Antonio Juvarra – “Rodolfo Celletti, belcantista di giorno e malcantista di notte”

Antonio Juvarra dedica il suo contributo mensile di febbraio alla figura di Rodolfo Celletti, il musicologo e critico romano spesso oggetto, anche dopo molti anni dalla sua scomparsa, di vivaci  dibattiti e la cui figura è tuttora troppo nota agli appassionati di canto perché ci sia bisogno di farne una presentazione. Buona lettura a tutti.

RODOLFO CELLETTI, BELCANTISTA DI GIORNO E MALCANTISTA DI NOTTE

Rodolfo Celletti, musicologo che ha dato il suo nome a una delle tante scuole che oggi si definiscono, con temeraria autocertificazione, “accademie del belcanto”, nacque melomane dall’ orecchio finissimo, divenne insigne storico della vocalità e morì pataccaro inconsapevole della tecnica del belcanto. Tre suoi libri testimoniano, rispettivamente, questi tre diversi aspetti o fasi della sua attività: Il teatro d’opera in disco (Rizzoli, 1976, seconda ediz. 1987), Storia del belcanto (Discanto, 1983) e Il canto (Vallardi, 1989).  Noi ci occuperemo qui del terzo, che tratta specificamente di tecnica vocale. L’autorevolezza da lui conseguita come profondo conoscitore delle voci, acuto esegeta dei principi estetici e stilistici del belcanto e indiscusso maestro di scrittura, ha purtroppo conferito di riflesso, in automatico, validità anche ad altre sue teorie decisamente discutibili e mi riferisco appunto a quelle riguardanti la tecnica vocale del belcanto. Queste teorie rappresentano il paradossale falso storico, prodotto da uno studioso, la cui smania di farsi maestro anche dei maestri del belcanto ebbe a un certo punto il sopravvento sull’ ABC del rispetto filologico dei testi. Ne sono derivati due paradossi:

1 – molti dei cantanti da lui criticati per le loro carenze tecnico-vocali, cantavano in realtà proprio con la tecnica da lui teorizzata come trattatista di tecnica vocale;
2 – da questo punto di vista chi ha avuto l’ idea di intitolare a lui una “accademia del belcanto”, ha preso lo stesso abbaglio di chi intitolasse una scuola di canto gregoriano ad Arturo Melocchi o a Josè Cura.

Il falso, colposamente spacciato per autentico da Celletti, non è altro che la solita ricetta foniatrica della tecnica vocale, di cui ho parlato in questo sito nel mio precedente articolo del mese di gennaio. Rodolfo Celletti rappresenta in effetti uno dei tanti moderni epigoni di Garcia, con queste differenze rispetto a Garcia e ai suoi ‘colleghi in foniatricismo tecnico-vocale: 1 – molte sue teorie (come quelle riguardante la respirazione e la risonanza della voce) sono le tipiche assurdità, prodotte da chi non ha mai fatto esperienza in prima persona delle cose di cui parla;
2 – rispetto ai normali maestri di canto, le sue indicazioni tecnico-vocali risultano potenzialmente più nocive proprio in ragione dell’ autorevolezza da lui acquisita in ambito storico-vocale.

Il succitato libro Il canto è per l’ appunto l’ espressione più eclatante dell’ hybris conoscitiva di Celletti, hybris che per altro verrà colpita poco dopo da un clamoroso abbaglio, predisposto dalla Nemesi: scambiare per “voce antica” la voce di un tenore, fatta a immagine e somiglianza di un vecchio 78 giri tremolante e tale da agire nella mente di Celletti come proustiana ‘madeleine’ in grado di far riaffiorare dal passato i suoi ricordi giovanili di ascoltatore. I risultati catastrofici di questo abbaglio saranno i fischi con cui i più importanti teatri europei seppelliranno prematuramente la carriera tenorile del protégé di Celletti e con essa anche quella dello stesso Celletti come pontefice tecnico-vocale.

Occorre per altro dare atto che nel loro spirito le critiche, spesso sarcastiche, che Celletti muoveva ai cantanti più famosi dell’ epoca, non erano fini a stesse, ma erano uno degli strumenti da lui usati per perseguire il suo giusto ideale di rinascita del vero canto di tradizione italiana, fatto di levità, morbidezza, spontaneità, legato, ricchezza di armonici, lucentezza, varietà di fraseggio, sfumature, contro il moderno canto monolitico e trogloditico delle vociferazioni, delle declamazioni, dei latrati, dei muggiti, degli affondi, delle voci intubate, appesantite e scurite. Peccato che questi ammirevoli ideali estetici non avessero nessun rapporto con la tecnica vocale, individuata da Celletti come mezzo per realizzarli. Spesso la sicurezza e il tono con cui faceva certe affermazioni davano un senso di fastidiosa saccenteria, soprattutto quando si spingeva a fornire spiegazioni di tecnica vocale, trasformandosi così da esperto di storia del canto in clamoroso sutor ultra crepidam. Sentire parlare di “immascheramento”, di “suono più scuro, perché portato nella cavità di risonanza facciali”, di “rientro dell’addome prima dell’attacco del suono” e di altre specifiche indicazioni tecniche totalmente campate per aria suonava irritante e ciò soprattutto perché queste assurdità assumevano spesso e volentieri la forma di lezioncine impartite direttamente ai cantanti da lui stroncati e venivano per di più presentate come verità ovvie, calate dall’ alto da uno che non aveva mai cantato in vita sua (se non, si dice, come dilettante autodidatta, quando era giovane).

In effetti nel suo libro Il canto Celletti pensò di poter ricondurre il suo elevatissimo ideale di canto a banali manovre muscolari, nate successivamente al periodo belcantistico e che non solo non ne sono la causa, ma anzi ne sono l’ impedimento o comunque l’ ostacolo. È il caso della respirazione del canto. Appoggiandosi a teorie scientifiche, poi rivelatesi errate, secondo le quali il diaframma sarebbe una struttura muscolare che in fase espiratoria (cioè durante il canto) rimane passiva e può soltanto risalire, risospinta in alto dai muscoli addominali espiratori, Celletti sosteneva che il cantante dovesse focalizzare la sua attenzione esclusivamente sul rientro dei muscoli addominali, attivandoli direttamente. Così facendo, in realtà non si fa che eliminare il secondo dei due elementi che costituiscono l’ equilibrio respiratorio durante il canto, cioè quello rappresentato dalla muscolatura inspiratoria, rendendo così impossibile il crearsi dell’ ‘appoggio’. Insomma, come se uno, per evitare di camminare pestando i piedi per terra, teorizzasse che bisogna camminare in punta di piedi. Ma Celletti in quel libro non si limita a farsi fautore del ‘sostegno’ respiratorio invece che dell’ ‘appoggio’, da lui erroneamente considerati sinonimi. Ricollegandosi a un’ oscura indicazione di Garcia figlio, che nella prima edizione del suo trattato suggeriva di “far rientrare la fontanella dello stomaco inspirando” (indicazione il cui unico significato fornito di senso è quello di inspirare senza far sporgere troppo la pancia, cioè non solo frontalmente), Celletti la stravolge completamente, trasformandola in una manovra attiva di rientro dei muscoli addominali, da effettuarsi addirittura DOPO aver inspirato e PRIMA di attaccare il suono, e attribuendo così a Garcia il contrario di quello che questo autore aveva esplicitamente scritto. In questo modo ci si preclude subito la possibilità di beneficiare di quella base elastica su cui, appunto, si ‘appoggiano’ tranquillamente tutti i suoni e che si crea naturalmente, solo se si sa come respirare e come accordare tra loro l’attacco del suono e il movimento naturale di fuoriuscita del fiato. In questo modo insomma Celletti la trasforma in una manovra INSENSATA, che può inventarsi solo una persona che non ha mai aperto bocca per cantare.

Per quanto riguarda invece il controllo della risonanza della voce, anche in questo caso Celletti propone una concezione angustamente meccanicistica della tecnica vocale. Non dimentichiamo che nei trattati classici del belcanto (Tosi e Mancini) non si dice una parola né sulla ‘proiezione’ del suono, né sulla ‘maschera’, ma neppure sulla modalità con cui si deve respirare, e questo per il semplice motivo che a quel tempo si dava per scontato che la respirazione del canto fosse non la respirazione robotico-muscolare, che avrebbe poi inventato la foniatria, bensì quella che si definisce (per distinguerla da quella superficiale del parlato) RESPIRAZIONE NATURALE GLOBALE, che altro non è che la respirazione della boccata d’ aria rigeneratrice e dell’ annusare il profumo di un fiore. Per quanto riguarda la risonanza, Celletti interpreta l’ antichissima nozione di “suono alto” non come l’ illusione percettiva generata dalla giusta sintonizzazione del suono (quale in realtà è), ma come un ‘portare’ fisicamente il suono in quella chimerica cavità di risonanza (ignota al belcanto), che nell’ Ottocento prenderà il nome di ‘maschera’. La ‘summa’ della confusione concettuale riguardante sia l’ appoggio respiratorio (che è il secondo momento, espiratorio, della respirazione) sia la risonanza, è rappresentata da questa frase, contenuta nel libro in questione:

“La zona ombelicale ritratta dà al cantante quella sensazione di sostegno della colonna sonora, che in gergo si chiama ‘appoggio’ e che rappresenta per lui la soluzione di tutti i problemi e una sorta di scoperta della pietra filosofale. La sensazione che l’a ddome ritratto sia il punto di propulsione del getto sonoro, proiettato verso la cavità di risonanza del viso, gli dà sicurezza.”

In questo modo l’ appoggio, che implica un movimento dall’ alto verso il basso (come quello del piede che si appoggia per terra camminando o quello dell’ aliante quando, volando, si appoggia sull’ aria sottostante) diventa un movimento di sostegno attivo dal basso verso l’ alto (come quello dell’ elicottero, che se non continua a far ruotare le pale dell’ elica, precipita, o come quello di un surreale piede, che invece di appoggiarsi per terra camminando, stesse sollevato per aria). In sostanza, l’ appoggio viene negato e trasformato nel suo opposto (il ‘sostegno’). Non solo: volendo essere più ‘garciano’ di Garcia (che già era un SOVVERTITORE dei principi tecnico-vocali del belcanto), Celletti trasforma grottescamente il canto in una manovra idraulico-balistica di “propulsione del getto sonoro” (sic) “verso la cavità di risonanza del viso” (sic), affermazione questa che è la somma di due assurdità (acustica e fisiologica) e che non può non sfociare, per definizione, nel cosiddetto “canto spinto”, da lui giustamente odiato come critico musicale. Ora, se Celletti avesse avuto meno supponenza e più esperienza in prima persona del canto, avrebbe capito che l’ appoggio della voce non c’ entra nulla né col sostegno né con l’ affondo e avrebbe capito anche la successione logica di errori che storicamente aveva portato a questo abbaglio madornale, abbaglio rappresentato da un canto che da “calma posa della voce”, qual era secondo i belcantisti, diventa “sostegno della colonna sonora” e “propulsione del getto sonoro” contro le cavità della faccia. (??!!) Molto sinteticamente, volendoli rivedere alla moviola nella loro successione, gli errori che storicamente hanno portato al moderno assurdo del ‘sostegno’, sono i seguenti:
1 – Un foniatra dell’Ottocento, tale Louis Mandl, decide (lui!) che la respirazione globale (cioè toracico-diaframmatico-addominale) dei belcantisti è in realtà una respirazione solo toracica e come tale nociva, e prescrive (lui!) l’ obbligo di abbassarla a livello addominale (che è il classico passare dalla padella nella brace!) con conseguente assoluto divieto di innalzamento del torace in fase inspiratoria (divieto demenziale, tuttora vigente!).
2 – Come conseguenza diretta di questo abbassamento innaturale della respirazione a livello ipogastrico, l’ attacco del suono, che coincide con l’APPOGGIO (che è una forma di galleggiamento), diventa AFFONDO, cioè squilibrio in basso.
3 – Come rimedio contro l’ affondamento della voce, così attuato, si prescrive non di buttare nella discarica la respirazione ‘alla Mandl’, ma di compensare lo squilibrio, facendo rientrare volontariamente i muscoli addominali al momento dell’ attacco del suono (il che, quanto a logica, è come, volendo sedersi, stare sollevati dalla sedia, invece che APPOGGIARSI sulla sedia) ed ecco così entrare in scena il fantascientifico “sostegno” foniatrico.

Il libro di Celletti, uscito nel 1989, è in effetti il libro dove esplodono le contraddizioni di un grande conoscitore di canto, che però non aveva mai cantato. Ma il paradosso più grave è che, come abbiamo accennato prima, le indicazioni e le spiegazioni tecnico-vocali in esso contenute, non hanno niente a che fare con la didattica del belcanto, quale è esposta nei due classici della trattatistica vocale, le Opinioni de’ cantori antichi e moderni di Pier Francesco Tosi e le Riflessioni pratiche sul canto figurato di Giambattista Mancini. La gravità di questa mistificazione storica va evidenziata, anche a rischio di diventare ripetitivi, perché è duplice. Si può affermare infatti che la teoria tecnico-vocale tardo-ottocentesca, fatta propria da Celletti, non rappresenta la formulazione né delle caratteristiche strutturali della tecnica del belcanto, né delle caratteristiche strutturali di una fantomatica (e INESISTENTE) nuova tecnica vocale, ipotizzata dai foniatri, ma è solamente la riproposizione dell’interpretazione errata, sub specie mechanica, attuata dalla foniatria francese ottocentesca, della tecnica vocale dei cantanti italiani di quel periodo. È quindi nient’altro che una doppia bufala. Nel nostro caso l’ ulteriore aggravante è rappresentata dal fatto che uno studioso come lui si sia messo a sconfessare, senza alcuna argomentazione a sostegno, precise indicazioni tecniche, di una chiarezza inequivocabile, presenti nei più importanti testi didattici del belcanto. La prima ‘bestemmia’ di Celletti riguarda lo spazio di risonanza del belcanto, ossia del canto a risonanza libera di tradizione italiana. Scrive Celletti:

“La bocca si apre abbassando la mandibola morbidamente, come in uno sbadiglio. L’apertura ‘a sorriso’ non agevola l’emissione tendenzialmente scura del suono immascherato e porta suoni sbiancati al centro e acuti striduli. Ho letto più volte che le antiche scuole di canto praticavano un’emissione chiara. Tuttavia il tenore Duprez, che cantò continuativamente in Italia dal 1829 al 1836, scrisse che i cantanti italiani non conoscevano altra emissione che quella scura.”

Sorvolando sull’ assurdità (logica e acustica) di un suono che, in quanto “immascherato” (cioè basato sull’ esaltazione del polo frontale della brillantezza) porterebbe a una ”emissione scura” (cioè basata sul prevalere del polo arretrato della rotondità brunita), lo scandalo di un’ affermazione come questa è che qui Celletti passa dalla pura e semplice cantonata alla falsificazione volontaria. Infatti adducendo la testimonianza di Duprez come prova della sua tesi secondo cui i cantanti italiani avrebbero scurito intenzionalmente i suoni, Celletti OMETTE di citare le parole TESTUALI di Duprez, che da sole sarebbero state sufficienti a smentire immediatamente l’ interpretazione datane da Celletti, rivelando il loro vero senso.
Scrive infatti Duprez:

“Questo è ciò che MOLTO IMPROPRIAMENTE IN FRANCIA si chiama ‘scurire i suoni’. Gli ITALIANI hanno solo questa modalità di emissione, ma NON CONOSCONO QUESTA ESPRESSIONE.”

Il che significa, molto semplicemente e banalmente, una cosa sola: che ai cantanti italiani dell’epoca non passava nemmeno per la testa l’idea di “scurire i suoni”, anche se alle orecchie francesi, abituate a una vocalità schiarita, così poteva sembrare. Celletti mostra poi qui di ignorare la differenza esistente tra la ‘brunitura’, intesa come effetto collaterale, non cercato direttamente, della morbidezza di emissione (e che si concilia perfettamente con la brillantezza naturale del suono, generata dal giusto sorriso) e l’ oscuramento diretto del timbro, che invece ‘intuba’ letteralmente lo spazio di risonanza e rende opaco il suono, obbligando così il cantante a compensare artificialmente il deficit di brillantezza “proiettando il getto sonoro verso la cavità di risonanza del viso” (sic), astrusa manovra fanta-acustica che altro non è che, molto banalmente, quello che si chiama SPINGERE. È opportuno anche ricordare a questo proposito che, non a caso, l’ apertura della bocca propugnata da Celletti (quella ‘verticale’ delle tecniche moderne, il cui modello è la vocale ‘O’) era stata addirittura bollata dal belcantista Mancini come “mostruosa” e che a riproporre l’ indicazione belcantistica del ‘sorriso’ (da intendersi ovviamente nel giusto senso, cioè non come stampino esterno) era stato incredibilmente persino Garcia (nonostante poi nella realtà pratica il suo modello di “tubo sonoro” in versione “timbro scuro”, con laringe abbassata e “tenuta fissa” e palato molle innalzato, sia la negazione stessa del modello spaziale del sorriso interno e lo renda quindi impossibile). La concezione del canto dei belcantisti (non ancora soffocata dalle elucubrazioni intellettuali pseudo-scientifiche che sarebbero venute dopo) era ancora talmente vicina all’ intuizione naturale da considerare come un’ ovvietà il fatto che negli esseri umani lo spazio di risonanza naturale della bocca (naturale in quanto riconoscibile in tutti i gesti vocali naturali, dalla risata al sospiro di sollievo) è quello simboleggiato dalla vocale ‘orizzontale’ ‘A’ e non quello della vocale ‘verticale’ ‘O’. Questo non significa ‘prefissare’ rigidamente uno spazio di forma orizzontale, né uno spazio di qualsiasi altra forma statica (forme statiche create dalla mente razionale), ma significa lasciare che con l’ inspirazione naturale profonda si crei uno spazio ‘neutro’, ‘onnipotenziale’, che si adatti in maniera duttile a tutte le vocali senza ‘aggiustarle’, ‘correggerle’ e ‘stravolgerle’, ma rispettandole nella loro identità e nella loro forma. Uno spazio insomma che non ostacoli, ma faciliti l’ articolazione, la quale, essendo la bocca orizzontale, si svolge su un asse che possiamo definire ‘orizzontale-circolare’ e NON verticale. Questo e non altro è lo spazio che chiamiamo ‘naturale’. Esso è comune sia al sospiro di sollievo sia alla boccata d’ aria, i quali, non a caso, contengono entrambi in sé ‘in nuce’ il sorriso ed entrambi sfociano nella vocale ‘A’, ed ecco perché i belcantisti prescrivevano sia l’ uso delle vocali ‘orizzontali’ ‘A’ ed ‘E’, sia il sorriso, che sono quindi da considerare NON come forme rigide e prefissate, ma come il simbolo, l’ espressione e l’ evocazione, rispettivamente fonetica e fisiologica, di quella componente ‘orizzontale’ dello spazio di risonanza che garantisce la presenza della brillantezza naturale del suono. Per questo motivo nei trattati dei belcantisti non si dice mai di cercare il colore scuro (che è appunto l’effetto INDIRETTO, percepito solo dal pubblico e da NON ricercare di per sé, della morbidezza di emissione), ma si parla sempre e solo di “chiarezza”, “limpidezza”, “vera e chiara posizione”, “natural chiarezza e facilità”, che rappresentano appunto la percezione che il cantante deve avere del suono puro e ben sintonizzato e che a sua volta non ha niente a che fare con lo schiarimento del timbro, come invece i francesi hanno pensato (che sarebbe come se uno interpretasse il concetto di “discorso chiaro” come sinonimo di “discorso bianco”).

Per contro, la vocale ‘A’ mista ad ‘O’ e i cosiddetti “suoni intervocalici”, propugnati da Celletti sulla scia dei francesi, negano la “chiarezza” del belcanto (che, ripetiamo, NON è schiarimento intenzionale del timbro, ma mantenimento della limpidezza e lucentezza dei suoni puri), di conseguenza rendono opachi i suoni e costringono quindi il cantante a COMPENSARE questa riduzione della BRILLANTEZZA NATURALE, spingendo il suono in quell”avanti’ palatale, che, come abbiamo visto, è invece la sede della BRILLANTEZZA ARTIFICIALE e una delle cause della chiusura della gola e del suono spinto. È stupefacente a questo proposito notare un fatto incredibile: a partire dal trattato di Garcia (anno 1840) fino ai nostri giorni, la maggioranza dei più grandi cantanti riproporranno acriticamente e pappagallescamente la panzana di Garcia delle ‘vocali miste’ o ‘adattate’ (leggi ‘distorte’) come mezzo per dare rotondità al suono e far sì che le vocali non risultino schiacciate o “non vadano indietro” (espressione che riflette la concezione acustica grossolana a cui si ispirano questi cantanti, poi divenuti, ahinoi, insegnanti di canto). La confusione mentale è tale per cui per molti di loro le vocali ‘miste’ (che foneticamente sono vocali mescolate con una vocale POSTERIORE) e l’oscuramento intenzionale del suono (che è un altro modo per fare arretrare il suono) sarebbero i mezzi tecnico-vocali da utilizzare paradossalmente per “portare o tenere la voce avanti e in maschera” (sic). Ora, il il fatto che nessuno prima di Garcia abbia teorizzato una cosa del genere non fa sorgere in queste persone nessun sano dubbio sulla validità di queste teorie, un dubbio insomma tale da farle arrivare a capire che se fino al 1840 i cantanti erano sempre riusciti tranquillamente a cantare con voce rotonda senza pensare minimamente ad adottare questi espedienti, ciò significa, molto banalmente, che essi non sono altro che il frutto di un’ interpretazione sballata delle vere cause che danno origine a quel fenomeno. Qual è questo fenomeno? È il fenomeno acustico delle vocali cantate che, pur conservando la stessa purezza delle vocali parlate (condizione perché il suono non sia distorto), hanno una spaziosità e una rotondità che sono assenti nelle vocali parlate. Questo ha indotto molti a supporre erroneamente che le vocali cantate non abbiano nulla a che fare con le vocali parlate. Addirittura alcuni sono arrivati a sproloquiare di “vocali liriche” per distinguerle dalle vocali parlate, col che dimostrando lo stesso acume di chi teorizzasse l’ esistenza di un’ acqua de-idrogenizzata o di un colore verde al 100 %, cioè senza alcuna presenza di giallo nella sua composizione. Ora, è evidente che affermare che le vocali del canto devono essere pure come quelle del parlato significa essenzialmente che la cellula generatrice iniziale della vocale cantata (cellula creata dal suo concepimento mentale immediato) deve essere la stessa della vocale parlata. È questa a creare il nucleo, il focus, la sintonizzazione perfetta del suono, che poi viene RIGENERATO periodicamente e automaticamente grazie al mantenimento del MOVIMENTO ARTICOLATORIO del parlato. Ovviamente come un atomo non è fatto del solo nucleo, così anche nel caso dell’ ‘atomo vocale’ occorre che attorno al nucleo si crei uno ‘spazio vuoto’, spazio che nel canto è generato dalla distensione espansiva dell’inspirazione naturale globale. In questo modo e solo in questo modo il suono acquisisce rotondità senza che il suo nucleo venga ingrossato. Per contro, gli espedienti grossolani delle “vocali miste” e dell’ oscuramento diretto del suono sono i modi con cui si ingrossa il nucleo dell’ atomo vocale, con la conseguenza di distorcere il suono e appesantire l’ emissione. Il paradosso ironico (e simbolico) che ne deriva è questo: chi si compiace di pensare che questa sia la tecnica del “canto lirico”, ignora che invece essa non è altro che la ‘tecnica’ usata dal bambino quando, per fare l’ imitazione del cantante lirico, si mette a ‘fare il vocione’.

Purtroppo è tale la moderna infantile e saccente credenza secondo cui la natura sarebbe qualcosa di inferiore da ‘correggere’ e ‘perfezionare’ grazie alla ‘tecnica’, che molti di questi pappagalli inconsapevoli di Garcia sono arrivati a concepire l’ idea che il parlato, a differenza del canto, non si basi sul legato, ma su un’ articolazione scandita delle sillabe e su un continuo cambiamento di posizione delle vocali. Ovviamente un’idea del genere è solo il risultato della superficialità con cui viene osservato il fenomeno. In realtà è vero esattamente il contrario ovvero: la velocità con cui normalmente parliamo (che è quella che genera l’ illusione ottica della ‘segmentazione’ articolatoria) è solo il segno tangibile dell’ INSUPERABILE PERFEZIONE FUNZIONALE del sistema naturale dell’ articolazione-sintonizzazione. Riportando questa stessa articolazione dalla velocità del parlato al tempo dilatato del canto, si può notare chiaramente come essa in realtà si basi su un movimento FLUIDO, SCIOLTO ED ESSENZIALE, che è esattamente quello da cui sgorga il legato del canto. Per cui quando certi insegnanti danno l’ esempio di una frase cantata legata, ignorano che quel legato (se è il vero legato del belcanto e non un surrogato pseudo-lirico) è reso possibile solo dal mantenimento dello stesso movimento articolatorio sciolto ed essenziale del parlato (associato ovviamente a uno spazio di risonanza arretrato più ampio di quello del parlato).

Quella della ‘posizione unica di tutte le vocali’ nel canto (di cui hanno parlato molti cantanti, tra cui Beniamino Gigli) è invece un’ altra illusione percettiva, generata dalla perfezione e dall’ ESSENZIALITA’ con le quali avviene naturalmente il movimento articolatorio e delle quali si può prendere coscienza semplicemente dicendo in maniera fluida e naturalmente legata la successione delle vocali ‘AEIOU’. La prova che l’ idea della ‘posizione unica di tutte le vocali’ è un’ illusione, è data dal fatto che la REALTÀ FONETICA ci dice che esistono VOCALI ANTERIORI, VOCALI CENTRALI E VOCALI POSTERIORI, il che significa che ogni vocale è obiettivamente in una posizione diversa rispetto alle altre.  Che cos’ è allora che rende possibile l’ illusione della ‘posizione unica’? È per l’ appunto la perfezione, precisione ed essenzialità con cui avviene il movimento articolatorio naturale. È questo a far sì che, come succede coi raggi di una ruota (ognuno dei quali è in una posizione diversa dagli altri, ma fa capo allo stesso cardine centrale), così anche nell’ articolazione è come se esistesse un cardine invisibile a cui fanno capo tutte le vocali, pur rimanendo ciascuna nel SUO spazio. Pertanto quando qualche maestro di canto, per dimostrare l’ inapplicabilità dell’ articolazione parlata al canto, dà l’ esempio di una frase parlata ‘schiacciata’ e ‘scandita’ invece che legata, sta barando: in realtà non sta parlando come effettivamente parla nella vita di tutti giorni (magari senza esserne consapevole), ma sta facendo l’imitazione caricaturale del parlato, aggiungendo le caratteristiche negative che secondo lui avrebbe il parlato e che invece non ha.

Come per il tabù dell’innalzamento del torace, anche per il tabù del sorriso è individuabile la precisa ‘genealogia’ degli errori conoscitivi che l’ hanno generato. Il ‘sorriso’ (interno) del belcanto, contrariamente a quanto molti pensano, non è l’ imposizione di una forma prefissata, ma è un’ indicazione finalizzata a due scopi:
1 – bilanciare acusticamente (garantendo la presenza della brillantezza) l’ arrotondamento del suono, creato dalla gola, che nel caso del canto (a differenza di quanto succede nel parlato) deve essere aperta;
2 – mantenere la NATURALE ORIZZONTALITÀ della forma della bocca, che è la fonte REALE della brillantezza della voce.
A questo proposito si può affermare che la bocca normale (cioè naturalmente orizzontale) è divenuta un problema (soprattutto con vocali come la ‘A’) solo DOPO che un anonimo idiota (l’ idiota zero del moderno anti-belcanto) ebbe l’idea di prescrivere l’ obbligo di portare i suoni ‘avanti’ (sul palato duro e/o nella ‘maschera’). Come conseguenza diretta di questa idiozia, succede che le vocali, soprattutto quelle orizzontali, diventano schiacciate. Con lo stesso procedimento logico perverso, già attuato per la respirazione, anche in questo caso si decise a questo punto non di buttare a mare l’ idiozia innaturale (rappresentata dalla prescrizione del ‘suono avanti’ ), ma di modificare le vocali e ‘ovalizzare’ la forma della bocca esattamente come, nel caso della respirazione, si era deciso di prescrivere il ‘sostegno’ attivo dei muscoli addominali, invece di eliminare l’ idiozia del divieto di innalzamento del torace inspirando. Si può ipotizzare anche una diversa successione di causa/effetto, che ha portato a questa deviazione della tecnica vocale italiana, e cioè: la trasformazione dello spazio di risonanza della gola da legittima cavità di risonanza (quale era ai tempi del belcanto) in diabolus in voce, ossia ‘spazio tabù’, ha determinato sia la verticalizzazione artificiale dello spazio (con o senza protrusione delle labbra) come mezzo per trovare quello spazio non più rinvenibile nella gola, sia l’ abolizione del sorriso. Di questo moderno ‘ribaltamento’ anti-belcantistico della tecnica vocale italiana storica è espressione e testimonianza la seguente affermazione di Celletti:

“Nel gergo vocale c’è un sinonimo di ‘cantare in maschera’ ed è ‘cantare avanti’. Il suono fuori della maschera o che va indietro, coincide con l’ emissione ingolata, che accentua l’ uso della cavità faringea e riduce l’ impiego delle risonanze facciali e, in particolare, dell’ amplificatore più potente, che sono le fosse nasali. All’ emissione ingolata o faringea alludevano vecchi trattatisti come Tosi e Mancini, quando parlavano di suoni sostenuti con contrazioni della gola. Invece la voce va tenuta avanti, acciocché risuoni contro il palato e contro le pareti anteriori della bocca. Che poi significa avanti.”

Anche in questo caso è il caso di chiarire che, nonostante Celletti cerchi (incredibilmente!) di mettere in bocca ai belcantisti Tosi e Mancini assurdità del genere, questi non hanno mai fatto il minimo cenno a suoni da portare “avanti” o “contro il palato duro” e neppure si sono mai sognati di sostenere la vera e propria panzana acustica delle fosse nasali come “l’ amplificatore più potente” della voce”, ma hanno scritto esattamente il contrario, tuonando sia contro i “belati” e il “vizio orribile del naso” (che, per definizione, sono il risultato del suono portato nelle “fosse nasali”), sia contro i “nitriti”, che Mancini lucidamente individua come il risultato dell’ intenzione di usare SOLO la bocca e non ANCHE la gola come cavità di risonanza (la prima essendo la causa della brillantezza, la seconda essendo la causa della rotondità del suono).

Arrivati a questo punto, possiamo chiederci: chi ha introdotto allora nel canto la novità del “suono avanti” e del suono in “maschera”? Per il suono ‘avanti’ dobbiamo riportarci appunto a Garcia, che cita il palato duro come ‘meta’ dei viaggi della “colonna sonora”. La ‘maschera’ invece (che all’epoca era sinonimo di cavità nasale) si spiega come prodotto di quell’ operazione molto poco ‘scientifica’ che ha nome ‘nazionalismo culturale’, operazione nota anche come ‘portare acqua al proprio mulino’. In altre parole, essendo la lingua francese molto nasale, agli ‘scienziati’ francesi dell’ Ottocento semplicemente non parve vero di poter proclamare ufficialmente che il NASO è la cavità di risonanza per eccellenza del canto ed è da quel preciso momento in poi che il ‘Parmesan vocale’ dei francesi diventerà in tutto il mondo il vero Parmigiano. Il tutto con la scandalosa certificazione di autenticità, firmata da studiosi italiani del belcanto come appunto Celletti. Il processo di nasalizzazione della tecnica vocale (vera e propria inversione di tendenza rispetto alla concezione del belcanto italiano, che vedeva nel suono nasale un “vizio orribile”) si nota già nel Metodo del Conservatorio di Parigi del 1803, il quale per un verso ripropone la scomunica belcantistica dei suoni nel naso, ma per un altro verso (e con scarso rispetto della logica) individua poi nei seni nasali e paranasali le cavità di risonanza della voce. Da qui alla follia di Jean de Reszke, (famoso tenore e maestro di canto operante a Parigi verso la fine del secolo), che affermerà che la soluzione di tutti i problemi vocali si trova nel naso (!), il passo (purtroppo) sarà breve…

Nel riproporre questa assurdità anti-acustica e anti-belcantistica, Celletti dimostra inoltre di ignorare due fatti. Primo fatto: all’epoca in cui furono elaborate queste teorie, il suono ‘avanti’ e il ‘suono in maschera’ non erano sinonimi, come invece mostra di credere Celletti. A provarlo sono sia la Marchesi (allieva di Garcia) sia Lilli Lehmann, che individuano entrambe nella parte anteriore della bocca la sede dei suoni centrali della voce, nella cavità nasale (alias ‘maschera’) la sede dei suoni medio-acuti e nelle cavità paranasali la sede degli acuti: un’ assurdità acustica molto più complicata di quella immaginata da Celletti. Secondo fatto: che le fosse nasali NON siano affatto “l’amplificatore più potente della voce”, ma siano, al contrario, la sordina della voce, risulta evidente, anche senza scomodare la scienza, dalla comune esperienza, la quale ci dice che se dobbiamo alzare la voce per richiamare l’ attenzione di qualcuno, magari a distanza, non mugoleremo ‘mmmm’, ma esclameremo “Ehi!”, ossia non manderemo il suono nel naso (che è una cavità di assorbimento del suono), ma lo faremo uscire dalla bocca. D’altra parte, se pensiamo che “MUTO” è una parola onomatopeica che allude proprio alla formazione dei suoni non articolati, prodotti a bocca chiusa, suona un po’ paradossale l’ idea, fatta propria da Celletti, che il canto derivi o possa trarre giovamento dal suo contrario e cioè dal mutismo. Dei cosiddetti “muti”, con cui si intendono i ‘vocalizzi a bocca chiusa’ (locuzione che di per sé un vero e proprio ossimoro fonetico), Celletti fa un altro caposaldo del suo ‘personal belcanto’, dimenticando che essi possono servire al massimo come espediente per riscaldare la voce quando il cantante si trova in luoghi dove non gli è consentito farsi sentire troppo, oppure come rimedio per filtrare la corposità in eccesso nel caso di voci appesantite. Che la voce debba essere educata esercitandosi per due ore al giorno con i ‘muti’ è invece una scemenza che solo il castrato Mustafà (se è vera la testimonianza di Emma Calvé) ha teorizzato, ma che nessun trattatista del belcanto ha mai messo per iscritto. Perché si tratta di una scemenza? Perché se la fonazione umana (parlata e cantata) si basa sull’ articolazione, ovvero sul continuo cambiamento di vocali, e se l’educazione vocale si basa sul mantenimento, a condizioni respiratorie mutate, della stessa scioltezza e fluidità dell’ articolazione parlata (che così funge da sintonizzatore della voce), educare la voce con i suoni a bocca chiusa (cioè con la non-articolazione) è esattamente come esercitarsi a camminare appoggiando per terra le ginocchia invece che i piedi.

Questo è il risultato a cui si approda quando di decide di sostenere a tutti i costi una propria personale tecnica del belcanto italiano, ricavata facendo tacere testimoni chiave e amplificando invece a dismisura la voce di anti o post-belcantisti, per di più francesi o francesizzati. Anche la scienza moderna ha confermato in pieno la validità di quanto avevano intuito i belcantisti, ossia: la ‘maschera’ NON è una cavità di amplificazione ma, al contrario, è una cavità di assorbimento e riduzione del suono, e tutti i tentativi di portare la voce in quella zona anatomica portano al suono ‘spoggiato’, al “vizio del naso”, alla gola stretta e alla voce spinta. Da che cosa nasce allora la ‘maschera’ e qual è il vero significato attribuitole da chi per primo utilizzò questa metafora che, contrariamente a come l’ hanno interpretata i ‘rinofili’ francesi, all’origine non era una metafora risonanziale ma spaziale? È probabile che essa nasca come illusione percettiva originata dal fatto che delle due cavità di risonanza reali della voce e cioè, appunto, la gola e la bocca, la prima, la gola, è anatomicamente uno spazio che arriva molto in alto, fino al livello del naso, mentre la seconda, la bocca, è lo spazio dove si svolge il movimento circolare-orizzontale dell’ articolazione, che è detto ‘pro-nuncia’ perché avviene ‘avanti’. La sintesi percettiva, operata dalla mente, tra altezza e anteriorità, ha generato il miraggio di quella forma simbolica che ha preso il nome ‘maschera’ (con riferimento ovviamente alla mezza maschera veneziana, che ha la sua base SOPRA il livello della bocca). Tenuto conto di tutte queste considerazioni, preoccuparsi, come fa Celletti e molti altri assieme a lui, che il suono non ‘vada indietro’ e non diventi ‘di gola’ ha lo stesso senso che pensare che le gocce di pioggia che formano l’arcobaleno possano spegnere i raggi del sole o che i raggi del sole possano asciugare le gocce di pioggia. In realtà quando un suono è percepito ‘indietro’ o ‘ingolato’, lo sbaglio non è dato dal suo essere ANCHE in gola, ma dal fatto che lo spazio di risonanza, invece che sferico, è diventato verticale, il che è segno che nella composizione acustica del suono è stata esclusa la cavità che è la fonte della brillantezza e cioè la bocca, la quale naturalmente è orizzontale, ed è divenuta dominante la verticalità (data dal fatto che la gola è verticale), squilibrio questo che determina immediatamente una riduzione della brillantezza, percepita come arretramento del suono.

In questo senso la confusione teorica di Celletti è totale e a dimostrarlo è anche un’altra sua affermazione, secondo cui quello che lui chiama “il canto immascherato” avrebbe tra i suoi effetti positivi anche quello di ridurre all’ essenziale l’articolazione delle parole, che in tal modo sembrano si facciano da sole, come quando parliamo. Quello che qui sfugge a Celletti è che i rapporti di causa/effetto tra i due fenomeni vanno invertiti, ossia non è il fantomatico ‘immascheramento’ a produrre l’ articolazione essenziale, ma è quest’ ultima (più precisamente i movimenti articolatori sciolti ed essenziali del semplice ‘dire’) assieme alla giusta inspirazione, a creare l’ illusione percettiva della voce ‘in maschera’. Analogamente non è l’ arcobaleno a creare le gocce di pioggia e i raggi del sole, ma è la combinazione di questi ultimi a creare l’ effetto arcobaleno. All’ idea di cancellare le teorie di Manuel Garcia jr. dalla didattica vocale e di riportare la vera tecnica vocale italiana a quanto hanno scritto i castrati Tosi e Mancini, qualcuno, influenzato da una storia del canto italiano manipolata e riscritta dai foniatri francesi dell’ Ottocento, probabilmente reagirà pensando che non è verosimile che la tecnica vocale dei castrati sia stata e debba tornare ad essere la stessa con cui è stato affrontato il repertorio operistico dell’ Ottocento e che quindi la ‘riforma’ di Garcia in un certo senso abbia una sua giustificazione. Così NON è, e la prova è data da un maestro di canto e trattatista, coetaneo di Verdi, di nome Francesco Lamperti.

Di lui in Francia si diceva che gli studenti andavano a studiare nella sua scuola a Milano con lo stesso spirito con cui i cristiani vanno a Gerusalemme e i musulmani vanno alla Mecca. Il soprano canadese Emma Albani, sua allieva, scrisse significativamente:

“Francesco Lamperti è stato a mio avviso il miglior maestro di canto del suo tempo, sia per quanto riguarda la tecnica di emissione, sia per quanto riguarda il vero metodo italiano, un metodo che purtroppo oggi si sta estinguendo.”

Ci si può chiedere a questo punto: in che cosa la concezione tecnico-vocale di Lamperti, come maestro del VERO metodo italiano secondo la testimonianza di Emma Albani (che quindi già era consapevole della deviazione foniatrica della tecnica vocale, in atto in quel periodo e destinata poi a trionfare), divergeva dalle teorie di Garcia e continuava invece gli insegnamenti di Tosi e Mancini? Innanzitutto nel riproporre il concetto belcantistico di “chiarezza”, da intendersi ovviamente, come precisa Lamperti, non come “timbro bianco e sguaiato”, ma come naturale lucentezza del suono ben sintonizzato. A tale proposito Lamperti prescrive di esercitarsi con la vocale ‘A’, aprendo il fondo della gola e

“facendo attenzione che la A non si cambi in O, poiché tale inflessione trascinerebbe al timbro gutturale, locché potrà dare alla voce un carattere più rotondo in una sala, MA LA RENDE MUTA E SENZA VIBRAZIONE IN UN TEATRO.”

Con questa affermazione Lamperti smonta tutta la mistificazione foniatrica della “nuova specie di voce cantata”, basata sul timbro scuro, sullo spazio di risonanza verticale e sulla modificazione genetica delle vocali, che è la fandonia condivisa e riproposta da Celletti. In altre parole, il “timbro scuro” (ossia l’ oscuramento volontario del timbro) sfocia direttamente nel suono gutturale, intubato; un suono che, come ha evidenziato Lamperti sulla scia dei belcantisti, può fare effetto in una sala, ma che in un teatro non si sente e questo per la semplicissima ragione che il fattore acustico che fa ‘correre’ la voce e la rende udibile in un teatro, è la brillantezza (alias “chiarezza”). Non esiste infatti un “timbro scuro”, concepito come legittimo modello acustico e spaziale alternativo al “timbro chiaro”, come ha voluto far credere Garcia. Pertanto non si tratta banalmente di preferire il colore chiaro al colore scuro o viceversa, ma si tratta di creare le condizioni perché la voce mantenga sempre la sua perfetta sintonizzazione acustica, sintonizzazione che corrisponde alla percezione, che deve sempre avere CHI CANTA, della purezza e limpidezza del suono, INDIPENDENTEMENTE dalla sua rotondità. L’oscuramento artificiale del suono e la verticalizzazione dello spazio di risonanza (che poi verranno ulteriormente esasperati dal metodo denominato ‘affondo’, che è una diretta filiazione del ‘colore scuro’ di Garcia) vengono acutamente individuati da Lamperti come il mezzo artificiale per dare rotondità al suono a spese della sua udibilità. Come già avevano capito i belcantisti (e come ancora non hanno capito i sedicenti belcantisti moderni…), l’ errore di questo espediente non consiste nell’ utilizzare la gola come spazio di risonanza, ma nel verticalizzarne la forma di questo spazio. La cosiddetta ‘gola aperta’ infatti è una gola aperta non verticalmente, ma orizzontalmente (motivo per cui Lamperti invita a “tenere ben dilatato il fondo della gola”, mentre Pertile parlava analogamente di “gola larga”). Anche Garcia (a parole) alludeva a qualcosa del genere quando nel suo trattato prescriveva di aprire “i pilastri della gola”, ma non si rendeva conto che le sue prescrizioni meccaniche di innalzamento diretto del palato molle e di abbassamento diretto della laringe, unite all’idea di un “tubo sonoro” allungato in questo modo, erano di per sé sufficienti a distruggere in partenza ogni idea di ‘spazio sferico’ (invece che verticale) e di apertura della gola come allargamento e non come allungamento. Lamperti procede poi a un’altra sacrosanta demolizione, quella della superstizione foniatrica della ‘maschera’, scrivendo:

“La voce più difettosa è quella i cui suoni si ripercuotono nei seni frontali e detta perciò “voce frontale”. Ma tutti sanno che la fronte non dà né può dar voce. (…) Per formare il suono frontale si stringe la gola in modo da impedire il libero sprigionarsi dell’aria. (…) Gli altri DIFETTI sono quelli di maschera, di palato ecc.”

A questo punto e in conclusione, non può non lasciare stupefatti e amareggiati la seguente constatazione. Francesco Lamperti e Manuel Garcia jr. rappresentano storicamente le due strade del bivio che si era aperto a quel tempo nel canto: la strada del belcanto e la strada del canto foniatrico. Ebbene, quale delle due strade deciderà di prendere l’italiano Rodolfo Celletti un secolo dopo, spacciandola per la strada del belcanto? Non quella del maestro italiano Francesco Lamperti, come aveva fatto molti anni prima significativamente il soprano canadese Emma Albani, ma, incredibilmente, quella del ‘protofoniatra’ franco-spagnolo Manuel Garcia junior. Il risultato? Eccoci qui, a quasi due secoli di distanza dalle trovate di Garcia e dei foniatri francesi ottocenteschi, a doverci ancora sorbire tristemente, nel Duemila, le patacche tecnico-vocali del “sostegno del diaframma”, della “maschera”, della “proiezione”, del suono “avanti”, delle “vocali adattate”, dei “suoni intervocalici” e delle bocche ovali.

Antonio Juvarra


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3 pensieri riguardo “Antonio Juvarra – “Rodolfo Celletti, belcantista di giorno e malcantista di notte”

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