Dopo quasi sette mesi, la Staatsoper Stuttgart ha finalmente ospitato di nuovo una rappresentazione d’ opera riprendendo da dove il discorso si era interrotto, ossia nel segno di Mozart. L’ ultima recita operistica andata in scena prima della chiusura dovuta alla pandemia era stata infatti una recita de Le Nozze di Figaro e come primo spettacolo di questa stagione autunnale i 340 spettatori che sono riusciti a procurarsi un posto hanno potuto assistere a Die Zauberflöte, nella produzione allestita originariamente per la Komische Oper Berlin nel 2012 da Barrie Kosky e dal gruppo inglese 1927, specializzato in film d’ animazione. Uno spettacolo molto particolare già nella sua impostazione, qui ulteriormente rielaborata da Suzanne Andrade per adattarla ai criteri di sicurezza imposti dalle norme di distanziamento sociale attualmente vigenti. In pratica, l’ azione scenica era affidata esclusivamente a un gruppo di attori che si muovevano su uno sfondo costituito da un cartone animato, in cui si alternavano continuamente immagini e colori a tratti richiamanti il cinema surrealista degli anni Venti. In pratica il pubblico in sala assisteva a una specie di film muto, con i cantanti che eseguivano le loro parti stando nei palchi di proscenio e i dialoghi parlati che venivano completamente omessi. Molto carine, in questo contesto, erano le caratterizzazioni di Papageno e Monostatos, quest’ ultimo vestito come il protagonista del celebre film muto espressionista Nosferatu – Eine Symphonie des Grauens di Friedrich Wilhelm Murnau. Ma tutto lo spettacolo si lasciava guardare con piacere per l’ abilità tecnica della realizzazione e la bravura davvero funambolica degli attori, tra cui meritano di essere nominati almeno Martina Borroni (Pamina), Michael Fernandez (Papageno), Sebastian Petrascu (Monostatos), Martin Tyszko (Sarastro) e Lorenzo Soragni (Tamino), che doppiavano i ruoli dei protagonisti principali.
L’ unico problema di questa impostazione, oltre al fatto che non si può immaginare come esempio adattabile anche per altri titoli, è costituito dal fatto che il capolavoro mozartiano viene visto esclusivamente sotto il profilo fantastico e favolistico, trascurando tutti gli altri contenuti di una vicenda che è piuttosto complessa. Il gioco funziona perché, come ripeto, Die Zauberflöte è un testo che si presta ad essere interpretato da molte diverse angolazioni ma l’ esperimento non è a mio avviso replicabile in altri contesti o per altre opere del repertorio. Ad ogni modo, come dimostrazione di creatività presentata muovendosi strettamente all’ interno delle attuali regole di sicurezza, la parte scenica costituiva un esperimento tutto sommato intelligente e un tentativo da apprezzare.
Purtroppo, le suddette norme di sicurezza hanno imposto pesanti limitazioni a una parte musicale che avrebbe potuto essere di ottima qualità. Ma non si può eseguire Die Zauberflöte con un organico ridotto a tredici strumentisti (uno per ogni voce del quintetto d’ archi e dei fiati, con l’ esclusione dei tromboni e le parti mancanti surrogate da un fortepiano) senza che tutti gli equilibri sonori della partitura risultino compromessi e il suono risulti ectoplasmico. Peccato, perché la direzione musicale di Hossein Pishkar, trentaduenne musicista iraniano dal 2012 residente in Germania dove ha studiato alla Robert Schumann Hochschüle Düsseldorf per poi perfezionarsi alle masterclasses dell’ Italian Opera Academy di Ravenna con Riccardo Muti e vincitore nel 2017 il Deutsche Dirigentenpreis (DDP) organizzato dal Deutscher Musikrat, è apparsa efficace per l’ impostazione ritmica vivace e scattante, con un taglio lodevolmente caratterizzato una scansione leggera e fluida, oltre che per la bravura tecnica nel coordinare buca e cantanti in una situazione che risultava, a causa delle distanze, abbastanza complicata da gestire. Di ottimo livello anche la compagnia di canto, nella quale spiccavano la Pamina intensa e appassionata di Josefin Feiler, cantata con voce timbricamente luminosa, educata e buona consapevolezza stilistica, oltre a una pronuncia del testo molto accurata, il Sarastro autorevole del giovane basso bavarese David Steffens, che si imponeva per la bellezza del mezzo vocale e il tono interpretativo ricco di calda umanità, il Tamino del tenore cinese Mingjie Lei, dalla voce fresca e accattivante oltre che di bellissimo colore e il Papageno del trentunenne baritono Johannes Kammler, dalla voce timbricamente interessante oltre che complessivamente ben educata dal punto di vista tecnico. Ottima anche la prova del soprano austriaco Beate Ritter, che nella parte della Königin der Nacht ha messo in mostra tutta la saldezza e l’ incisività di un registro acuto ammirevole per sicurezza e proiezione, brave anche le Tre Dame cantate da Catriona Smith, Maria Theresa Ullrich e Stine Marie Fischer. Bravi anche tutti gli altri interpreti dei ruoli minori, con una citazione particolare per il Monostatos di Heinz Göhrig, tenore caratterista qui apprezzatissimo e una delle voci storiche della Staatsoper, interprete efficace di moltissimi ruoli diversi tra loro. Nonostante i compromessi pratici imposti alla parte musicale, il pubblico si è molto divertito e ha applaudito a lungo tutti i protagonisti di una produzione che è riuscita comunque a raggiungere un buon risultato artistico d’ insieme. Per il momento ci accontentiamo, in attesa che la situazione della pandemia migliori e ci permetta di assistere nuovamente a spettacoli di tipo normale.
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