il canto. Sembrerebbe un paradosso della comicità involontaria: da entità per natura incontrollabili direttamente e invisibili (segno evidente che il loro controllo, indiretto, è stato concepito dal Creatore in funzione della loro invisibilità, al contrario di quanto succede con gli strumenti musicali), le corde vocali sono ormai diventate le divinità del canto, cui vengono tributati veri e propri riti ‘scientifici’ di ostensione, come succede col sangue di S. Gennaro…

DIAFRAMMA: in un’ epoca come la nostra, che basa lo studio del canto sulle vivisezioni vocali, il ‘re della respirazione’ non poteva non diventare un muscolo (anch’ esso invisibile!), il cui nome (diaframma) significa etimologicamente “separazione”. L’ idea (a cui naturalmente non corrisponde alcuna percezione!) che inspirando il diaframma si abbassi, è, ai fini dell’ apprendimento del canto, una mera astrazione scientifica. Il problema è che non si tratta di un’ astrazione scientifica innocua, dato che essa si contrappone al vissuto sensoriale (che è quello con cui il cantante crea il canto), vissuto sensoriale che invece ci dice che l’inspirazione, lungi dall’ essere un movimento di abbassamento, è invece un momento di DISTENSIONE-ESPANSIONE-ELEVAZIONE. In questo modo il concetto, meramente razionale, del diaframma che si abbassa in fase inspiratoria, tarpa letteralmente le ali della respirazione naturale globale, che è quella che rende possibile il vero canto. Esso infatti inverte letteralmente i due momenti della respirazione, facendo dell’ inspirazione un movimento discendente e dell’ espirazione un movimento ascendente. Con la creazione di questa surreale onda del respiro, che prima scende e poi sale (e non viceversa!), la foniatria ha reso impossibile sul nascere la creazione del mitico “canto sul fiato”, che invece presuppone ed esige che l’ avvio del suono avvenga appunto ‘sul respiro’, cioè sulla fase discendente, espiratoria, dell’ onda del respiro. Per secoli i cantanti hanno cantato senza sapere nulla dell’ esistenza del ‘diaframma’. Si può dire pertanto che la moderna teoria farlocca che il diaframma, muscolo impercepibile e incontrollabile direttamente, sia fondamentale nello studio del canto, ha come suo equivalente surreale, giusto per dare un’ idea, la convinzione che l’apprendimento del violino debba basarsi sullo studio del… ponticello. Purtroppo neppure questa riflessione fa sorgere nei moderni maestri ‘scientifici’ del diaframma e degli sfinteri, alcun dubbio che faccia loro prendere coscienza della natura di ‘sarchiapone’ muscolare che ha il fantomatico feticcio scientifico, denominato ‘diaframma’.

FIGURE OBBLIGATORIE: espressioni del comico-demenziale allo stato puro, le “figure obbligatorie” sono le varie manovre muscolari dirette di cui sono stati fatti oggetto gli organi del corpo (in primis la laringe) per realizzare il canto. Come sempre succede coi meccanicisti ‘scientifici’, anche l’ inventrice di queste eclatanti scemenze, Jo Estill, non fu mai sfiorata dal dubbio che gli esseri umani non ‘funzionino’ e non si possano trattare come marionette. O forse lo fu, ma il fiume di denaro che fruttò alla sua inventrice questa trovata fu il fattore che probabilmente la convinse che, se è vero che solitamente gli esseri umani non amano essere trasformati in marionette, è anche vero che molti studenti di canto invece non aspettano altro.

GIRO: fantomatico numero da circo che dovrebbe fare il suono per accedere alla zona acuta. Come riesca a realizzare il detto numero un fenomeno come il suono, che non è un oggetto, rimane un mistero ‘scientifico’, ma pare che per la maggior parte dei maestri di canto questo non costituisca un problema. Ne sa qualcosa una inventrice di nuove tecniche vocali di origine israeliana che, facendo un (gradito) omaggio alla lingua italiana (ma purtroppo non al canto italiano), ha brevettato la cosiddetta “GIRO vocal motion technique”, scatenando un contenzioso con una collega rumena che invece ha inventato il ‘giro all’ indietro’ del suono, noto anche come salto Fosbury della voce, dalla stessa denominato anche “deglutizione del suono.” (?!). Maggior aderenza alla realtà dimostrano quegli studiosi del canto che mettono in rapporto l’ illusione percettiva del ‘giro della voce’ con il movimento di inclinazione in basso della cartilagine tiroidea, che interviene nel passaggio al registro acuto delle voci maschili. Questo micro-giro interno, fisiologico, associato alla percezione di un cambiamento della dimensione del suono (più fluido e ‘flautato’), qual è suscitato dal passaggio di registro, è l’ embrione che ha dato origine (con l’effetto-amplificazione proprio di tutte le leggende) al mito del grande giro ‘esterno’, giro che in base a certe ‘tecniche’ esigerebbe addirittura la circumnavigazione della nuca per approdare alla meta e che verrebbe facilitato ruotando in basso la testa come fa il toro quando sta per caricare il torero.

GLOTTIDE: nome assunto dalle parti intime della dea Laringe, quando viene fatta pubblicamente oggetto degli atti di voyeurismo ‘scientifico’ dei “foniatri artistici”. In convegni, conferenze o masterclass, l’ esibizione della vulva glottidea è una performance che fa sempre colpo sul pubblico dei suoi adoratori ‘scientifici’. Che l’ oggetto dei loro desideri inconsci sia in realtà un altro organo del corpo che gli assomiglia vagamente, rimane per altro un sospetto più che fondato.

GNAGNERA: termine onomatopeico utilizzato per indicare uno speciale tipo di articolazione ‘nasalizzata’, che dai belcantisti sarebbe stata liquidata come “vizio orribile”, mentre in epoca di SOVTE (vedi) e di ‘twang’ (vedi) viene invece considerata dai suoi cultori come un ottimo espediente per portare il suono ‘in maschera’ (vedi) e conferirgli squillo.

GOLA: nota anche come faringe e, anticamente, come ‘gorga’ e ‘garganta’, la gola indicava, per persone psichicamente normali come i belcantisti, una delle uniche DUE cavità di risonanza REALI della voce cantata e specificamente quella in grado di conferire al suono la rotondità e la spaziosità, tipiche del canto. Tenuto conto che l’ altra delle due cavità di risonanza, la BOCCA, è quella che già interviene nel parlato (da cui i termini ‘or-azione’ e ‘orale’), se ne deduce che paradossalmente il fattore che fa la differenza e crea il canto, è la cavità della Gola. Questo è il motivo per cui gli antichi (che non si perdevano nelle astrazioni intellettualistiche, ma amavano la concretezza) non pensavano al canto come a un “cantare in maschera”, bensì come a un “cantare di gola”, tanto da intitolare così, “Sul cantar di gorga” appunto, il più antico scritto sul canto dell’Europa moderna (Autore: Camillo Maffei di Solofra, anno: 1565). Al contrario, i moderni ‘borderline’ psichici del canto preferiscono immaginare che a creare il canto non sia l’ ”accordo” (Mancini) tra due cavità di risonanza reali come la gola e la bocca, ma sia la fissazione mentale di una cavità fantastica com’è appunto la ‘maschera’. Di qui le moderne connotazioni negative riservate ai termini ‘gola’, ‘ingolato’ e ‘indietro’. Purtroppo far capire a chi ha il terrore del Babau della gola che la gola è un normalissimo organo del corpo come un altro e che i problemi nascono non dalla gola in sé, ma dal fatto di non aprirla o aprirla male, è la classica ‘missione impossibile’. C’ è anche chi consiglia “di cantare non di gola, ma di fiato”, dimostrando con ciò lo stesso acume intellettuale di chi, a quelli che camminano coi piedi divaricati, desse il geniale consiglio: “camminate non di piedi, ma di gambe!”.

INDIETRO: sinonimo di ‘ingolato’ (vedi) e contrario di ‘avanti’ (vedi).

INGOLATO: termine che fa riferimento a due situazioni opposte, rappresentate dalla gola aperta male perché aperta rigidamente, e dalla gola chiusa e contratta. Non esistendo un termine simmetrico per indicare l’ uso scorretto del polo opposto della voce (quello frontale), termine che potrebbe essere, che ne so, suono ‘imboccato’ o ‘di bocca’, il termine ‘ingolato’ denota ed esalta un ‘fatal error’ logico nello studio del canto, quello che vede nella gola una sorta di terreno minato da cui star lontani, col doppio risultato negativo di precludersi la possibilità di imparare come aprirla correttamente, e di cadere nella tentazione di rifugiarsi in cavità fantastiche come la ‘maschera’ per realizzare la rotondità del suono.

LABBRA PROTRUSE O A IMBUTO: tra le tante idee geniali prodotte dal pensiero foniatrico applicato al canto, c’ è anche quella che prescrive la protrusione delle labbra. Da dove è scaturita storicamente questa scemenza? Avendo sostituito lo spazio di risonanza sferico (la “voce spiegata” ed “espansa” dei belcantisti) con quello verticale dei “tubi sonori” di Garcia, ben presto ci si accorse che questa forma di spazio presentava due inconvenienti: la riduzione dello spazio totale di risonanza e la riduzione della brillantezza naturale della voce. E’ a questo punto che scatta il caratteristico riflesso condizionato del pensiero foniatrico, che consiste non nel buttare a mare l’ipotesi dimostratasi farlocca, ma nel metterci una pezza. Di qui le labbra a imbuto come espediente per aumentare lo spazio di risonanza “allungando il padiglione acustico” e per concentrare nel contempo il suono. Ipotesi ermeneutica sussidiaria: avendo schiacciato e schiarito artificialmente il suono con la fissazione del suono ‘avanti’ (vedi), l’ allungamento del padiglione acustico tramite la protrusione delle labbra, diventa il mezzo più facile per compensare (ma non risolvere) il problema dello schiacciamento. Nota folkloristica: del tutto inspiegabilmente molti insegnanti per indicare questa posizione inflitta alla bocca, amano usare l’ espressione ruspante “bocca a culo di gallina” e l’ inspiegabilità di questa espressione riguarda sia il riferimento al culo (che non ci risulta presenti analoghe protrusioni se non, forse, in caso di emorroidi), sia la necessità della specificazione “culo di gallina”, che fa sorgere subito la domanda: e perché ‘culo di gallina’ e non, che ne so, ‘culo di scimmia’ o ‘culo’ tout court? (Misteri cognitivi di certi didatti del canto…)

LARINGE: la didattica vocale foniatrica è dominata dalla nevrosi laringea, nel senso che ha messo al centro dell’ universo del canto un’ entità, la Laringe appunto, che nella didattica belcantistica invece era beatamente ignorata. Il pensiero foniatrico si muove sempre ispirandosi a una logica, che in apparenza è la logica della realtà, mentre invece è solo la logica delle astrazioni scientifiche. Ora partendo da questa logica astratta è facile arrivare a conclusioni errate. Più precisamente, la constatazione del fatto (incontestabile) che senza la laringe non si potrebbe parlare né cantare e che il suono ha origine dalla vibrazione delle corde vocali ci porta facilmente alla conclusione, apparentemente ispirata al buon senso, di assegnare un’ importanza primaria a questo organo del corpo nello studio del canto, che è esattamente la logica che ha ispirato a Garcia la bislacca idea del “colpo di glottide”. Tuttavia chiunque sia nato sul pianeta Terra e non provenga dalla galassia Andromeda, sa perfettamente che l’ essere umano non percepisce il suono come qualcosa che parte dalla laringe, sale e poi raggiunge fantomatici bersagli ‘risonanziali’, ma come qualcosa che nasce ed è già NELLA BOCCA (da cui appunto i termini ‘or-azione’ e ‘orale’), motivo per cui è da questa origine sensoriale del suono che bisogna partire per poi espandere la coscienza dello spazio anche alla gola. A demolire del tutto il castello di teorie cervellotiche costruito dalla foniatria, contribuisce poi una semplice constatazione, attinta dalla realtà della fonazione umana: il controllo della posizione della laringe e della vibrazione delle corde vocali nel canto DEVE ESSERE UN CONTROLLO INDIRETTO, di tipo senso-motorio e immaginativo e non meccanico. Ogni controllo di tipo meccanico è infatti un controllo grossolano e inefficiente. Ecco perché il MEDICO Camillo Maffei di Solofra indicò come causa prima reale del suono cantato non la laringe e le corde vocali, ma la “POTENTIA IMAGINATIVA”, intesa come concepimento mentale immediato del suono. Ed ecco perché ben presto nel belcanto si affermò il paradosso della laringe, che funge da vero e proprio test dell’ emissione corretta: se cantando SENTI la laringe (alta, bassa o media che sia), vuol dire che stai cantando male. Il che significa che anche se, come effetto dell’ inspirazione naturale globale, oggettivamente si abbassa, essa deve sparire dall’ orizzonte percettivo del cantante, cioè non se ne deve sentire la localizzazione, esattamente come succede quando parliamo.

MASCHERA: la ‘maschera’ è quel sarchiapone o (se si preferisce una terminologia più antica) quell’ unicorno tecnico-vocale, che appare per la prima volta nel 1865 in un trattato di canto, dove però, sorprendentemente, viene presentato non come il magico amplificatore della voce, di cui molti ancora oggi fantasticano, bensì (colpo di scena!) come “uno dei principali DIFETTI della voce”. Il trattato di canto in questione è quello scritto non dal dott. Dulcamara, ma da Francesco Lamperti, definito “il più grande maestro del vero metodo italiano” dal soprano canadese Emma Albani. Si può affermare molto verosimilmente che chi per primo ebbe l’ idea della maschera (veneziana) per indicare quella dimensione del suono che anticamente era stata definita da Isidoro da Siviglia “vox alta”, non la considerava una sorta di segnalatore delle ‘risonanze’ della voce, ma un semplice simbolo spaziale, risultato della combinazione non di altezza e anteriorità (secondo l’ interpretazione attuale), ma di altezza e orizzontalità. Senza la moderna ossessiva ricerca, dunque, delle zone anatomiche frontali di maggior ‘vibrazione’ della voce, ricerca insensata che porta soltanto al canto spinto e ipertimbrato. Col tempo il concetto di “vox alta” subì un processo di degradazione materialistica fino a diventare, nell’ Ottocento, una precisa e concreta struttura a tre piani: il piano terra, cioè quello della cavità della bocca, destinato ad amplificare i suoni centrali della voce, il primo piano, cioè quello della cavità nasale, destinato ad amplificare le note medio-acute, e il secondo piano, cioè quello delle cavità paranasali, destinato ad amplificare le note acute. Questo in base a una ‘topografia delle risonanze’, immaginata da due famose maestre di canto dell’ Ottocento: Mathilde Marchesi e Lilli Lehmann. Nel giro di un secolo il castello farlocco della ‘maschera’ sarà destinato a crollare un pezzo dopo l’ altro. Il primo pezzo che crollerà sarà la cavità nasale, che per altro rimarrà incredibilmente ancora in piedi negli scritti e nelle affermazioni di alcuni grandi cantanti del Novecento come Aureliano Pertile, Giacomo Lauri Volpi e Alfredo Kraus (ma NON, significativamente, Enrico Caruso, che nel suo scritto sul canto non parla mai né di ‘maschera’ né di ‘risonanza nasale’). Oggigiorno i ruderi rimasti della costruzione a tre piani della ‘maschera’ otto-novecentesca si riducono al ‘piano terra’, quale è rappresentato dai concetti di “suono avanti”, “punto palatale delle risonanze” e “proiezione”. Si tratta di mere esteriorizzazioni illusorie, originate dal fatto di interpretare erroneamente le vibrazioni in determinate zone anatomiche non come meri riflessi materiali (quali in realtà sono), ma come causa di quella componente acustica che fa ‘correre’ il suono e che è la brillantezza.

MUSCOLI PELVICI: correlativi anatomici oggettivi della tendenza attuale del canto a scendere sempre più in basso (in tutti i sensi), i muscoli pelvici sono attualmente divenuti oggetto di un particolare interesse da parte di molti maestri di canto, tra cui un’ insegnante argentina, che collega l’ appoggio della voce alla minzione (sic), e un’ insegnante rumena, che invece ama ispirarsi a un’ altra nobile funzione del corpo: la defecazione. I maniaci dell’appoggio pelvico (ossimoro) dovrebbero fare uno sforzo per farsi entrare in testa due idee, attinte direttamente dalla realtà: quel fenomeno che ha nome appoggio (respiratorio) della voce e che è una delle cause che hanno determinato l’ eccellenza della scuola di canto italiana storica, ha il suo epicentro NON nella zona pelvico-ipogastrica (come hanno pensato le scuole di canto nordeuropee), ma in quella sterno-ipogastrica. Non introduciamo quindi scemenze nocive nel canto solo per essere ‘innovativi’, che sarebbe come allungare il busto e accorciare le gambe del David di Michelangelo per essere più moderni..

“MUTI”: noti anche come “vocalizzi a bocca chiusa” (vero e proprio ossimoro fonetico-acustico), si basano sulla geniale idea secondo cui la condizione del MU-TISMO (cioè del muto che fa MU perché non riesce ad articolare i suoni ovvero non è in grado di formare le VOCALI) dovrebbe suscitare il canto di alto livello, noto come belcanto, e agire da fattore di amplificazione della voce. Al giorno d’oggi i “muti”, così come i loro derivati, le “sirene” (vedi) e i “trilli labiali e linguali” (vedi), stanno dilagando a macchia d’ olio nello studio del canto e una possibile spiegazione della loro diffusione è la seguente: non sapendo più attaccare il suono in modo semplice e naturale, cioè per autoavvio immediato (il “suono pronto” dei belcantisti), e non sapendo più neppure respirare in modo che la gola si apra naturalmente, si utilizza l’ attacco del suono a bocca chiusa come stampella per far uscire il suono in modo esternamente ‘presentabile’, ottenendo però anche questi effetti collaterali negativi: 1 – la gola rimarrà chiusa; 2 – ci si abituerà a cantare soffiando attivamente l’ aria (invece che lasciandola fluire dolcemente, così come esige il vero canto); 3 – non si imparerà mai ad attaccare suoni vocalici, se non preceduti dalla stampella di una consonante. Nei trattati classici del belcanto non esiste traccia della pratica dei “muti” e a questo punto ci si dovrebbe chiedere perché. In mancanza di una spiegazione LOGICA sia del motivo per cui cantare a bocca chiusa dovrebbe facilitare il normale canto a bocca aperta (che sarebbe come pensare che esercitarsi a camminare sulle ginocchia faciliti la normale deambulazione sui piedi di chi sa già camminare), sia del motivo per cui nei trattati e nei metodi del belcanto non ne troviamo traccia, alcuni storici del canto con ambizioni didattico-vocali (in primis Rodolfo Celletti) si sono dedicati all’ hobby fantafilologico, consistente nell’ingigantire la figura di SINGOLI cantanti che ne hanno fatto uso, come mezzo per farne un caposaldo dell’ educazione vocale. Uno dei testimoni-‘testimonial’ trovati da Celletti è il soprano Emma Calvé, che affermò di avere imparato l’utilizzo dei ‘muti’ dal castrato Mustafà, il quale avrebbe trovato gli acuti esercitandosi coi ‘muti’ per ben due ore al giorno, ricetta quest’ ultima che, se effettivamente applicata dai due, suscita molti dubbi sulla loro intelligenza. Per rendere ancora più fantastica la storia del belcanto, alcuni poi si sono presi la briga di attribuire questo ‘segreto tecnico-vocale’ alla scuola romana di canto. Ovviamente nessuno riesce a concepire, forse perché è un’ idea troppo semplice, questa ipotesi ermeneutica alternativa: la pratica dei ‘muti’ (non a caso rimasta priva di codificazione scritta) può essere stata semplicemente un mezzo pratico per riscaldare la voce quando ci si trovava in luoghi, situazioni o ore della giornata, in cui non era consentito dispiegare la voce in tutta la sua naturale potenza, potenza che ovviamente può dispiegarsi solo cantando a bocca aperta e non applicando la sordina rappresentata dalla bocca chiusa. Che poi gli esercizi a bocca chiusa possano essere utili (magari alternandoli con una vocale) in casi particolari, come quelli in cui occorre filtrare la corposità in eccesso di certe voci appesantite e ingrossate, questa è un’ altra questione, che nulla ha a che fare con l’assurdità di cantare un’intera aria a bocca chiusa o di fare ogni giorno una o due ore di esercizi vocali “muti” nella pia illusione di risolvere così magicamente i propri problemi vocali.

PALATO DURO: succursale moderna della ‘maschera’, la zona anatomica del palato duro è stata definita da un maestro dell’affondo “il distretto di collisione” delle proiezioni del suono. Dopo questa definizione surreale, manca solo che qualche genio delle nuove tecniche vocali ci dipinga sopra un bersaglio e lo brevetti. Anche l’ idea del suono da ‘proiettare’ sul palato duro, è una trovata che risale a Garcia, che ne fece la caratteristica costitutiva del suo modello di spazio di risonanza, da lui chiamato “timbro chiaro” (vedi). Sinonimo di suono proiettato sul palato duro è il termine ‘avanti’ (vedi). Come i belcantisti sapevano perfettamente nel Settecento e come il tenore Franco Corelli confermò nel Novecento, il giochino della ‘proiezione’ (vedi) sul palato duro presenta un piccolo inconveniente: chiude la gola e schiaccia i suoni.

PALATO MOLLE: il gioco del palato molle getta molti suoi fautori ancora più in confusione del gioco del palato duro. In uno dei tanti siti all’ insegna (comica) del ‘Belcanto’ la titolare, convinta sostenitrice delle panzane foniatriche e anti-belcantistiche della ‘maschera’, del ‘giro’, delle vocali ‘adattate’ e dell’innalzamento diretto del palato molle, è caduta recentemente in un clamoroso abbaglio, che potrebbe agire da provvidenziale corto circuito logico delle sue idee cervellotiche sul belcanto, se solo la signora fosse dotata di sufficiente ‘virtù logica’ per prenderne coscienza. Per dare una rappresentazione visiva chiara del suono che, partito dalle corde vocali, sale e poi arriva all’ agognata meta, rappresentata dalla mitica “maschera”, la suddetta signora non ha resistito alla tentazione di pubblicare un’ immagine di fanta-tecnica vocale, che cioè rispecchia non la realtà, ma le sue utopie tecnico-vocali. In questa immagine si vede dunque il palato molle, che, come un ponte levatoio, si abbassa per accogliere il trionfale ingresso del Suono nel magico castello della ‘maschera’. L’ incredibile accade a questo punto. Infatti, che, in base alle sue stesse teorie, il ponte levatoio del palato molle debba invece rimanere sollevato per evitare che il suono finisca nel vicolo cieco del naso e che (colpo di scena!) questo vicolo cieco del naso si scopra ben presto essere la stessa cosa della ‘magica’ cavità di risonanza della ‘maschera’ (a cui si può accedere appunto solo abbassando il velo palatino), per la nostra ineffabile belcantista autocertificata non costituisce alcun problema. La signora infatti appartiene a quella categoria di persone che, se la realtà non corrisponde ai loro desideri, hanno subito pronta la soluzione: se ne creano una alternativa di tipo virtuale. Ecco allora la fiaba del Suono che entra nel vicolo cieco del Naso, dove magicamente si trasforma non in rospo ma in principe azzurro (ovviamente solo agli occhi e alle orecchie della “regina del Belcanto” e dei molti che ancora credono a questa fiaba) Insomma, un’ illusione percettiva rispetto alla quale quella di Don Chisciotte, quando scambiò dei mulini a vento per dei terribili Giganti, è realismo puro.

PROIEZIONE: sia che la consideriamo una metafora ottica, sia che la consideriamo una metafora balistica, la ‘proiezione’ è un concetto che, se applicato al canto (che non è un fenomeno di proiezione, ma di espansione di onde concentriche), produce una delle più fuorvianti panzane pseudo-scientifiche mai prodotte. La proiezione si ricollega direttamente all’ ossessione del suono ‘avanti’ (o ‘in maschera’), di cui deve considerarsi sinonimo, e quindi porta direttamente a quello che, fuor di eufemismo scientifico, è noto come ‘spingere la voce’, che non è propriamente un indice di belcanto (litote). La proiezione è qualcosa che fa venire in mente i raggi laser o altre diavolerie tecnologiche: da qui il suo successo presso gli studenti di canto, i quali non si rendono conto che la logica del ‘proiettare’ il suono è la stessa di chi alle ‘gambe’ di un tavolo mettesse le calze e al ‘collo’ di una bottiglia mettesse la cravatta. In realtà la ‘proiezione’ è semplicemente il risultato del ricorso a una metafora sballata come mezzo per indicare quella componente acustica che fa ‘correre la voce’ in ampi spazi e che è la brillantezza naturale, componente del suono che a sua volta deriva dalla voce parlata e che opera in automatico anche e soprattutto nel canto, a condizione che si sappia come aprire la gola e come appoggiare la voce. Questi due fattori (la ‘gola aperta’ e l’ ‘appoggio’) sono le cause reali che (esattamente come il calore a 100° trasforma l’ acqua in vapore) nella zona acuta della voce trasformano la brillantezza naturale del suono parlato in ‘squillo’. Occorre infine ricordare sempre un fatto: nonostante la sua apparenza ‘tecnologica’, la proiezione è un’operazione che di per sé riduce lo spazio di risonanza della voce e ha come suo equivalente ottico l’ applicazione di paraocchi alle tempie come mezzo per ampliare il campo visivo.

PRONUNCIA SCOLPITA: nei momenti di concitazione drammatica di un’ opera l’ articolazione diventa naturalmente declamazione. In che senso “diventa naturalmente declamazione”? Nel senso che si tratta di un fenomeno uguale a quello che avviene nella vita di ogni giorno quando, se ci arrabbiamo con qualcuno, passiamo ‘in automatico’ dalla fluidità del normale eloquio ad una ANIMAZIONE indiretta delle parole, che può dare l’ impressione di una scansione dura, se non addirittura di una detonazione delle sillabe, ma che invece mantiene, pur nella maggiore animazione, il movimento armonioso ed elastico, tipico di ogni funzione naturale. Purtroppo ci sono alcuni, come ad esempio i seguaci dell’ affondo, che hanno dato per buona questa percezione illusoria e ne hanno ricavato un concetto ‘tecnico-vocale’: quello di “pronuncia scolpita”. Essa consiste in una accentuazione volontaria diretta (cioè meccanica) dell’articolazione, in particolare delle consonanti. Il primo effetto di questa idea geniale è l’immediata scomparsa del legato, sostituito da una serie monocorde e rigida di micro-esplosioni articolatorie. Nel suo periodo ‘affondista’ Mario Del Monaco ha cercato un’ascendenza ‘nobile’ di questo espediente meccanico (che i belcantisti avrebbero giudicato “affettazione”), attribuendone la paternità ad Aureliano Pertile, modello indiscusso di ‘nobile declamato’. Purtroppo per Del Monaco a smentire questa congettura è stato lo stesso Pertile, che nel suo trattato di canto (evidentemente rimasto ignoto a Del Monaco) scrive esplicitamente, tagliando la testa al toro: “Si deve evitare di pronunciare esageratamente: il canto sillabato è contrazione e rigidezza e conduce allo spostamento della voce.”. Alla base del concetto di “pronuncia scolpita” troviamo un clamoroso equivoco: ignorare che nel canto la pronuncia fa da sintonizzatore e non da detonatore della voce. In altre parole essa svolge la funzione della diteggiatura sulla tastiera di un violino e non di ‘martellamento’ sulla tastiera di un pianoforte.

REGISTRO MISTO: il concetto di ‘suono misto’ affascina molto (chissà perché) le menti dei cantanti, soprattutto di canto moderno. Di qui il proliferare di nuovi metodi basati sul ‘mix’ o sul mix del mix. La cosa non causa particolari problemi finché quelle da mescolare rimangono qualità o componenti del suono come la brillantezza, la morbidezza e la corposità. Diverso è il discorso quando si passa a mescolare, o meglio, a tentare di mescolare i registri, nel qual caso si entra direttamente nella fantascienza vocale. Come sapevano perfettamente e hanno chiarito benissimo i belcantisti, tra un registro e l’ altro si tratta di garantire una transizione dolce, un ‘passaggio’ tra due diversi meccanismi vocali, ma NON una fusione, che sarebbe come cercare di fondere tra loro la prima e la terza marcia di un’ automobile.

RESPIRAZIONE DIAFRAMMATICA: nefasto ossimoro foniatrico, che mette insieme due dimensioni inconciliabili tra loro: la dimensione dello spazio libero e sconfinato, propria del respiro naturale globale, e la dimensione claustrofobica e riduttiva, propria del respiro profanato e degradato a meccanica muscolare. Il Respiro rappresenta il nostro primo passo nel mondo: un evento originario, fondativo e miracoloso che precede la nascita stessa del nostro io razionale. Ora pensare che la razionalità, sotto forma di ridicoli libretti d’ istruzione meccanico-muscolari, possa ‘insegnare’ a ‘controllare’ la respirazione, è comico-surreale quanto pensare di potersi sollevare da terra tirandosi su per i capelli. Anche per la respirazione vige, più che mai, il principio primo del canto: niente può essere controllato direttamente, tutto può e deve essere suscitato indirettamente. Non è cercando di controllare qualche (inesistente) muscolo ‘magico’ del canto, ‘utopizzato’ dalla foniatria, ma evocando la SENSAZIONE di distensione espansiva dell’ inspirazione che noi possiamo mettere in grado la respirazione di autoregolarsi, mettendosi al servizio del canto. Altrimenti ci troveremo rinchiusi nel labirinto foniatrico delle dissezioni anatomiche, passando dalla respirazione diaframmatica, alla respirazione diaframmatico-addominale, alla respirazione costo-diaframmatico-addominale, alla respirazione pelvico-costo-diaframmatico-addominale ecc., sezionando e incollando tra loro pezzi di corpo sempre diversi alla ricerca di un’ irraggiungibile araba Fenice: il canto.

RETRAZIONE DELLE FALSE CORDE: con le “false corde vocali” siamo di nuovo alle prese coi ‘sarchiaponi’ vocali. Chiariamo preliminarmente un concetto: in sé e per sé le false corde vocali non sono un sarchiapone, dato che hanno una precisa esistenza oggettiva. DIVENTANO un sarchiapone quando (non corrispondendo a una precisa percezione) sono utilizzate come fantomatico strumento di controllo della voce. Con le false corde vocali e la loro “retrazione” si ripropone insomma lo stesso problema sia del diaframma e della sua risalita, sia dello sfintere ariepiglottico e della sua contrazione: la moderna arroganza pseudo-scientifica pretende di sostituire gli strumenti di controllo (olistico e senso-motorio) della voce, scoperti e valorizzati nel corso dei secoli da una gloriosa scuola di canto, quella del belcanto italiano, con ridicole e chimeriche astrazioni anatomiche e scientifiche, di cui nessuno ha mai avuto la percezione e che quindi rimangono incontrollabili: è il caso appunto delle “false corde vocali”, del “diaframma” e, last and worst, dello “sfintere ariepiglottico”. I risultati di questi esperimenti da apprendisti stregoni del canto sono nelle orecchie e negli occhi di chiunque sia dotato di questi organi e di un altro organo: il cervello.

SFINTERE ARIEPIGLOTTICO: nella tragedia ‘Agamennone’ di Eschilo, quando Clitennestra annuncia pubblicamente, vantandosene, di aver assassinato il marito, il popolo reagisce gridandole: “Donna, che droga hai preso per commettere un tale crimine?”. Analogamente, nella moderna ilarotragedia del canto, alla pensionata di nome Jo Estill, sinistra e demente inventrice delle ‘figure obbligatorie’ e delle ‘sirene’ nonché scopritrice dello ‘sfintere ariepiglottico’, qualcuno, invece di conferirle la ‘laurea honoris causa’ (??!!), avrebbe dovuto chiedere: “Vecchia, che droga hai preso per fare un tale scempio del canto?”. Con lo “sfintere ariepiglottico” che, se contratto, genererebbe magicamente lo squillo della voce, siamo veramente all’ Oscar delle idiozie tecnico-vocali. Qualcosa di talmente grottesco che in confronto l’ ipotetica prescrizione di strizzare con una mano i genitali per fare meglio gli acuti apparirebbe come il trionfo combinato della scienza e dell’ arte del canto. Più che mai nel caso dello sfintere ariepiglottico è doveroso ricordare quello che rappresenta il postulato primo del belcanto e che recita: tutti gli organi e le zone anatomiche, di cui mai avremmo sospettato l’ esistenza, se qualcuno non ce l’ avesse detto, sono da considerarsi IRREALI ai fini dello studio del canto e DELETERI, se fatti oggetto di interventi ‘tecnici’ localizzati.

SIRENA: altra oscena formula dell’ anticanto che dobbiamo al personaggio sopra citato e che si basa sulla fusione di “muto” e “glissato”. Risultato? Soppressione dei micro-movimenti articolatori, con cui si cambiano note e vocali e che rappresentano la condizione necessaria perché la voce possa trovare automaticamente la sua perfetta sintonizzazione e quindi creare il fenomeno acustico della risonanza libera. Esiste l’ arte (che ha preso il nome di ‘legato’) del collegare intimamente le perle del canto con un filo, rispettandone la snodabilità, ed esiste la scemenza (che ha preso il nome di ‘sirena’) dell’ incollare tra loro quelle perle col mastice, buttando nel water il filo perché giudicato inutile e, magari, non scientifico. Utilizzare il glissato delle cosiddette ‘sirene’, illudendosi che abbia qualcosa a che fare con la struttura profonda della fonazione cantata e con la sua naturale emanazione, il legato, equivale, come abbiamo detto, a disattivare quel sistema articolatorio naturale, che con i suoi micro-movimenti fa da sintonizzatore automatico della voce. Questo è il motivo per cui nei trattati del belcanto come sinonimo di ‘emettere la voce’ veniva usata l’ espressione “articolare la voce” e questo è anche il motivo per cui il suo contrario, il ‘disarticolare la voce’, cioè il glissato, veniva chiamato, in senso negativo, “strascino”, che è la modalità preistorica del trasporto, prima dell’ invenzione della ruota. Morale: con le ‘sirene’ l’intelligenza vocale moderna è riuscita a eliminare le ‘ruote’ del canto, già predisposte dalla natura, per regredire ‘trionfalmente’ allo stadio dello strascino delle tregge.

SOFFIARE: attività che interessa alcuni strumentisti a fiato (ad esempio, flautisti e oboisti) e che alcuni incompetenti utilizzano come paradigma per cantare e insegnare il canto. Solo che nel canto l’ aria SI LASCIA FLUIRE, NON SI SOFFIA. Lo imparò a suo spese Marsia, il flautista del mito greco che sfidò in una gara il cantante Apollo e che, avendo perso, fu estratto per punizione da Apollo dalla sua guaina di pelle, trasformandosi così in un tubo vuoto, imperituro e ironico monito a non scambiare i tubi in cui si soffia col canto.

SOSTEGNO: manovra volontaria di rientro diretto dei muscoli addominali durante il canto, ovvero l’ ‘arte’ del garantire l’ ‘equilibrio’ dei due piatti di una bilancia, mettendo una mano sotto il piatto più pesante per ‘sostenerlo’. Promemoria per chi ancora non ha capito la differenza tra ‘appoggio’ (vero equilibrio) e ‘sostegno’ (compensazione farlocca): 1 – se mi siedo su una sedia (appoggio), non ho bisogno di tirare su la sedia con le mani per realizzare il ‘sostegno’; 2 – se voglio far galleggiare una nave, non ho bisogno di apporre un’elica rotante sotto la chiglia per ‘sostenerla’.

S.O.V.T.E (“semi occluded vocal tract exercises): degno prodotto intellettuale dei S.O.B.V.E (semi occluded brain vocology experts). La somma delle scemenze, (catalogate qui alle voci “avanti”, “maschera”, “muti”, “proiezione” e “sirena”), divenuta squallido acronimo e simbolo dell’idiozia umana applicata al canto. Non contento delle scemenze semplici, c’è poi chi ha inaugurato le scemenze al quadrato. È il caso dello ‘scienziato’ del canto Ingo Titze (già inventore del ferro ligneo disciplinare denominato ‘vocologia’), il quale ha pensato bene di aggiungere alle sirene una protesi: una cannuccia da bibita, in cui soffiare. Altri geni cercheranno in seguito di emularlo, inventandosi nuove grottesche protesi: la ‘mascherina’ tappata di Alfonso Borragan e i tubi immersi in una bacinella d’ acqua in cui soffiare (ovviamente con l’ unico risultato concreto di imparare non a cantare, ma a fare le bollicine nell’ acqua).

SUONI COPERTI (vedi “copertura” e “timbro scuro”): il concetto di “suono coperto” è il frutto e la prova della totale confusione di idee che regnava nella testa degli scienziati francesi dell’ Ottocento, che hanno partorito il mostruoso ircocervo chiamato “voce oscurata”. È probabile che l’ idea originaria di un suono da “coprire” sia scaturita da quella sensazione di controllo della voce ‘dall’alto’ o ‘stando in alto’, che a sua volta può derivare in parte dal fatto che l’ apertura totale della gola comprende anche la sua parte alta, rinofaringea appunto, che sta dietro il naso. Ben presto però questa idea si è contaminata con altre idee, tra cui citiamo quella di Garcia di “scurire il suono” e quella che vede nel termine “suono coperto” il correlativo opposto del “suono aperto”. In tal senso il suono “coperto” è sinonimo di vocale chiusa foneticamente, in opposizione alla vocale aperta foneticamente. Qual è la differenza tra una “vocale aperta” e una “vocale coperta” (cioè chiusa foneticamente)? Essendo lo spazio di risonanza della voce cantata bicamerale (bocca + gola), si può dire che in una vocale aperta prevale l’apertura della bocca sull’apertura della gola, mentre in una vocale chiusa (o coperta) prevale invece l’ apertura della gola sull’ apertura della bocca. Ora, se noi poniamo che in una vocale aperta lo spazio della bocca sia 4 e quello della gola sia 2, e, viceversa, che in una vocale chiusa lo spazio della bocca sia 2 e quello della gola sia 4, è evidente che nei due casi lo spazio totale è lo stesso e cioè 6. Questo ci fa capire come le vocali chiuse (o coperte) di per sé non siano dotate di quella ‘virtù magica’ che hanno immaginato gli inventori della voce ‘coperta’ , ma sono semplicemente vocali che hanno pregi e difetti esattamente come le vocali aperte, ma di tipo diverso, motivo per cui è opportuno educare la voce con tutte le vocali per garantire la giusta osmosi acustica dei suoni. A sua volta questa ‘osmosi’ nulla ha a che fare con la ‘mescolanza statica’ delle vocali, quale è stata teorizzata dai fautori del ‘timbro scuro’, del ‘suono coperto’, delle ‘vocali miste’ e dei ‘suoni intervocalici’ (vedi sotto), tutti espedienti che distorcono il suono imponendo a tutte le vocali lo stesso ‘stampino’, solitamente modellato sulle vocali ‘verticali’ ‘U’ e ‘O’. Fenomeno completamente diverso dallo scurire e/o mescolare le vocali anteriori con le vocali posteriori è la CHIUSURA FONETICA delle vocali, che avviene nel passaggio al registro acuto delle voci maschili. L’ essenza acustica del meccanismo del passaggio di registro consiste in effetti nella conversione fonetica delle vocali aperte in vocali chiuse e NON nell’ oscuramento delle vocali. Per altro è vero che il passaggio di registro genera come EFFETTO anche un leggero oscuramento del suono, ma questo non significa che occorra scurirlo direttamente, altrimenti lo si opacizza e intuba. Analogamente il fatto che un motore acceso produca calore non significa che per accenderlo occorra riscaldarlo.

SUONO INTERVOCALICO: sinonimo di ‘vocale mista’, introdotto dal critico musicale e storico del canto Rodolfo Celletti. Essendo le vocali degli ‘archetipi’ impressi nella nostra mente più profondamente degli intervalli musicali, parlare di “suoni intervocalici” ha lo stesso senso e la stessa utilità (inesistenti) che parlare di “suoni intertonali”. A questo punto occorre chiedersi: sarebbe concepibile l’ idea che per intonare meglio un La naturale un cantante debba pensare a una via di mezzo tra La naturale e La diesis? La risposta è ovviamente: no. E sarebbe tollerabile che su questo tipo di educazione ‘intertonale’ dell’orecchio si basasse lo studio musicale di un’ aria? Meno che meno. Lo stesso dicasi per l’ educazione ‘intervocalica’ della voce.

SUONO RACCOLTO: che i funghi, le fragole e le ciliegie si possano raccogliere lo si sapeva già, ma che anche i suoni si possano, anzi si debbano ‘raccogliere’ è un’ idea cervellotica che solo a qualche ignoto genio del canto poteva venire in mente. Possiamo cercare di indovinare da quale concetto tragga origine questa espressione, partendo appunto dall’ atto del raccogliere oggetti. E’ ovvio che perché la funzione prensile della mano agisca, dobbiamo lasciare che si chiuda e che le dita appunto si ‘raccolgano’. Dato che non si canta con le mani, ma con la bocca, la gola e i polmoni, a questo punto possiamo chiederci: a quale organo del corpo fa riferimento il ‘raccogliere’ del canto? La risposta giusta è ovviamente la bocca e il riferimento è al processo dell’ articolazione, per cui, traducendo il tutto, si scopre che “raccogliere i suoni” significa semplicemente che il movimento articolatorio naturale, che è quello che genera il nucleo del suono, non deve ampliarsi, ma deve rimanere quello naturalmente ‘piccolo’ e ‘concentrato’ di quando si parla. Questo non significa che nella zona acuta la bocca non possa aprirsi di più, ma l’importante è che per ciò che attiene all’ articolazione-sintonizzazione, i movimenti rimangano sempre quelli semplici, sciolti, essenziali e ‘raccolti’ del parlato. Questo è anche il significato dell’ espressione di Tito Schipa “parole piccole, mai grandi”, espressione che fa riferimento non allo spazio di risonanza ampio che dà rotondità al suono, ma alla genesi naturale del nucleo del suono dal parlato. Ovviamente il concetto di “parole piccole” e di “suoni raccolti” non significa rimpicciolire i suoni, ma lasciare naturalmente piccolo il loro nucleo, come succede quando parliamo. Arrivati a questo punto viene spontaneo chiedersi: ma invece di complicare la vita degli allievi con l’astrusità dei suoni “raccolti”, non era più semplice ed efficace dire loro: lasciate che il movimento dell’articolazione rimanga semplice ed essenziale come quando parlate? Misteri (dolorosi) della didattica vocale (questa volta empirica e non scientifica).

TIMBRO CHIARO e TIMBRO SCURO: il ‘chiaroscuro’ belcantistico vivisezionato e diviso in due spezzoni artificiali: il modello ‘chiaro’ e il modello ‘scuro’ di emissione. Premesso che nel canto non si deve fare nulla né per schiarire né per scurire volontariamente la voce, pena la distorsione acustica del suono, il concetto belcantistico di ‘chiaroscuro’ indicava la fusione inscindibile dei due elementi che compongono il vero suono: la scintilla iniziale del parlato (che genera la luce del suono) e lo spazio ampio che avvolge questo nucleo di luce e crea la rotondità e la brunitura naturale del suono. Ne deriva che introdurre nel canto una ‘schizofonia’ vocale, che genera due diverse voci, la chiara e la scura, è come teorizzare l’ esistenza di due diversi tipi di atomo: l’ atomo fatto di solo nucleo e l’ atomo fatto di soli elettroni. Oppure, più banalmente, è come teorizzare l’ esistenza di due tipi di gatto: il gatto fatto di muso e zampe anteriori e il gatto fatto di coda e zampe posteriori.

TRILLO LABIALE e TRILLO LINGUALE: famosa coppia comica della moderna didattica vocale foniatrica. Dopo aver immobilizzato la voce con la camicia di forza delle figure obbligatorie e delle altre scemenze prodotte dal meccanicismo foniatrico, ci si preoccupa, molto intelligentemente, di ridare un po’ di motilità e flessibilità ai poveri organi dell’articolazione, così ingessati, ricorrendo però a questi due giochini, che appartengono alla categoria dei S.O.V.T.E (vedi). Nessun genio del canto foniatrico ovviamente si chiede per quale misterioso motivo una frazione di secondo prima di cantare, le labbra e la lingua del povero allievo erano perfettamente funzionanti e non necessitavano di nessun esercizio muscolare di rianimazione forzata, spacciato per esercizio di ‘flessibilità’. Il medesimo, succitato genio didattico neppure si preoccupa del fatto che, dovendo vincere la resistenza opposta dal ‘tappo vibratorio’ labiale e linguale, l’ emissione dell’aria a questo punto non sarà più quel ‘LASCIAR FLUIRE il fiato’ che caratterizza il vero canto, ma diventerà il FAR USCIRE attivamente il fiato di certi strumenti a fiato, cioè il banale e deleterio SOFFIARE (vedi).

TUBO SONORO: squallida icona e simbolo dello spazio di risonanza del canto, prodotta dalla mente di Manuel Garcia jr. e riprodotta in serie (ahinoi!) dalle migliaia dei suoi moderni epigoni. (E poi c’è chi si chiede da dove provengano i suoni intubati di molti cantanti).

TWANG: il ‘twang’ è la maschera nasale ottocentesca che, buttata fuori dalla porta con la scoperta che le cavità nasali e paranasali non sono cavità di amplificazione, ma di assorbimento del suono, rientra magicamente dalla finestra, travestita da novità anglo-americana e scientifica (combinazione magica di elementi, che con gli italiani funziona sempre come lasciapassare delle più incredibili idiozie, anche e soprattutto di quelle che saggiamente erano già state buttate nella discarica dagli stessi anglo-americani).

VOCAL FRY (letteralmente ‘frittura vocale’): meccanismo laringeo che corrisponde a una vibrazione ‘molle’ delle corde vocali ovvero a una vibrazione la cui frequenza non è periodica, motivo per cui quello prodotto non sarà un suono, ma un rumore. Questa modalità vibratoria anomala è diventata presso i cantanti di canto moderno un esercizio di riscaldamento vocale, spacciato per ‘scientifico’, dove ovviamente per scienza è da intendersi la ‘scienza’ del canto, ovvero una scienza ‘sperimentale’ che sostituisce i risultati degli esperimenti con le autocertificazioni. Come sempre succede con gli scienziati del canto, i fruitori delle fritture vocali sono impermeabili a queste due semplici obiezioni, sollevate dal banale buon senso: 1 – è concepibile che il suono possa scaturire dal rumore o che il rumore possa giovare al suono? 2 – se un bambino nella culla, invece di emettere mugolii, vocalizzi e lallazioni, come normalmente fa, producesse ‘fritture vocali’, non diventerebbe subito inquietante come i bambini di certi film dell’ orrore? (Questo per dare la misura del grado di naturalezza e sensatezza di questo ennesimo obbrobrio vocale.).

VOCALI MISTE (O ‘ADATTATE’): ridicolo parto concettuale di chi immagina che il suono cantato sia costituito da una sostanza neutra, indifferenziata, a cui poi si aggiunge lo stampino vocalico preferito. Il che denota un grado di contatto con la realtà paragonabile a quello di chi pensasse che il mare e le onde siano due entità separate. Un piano di ritorno alla realtà per queste persone prevede l’ acquisizione di questo concetto: le vocali del canto non sono un qualcosa ‘contenuto’ in uno spazio di risonanza, ma SONO quello spazio. Il che significa che non è possibile produrre un suono ‘cantabile’ (nel senso letterale del termine), se non è stato concepito mentalmente come vocale. Ignorare poi che le vocali ‘adattate’ non sono vocali ‘corrette’, ma sono ALTRE vocali (vocali miste per l’ appunto), è qualcosa che fa il paio con l’ altra convinzione (ancora più ridicola) che consiste nel credere che (ammesso che esistano “vocali liriche” frutto della mescolanza tra vocali) il canto possa essere nato in un paese come l’ Italia, la cui lingua ignora le vocali miste.

VOICECRAFT: il presente dizionario storico delle scemenze tecnico-vocali, iniziato con un prodotto foniatrico DOC come l’ abbassamento diretto della laringe, non poteva non terminare (‘in cauda venenum’) con un altro nefasto prodotto foniatrico DOC: il “voicecraft”. Ad accomunare le due scemenze è la stessa idea paleo-scientifica secondo cui, allenando singoli muscoli o gruppo di muscoli al di fuori dei gesti naturali globali in cui sono inseriti e che ne sono la vera causa motoria, si creerebbe il canto. Ciò che si crea in realtà in questo modo è solo un’ imitazione esterna del fenomeno originario e autentico: una delle tante ridicole caricature meccanicistiche da cui è invasa oggi la didattica vocale. Fallace è anche l’ idea, in apparenza ‘democratica’, secondo cui esisterebbero tecniche vocali di tipo senso-motorio e tecniche vocali di tipo meccanicistico, da porre sullo stesso piano e la cui scelta dipenderebbe dalla propensione individuale. Si tratta di una mistificazione e per prenderne coscienza basta pensare, per analogia, all’ assurdità dell’idea che per camminare e per parlare esistano due tecniche diverse, una di tipo senso-motorio e l’ altra di tipo meccanicistico. No, in realtà ne esiste soltanto UNA, la prima, prevista dalla natura. Con la seconda ‘tecnica’, quella meccanicistica, non si cammina né si parla né, tanto meno, si canta: al massimo si fa l’ imitazione della marionetta o del robot, che non rappresenta propriamente la massima aspirazione per un essere umano.

Antonio Juvarra


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