“Involuzioni tecnico-vocali: dalla voce alta alle maschere foniatriche” di Antonio Juvarra

Dopo la pausa estiva, con l’ arrivo del mese di settembre riprende la rubrica di Antonio Juvarra. In questo articolo il docente di canto veronese si sofferma sul concetto della “maschera” nel canto. Bentornato ad Antonio e buona lettura a tutti.

 

INVOLUZIONI TECNICO-VOCALI: DALLA ‘VOCE ALTA’ ALLE ‘MASCHERE’ FONIATRICHE

Ci fu chi, semplicemente facendosi un bagno, scoprì la legge per cui un corpo galleggia sull’ acqua. Il suo nome era Archimede. Otto secoli più tardi, nel 600 d. C., uno studioso di nome Isidoro di Siviglia trovò (ma non sappiamo da dove scaturì il suo eureka) la formula che permette al suono cantato di galleggiare (o volare) sul fiato. Scoprì che, come il corpo umano e la terra non hanno bisogno di alcun ‘sostegno’ per galleggiare sull’acqua e volare nel vuoto, così anche il suono cantato poteva librarsi nell’aria e ritornare alla sua natura ‘aerea’, se solo non veniva appesantito e zavorrato in partenza. Passarono altri quattro secoli e un monaco benedettino, Guido d’Arezzo, confermò la verità della scoperta di Isidoro, che con la sua formula per primo aveva individuato le componenti strutturali, ‘chimiche’ del vero suono ‘aereo e ‘umano’, definendolo “alto, luminoso e morbido”. Tutto nacque e nasce da qui. Dire che un suono, per essere ‘alto’, deve essere concepito come ‘alto’, sembrerebbe una tautologia. È invece una profezia che si autorealizza o, per meglio dire, una ‘previsione’ che diventa creazione, come sempre magicamente succede nel vero canto. ‘Pre-vedere’ senza ‘pre-occuparsi’ è la condizione perché il suono sia concepito nel modo giusto, cioè non fabbricandolo artificialmente, ma lasciandolo fluire dall’ apparente nulla in cui era, prima di entrare nella dimensione del manifestato. Il tutto secondo la ricetta dei miracoli: rilassarsi, ‘vedere’ e lasciare che accada. Senza vera ‘altezza’ non c’ è suono vero, ‘sul fiato’, ma solo suono o piatto o grosso o spinto o ‘ipertimbrato’ o ‘arioso’ invece che ‘aereo’. L’ altezza del canto è ciò che realizza l’ eterna aspirazione dell’ uomo a volare e tutto il canto vive delle metafore dell’ aria e del volo. Essa è consustanziale alla bellezza, se è vero che “la bellezza è nostalgia dell’ altezza, è librarsi nell’ aria, liberati dal gioco; la bruttezza, al contrario, è richiamo al basso, conato d’ inferno, vincolati dal giogo.” (Marcello Veneziani)

Questa altezza, che potremmo definire l’ altezza ‘buona’ del canto è quindi essenzialmente (ma non solo) uno stato di coscienza, un calmo sorvolare e sovrastare dall’ alto il fenomeno, è insomma un senso di altezza come dato di partenza, che non deriva da nessun tentativo né di raggiungere il suono dal basso all’ alto, né di proiettarlo, né di ‘girarlo’ o comunque ‘portarlo’ in alto nelle mitiche quanto inesistenti ‘cavità di risonanza alte’. Quest’ ultima, per contro, è l’ altezza ‘cattiva’ del canto, quella che storicamente si impose a seguito del processo di meccanizzazione del canto, iniziato con la didattica foniatrica. Tutto porta a credere che anche l’ espressione ‘suono in maschera’ sia nata NON come indicazione anatomica e ‘balistica’ (secondo i dettami di una sedicente ‘scienza’ del canto che ignora l’ABC dell’acustica, ma che tuttora continua ad affascinare molti) ma come semplice sensazione espressa con una metafora. Insomma un fenomeno analogo a quello dell’ ‘appoggio’, del ‘giro’, della ‘copertura’, altrettanto miopemente interpretati col tempo in senso letterale e meccanico, e in tal modo totalmente travisati. La storia della maschera è appunto la storia di un progressivo fraintendimento. Come accadde con la respirazione belcantistica, totalmente stravolta con la nascita, a metà Ottocento, della respirazione diaframmatico-addominale, anche l‘ altezza di Isidoro fu profanata dagli scienziati materialisti della voce. Sentendo i cantanti parlare di ‘suono alto’ e ritenendosi ‘per statuto’ più intelligenti di loro, credettero di individuare nella cavità nasali e paranasali la causa scientifica di quelle sensazioni nebulose, assecondando in tal modo la tendenza a ridurre e delimitare in un ambito strettamente (e angustamente) anatomico e materiale tutto ciò che non può essere circoscritto e misurato con precisione, pur rimanendo perfettamente reale. La scienza dell’ Ottocento, per sua natura riduzionistica, aveva insomma creduto di poter ricondurre il fenomeno della ‘voce alta’ a una presunta risonanza localizzata nelle cavità nasali e paranasali, ma poi, a distanza di un secolo, quella stessa scienza avrebbe riconosciuto quelle cavità come ininfluenti ai fini dell’ amplificazione del suono, assimilandole addirittura a cavità di assorbimento e smorzamento del suono, attribuendo ad esse quindi la proprietà opposta a quella ‘magica’, inizialmente ipotizzata.
Ovviamente l’ individuazione errata della causa di un fenomeno non implica che il fenomeno non esista, conclusione che equivarrebbe al classico buttare via il bambino (la ‘voce alta’) con l’ acqua sporca. Il bambino ‘voce alta’ continua infatti a rimanere vivo e vegeto nella tecnica vocale, anche se nel frattempo l’ acqua sporca (la ‘maschera’ in versione foniatrica) è finita (giustamente) negli scarichi della storia.

Insomma, se il concetto di ‘voce alta’ ritorna periodicamente da più di millequattrocento anni (da Isidoro da Siviglia a Guido d’Arezzo a Crescentini a Caruso e a Beniamino Gigli) a ricordarci con la stessa assertività evocativa del dito che indica la luna, qual è la dimensione del vero canto, da parte nostra non possiamo, non fosse altro che per una questione di intelligenza e di rispetto, buttarlo via e rimpiazzarlo col moderno prodotto (di serie C), chiamato suono ‘avanti’, ‘fuori’, ‘proiettato’ ecc., prodotto che sta al suono ‘alto’ del belcanto come il precipitare sta al volare e come Allevi sta a Mozart. Esaminiamo il perché, partendo dall’analisi degli elementi che sono all’origine dell’effetto ‘voce alta’. Il primo di questi elementi va individuato nella tendenza naturale della mente a interpretare come suono ‘alto’, che galleggia sul fiato, il suono ben sintonizzato. Questo per lo stesso motivo per cui la mente interpreta le variazioni di lunghezza d’ onda della luce come ‘colori’, colori che non cessano quindi di essere una precisa realtà, anche se non appartengono alla dimensione dell’ ‘obiettività esterna’, ma a quella dell’ universale soggettivo. Come abbiamo visto, l’ altezza del suono è da intendersi quindi (in primis, ma non esclusivamente) come altezza mentale. A rafforzare questa sensazione concorrono per altro anche precise componenti fisiologiche. Esse sono date dall’ apertura naturale, effettuata “in virtù della respirazione” (Caruso), della cavità di risonanza della gola che, com’ è noto, è un ‘edificio a tre piani’, il cui piano più alto, rinofaringe, è posto al di sopra del piano della bocca e dietro il naso. Questo piano alto, come abbiamo visto, non è il risultato di nessun tentativo di portare i suoni in alto, ma corrisponde allo stato di coscienza creato dal corretto accordo acustico tra le due uniche reali cavità della voce cantata: la bocca e la gola. In base ai principi della psicologia della Gestalt, secondo cui “il tutto è più della somma delle sue parti”, anche nel canto il giusto collegamento tra le parti (gola e bocca) sfocia infatti in un tutto percepito come fenomeno sovraordinato rispetto alla somma dei suoi componenti: la ‘maschera’ appunto, che pertanto va interpretata come forma simbolica con cui la mente si rappresenta questo fenomeno di fusione/trascendenza, e non come entità materiale-anatomica reale.

La ‘voce alta’ insomma non va identificata con una precisa zona anatomica, rappresentando una sorta di ‘orientamento mentale’ che corrisponde a una linea alta immaginaria posta, appunto orientativamente, al di sopra del piano della bocca e al di sotto del livello degli occhi. Questa linea alta immaginaria può essere concepita come il diametro di una sfera, sfera che rappresenta idealmente lo spazio di risonanza del canto, ed è all’ altezza di questo diametro (quindi non sopra né sotto) che il cantante deve sempre rimanere, senza mai scendere né salire, pur lasciando che questo spazio aumenti progressivamente nella zona acuta della voce. Perché questo? Perché concependola a livello più alto, si rischia di perdere l’ accordo tra bocca e gola (Mancini) e il suono risulterà ‘campato per aria’ invece che ‘appoggiato sul fiato’, mentre concependola a livello più basso, il suono perderà la sua capacità di galleggiare e, appunto, risulterà ‘affondato’ invece che ‘appoggiato’. Non realizzandosi l’ accordo tra bocca e gola, che crea lo spazio di risonanza ‘tridimensionale’ del vero canto, il suono sarà o solo ‘di bocca’ (cioè tendenzialmente piatto e ipertimbrato) o solo ‘di gola’ (cioè tendenzialmente gonfio e sfuocato), dal che si evince che non esistono parti del corpo ‘cattive’ (la gola) e parti del corpo ‘buone’ (la bocca), ma solo buone o cattive RELAZIONI tra parti del corpo. ‘Maschera’ (nel suo significato originario) e ‘gola aperta’ sono da considerare pertanto le due facce della medaglia vocale: senza vera apertura della gola non c’ è vera maschera e viceversa. Potremmo definire provvisoriamente la prima come la dimensione della brillantezza, del focus e dello squillo, e la seconda come la dimensione della rotondità e dell’ampiezza, ovvero la terza dimensione dello spazio. La didattica del canto si esprime facendo ricorso a metafore e simboli spaziali. Essi sono un elemento indispensabile nell’ apprendimento di una disciplina come il canto (che non impegna solo l’ intelligenza razionale come succede con la matematica), ma proprio in quanto allusivi, sfumati e non precisamente definiti, danno spesso origine a malintesi ed errori. Pensare male porta a cantare male. Occorre quindi saper distinguere la ‘maschera’ come metafora dai rispettivi surrogati meccanici in cui storicamente essa è stata trasformata.

Per capire la differenza tra fenomeno autentico e surrogato, occorre partire dall’ analisi di ciò che la maschera è e di ciò che non è. Cominciamo da ciò che NON è. Essa non né nasalizzazione né twang, non è accentuazione artificiale delle sensazioni vibratorie nella zona frontale, non è ‘proiettare’ consapevolmente il suono, non è “fare la faccia cattiva” (Kraus) o “fare l’ urlo della strega” (Riggs), non è dilatare volontariamente le narici (Lilli Lehmann), non è in fine una cavità di risonanza, anatomica (identificata nei seni nasali e paranasali), dove inviare i suoni affinché magicamente si amplifichino. Queste cavità esistono ma NON sono cavità di risonanza. Anche in questo caso si ripresenta l’ eterno problema di ciò che appare e di ciò che è. Nel canto non possiamo inviare, indirizzare o proiettare i suoni da nessuna parte (per il semplice fatto che il suono NON è un oggetto), ma abbiamo purtroppo l’ ILLUSIONE di poterlo fare, il che è causa di gravi squilibri. Trattare una cosa per quello che è e non per quello che non è, dovrebbe essere il presupposto di qualsiasi attività umana, soprattutto scientifica. Che cosa potremmo dire di un tizio che per facilitare la propagazione della corrente elettrica lungo un filo, muovesse il filo o lo inclinasse verso il basso? La stessa procedura e la stessa logica seguono coloro che si propongono di ‘proiettare’ avanti (o in alto) il suono (o il fiato): ciò che in realtà succede è che mentre il cantante si illude di indirizzare e aiutare il cammino in fuori del suono, quest’ultimo, nella sua realtà effettiva (cioè acustica) di serie onde che si propagano nello spazio, sarà già centinaia di metri più avanti sia del fiato del cantante (ATTRAVERSO cui scorre), sia della zona anatomica (palato duro o molle che sia), scelta dal cantante come ‘bersaglio’ delle sue ‘proiezioni’.

Che cos’ è allora la maschera nel suo significato originario, non contaminato dalla sua deformazione foniatrica? Possiamo definire la (vera) maschera come la percezione del piano frontale della risonanza, che da sola avviene (come accade con l’arcobaleno) quando concorrono le seguenti condizioni:
1 – il suono è puro, quindi nasce già naturalmente (e NON viene mandato) in alto;
2 – la pronuncia è essenziale e fluida ed è realizzata senza movimenti bruschi e ‘scavati’ della mandibola;
3 – l’ apertura della bocca, eccezion fatta per gli acuti, è ‘raccolta’, come avviene nella voce parlata;
4 – la gola non è sede di contrazioni muscolari (per eccessiva chiusura o eccessiva apertura) e quindi è presente la percezione sia del suono ‘staccato’ dalla gola, sia di uno spazio alto e ampio;
5 – la voce è lasciata funzionare e non fatta funzionare.

‘Maschera’ e ‘gola aperta’ sono due poli opposti ma, se si rimane sul piano dell’ opposizione invece che dell’ integrazione, uno tende a predominare sull’ altro, a subordinarlo a sé. Se è la ‘maschera’ a predominare, avremo una pronuncia netta, ma un suono piatto, senza rotondità. Se è la gola aperta a predominare, avremo un suono gonfio, più o meno scuro, e una pronuncia macchinosa, non libera. Perché questo? Come abbiamo visto, lo spazio di risonanza del canto è uno spazio ‘bicamerale’, fluido, composto da gola e bocca, le quali contribuiscono in proporzione diversa alla creazione del suono, a seconda delle vocali e delle note da cantare. Se si riesce a stabilire questa relazione armonica tra le due cavità (il che avviene solo a condizione che venga garantita la loro indipendenza sinergica), la percezione soggettiva sarà appunto quella dell’ altezza-galleggiamento del suono e della risonanza libera. La relazione armonica che interviene tra le due cavità della bocca e della gola, è una relazione dinamica e flessibile. Il mantenimento di una pronuncia sciolta ed essenziale (come quando si parla) è ciò che favorisce queste condizioni vitali di motilità ed è la condizione necessaria perché si crei il fenomeno. Ogni tentativo di ‘prefabbricare’ uno spazio di risonanza predeterminato, sulla base di un controllo volontario di tipo statico, sfocia in una coordinazione muscolare rigida, che non è che un’ingessatura della voce. In questo caso la ‘maschera’ diventerà ben presto una banale maschera carnevalesca, destinata a coprire e soffocare la mobilità e la verità del ‘volto’ primigenio del suono, mentre la ‘colonna del fiato’ diventerà un bunker sotterraneo dove la voce rimane non radicata, ma sepolta.

Torniamo ora al concetto di ‘altezza’ del suono. Il suono ‘alto’ è l’ unico che riesca a risolvere l’ eterna antitesi ‘avanti-dietro’ della voce cantata, formulabile nel seguente modo: se sto ‘avanti’, il suono sarà ‘brillante’ e ‘a fuoco’, ma piatto e ipertimbrato; se invece sto ‘indietro’, il suono sarà rotondo, ma opaco e gonfio. La sintesi-fusione di questi due poli antitetici potrà avvenire pertanto solo ponendosi AL DI SOPRA DEL PIANO DI DI QUESTA CONTRAPPOSIZIONE BIPOLARE, il che implica che se invece rimaniamo al ‘piano terra’ della bocca, il suono non sarà mai ‘integrale’, ‘olistico’, ‘sintetico’, ‘superiore’ ma ‘parziale’, ‘limitato’, ‘inferiore’. Quando, con una metafora spaziale molto significativa, si parla di suono ‘trascendentale’, occorre ricordarsi che il piano che viene ‘trasceso’, è appunto quello della contrapposizione statica tra polo anteriore e polo posteriore della voce, per cui si può dire che la sintesi-fusione dei due poli, rappresentata dal suono ‘alto’, costituisce un vero e proprio ‘salto quantico’ della voce. Ne deriva che, anche se la voce si sente risuonare essenzialmente nella cavità della bocca (da cui il termine ‘orazione’, ossia, letteralmente, dire ‘con la bocca’), il suono solo ‘di bocca’, così come il suono solo ‘di gola’, sarà sempre un suono limitato, a differenza del suono ‘integrale’, frutto della giusta fusione tra risonanze della bocca (suscitate col giusto ‘dire’) e risonanze della gola, aperta grazie al giusto respiro, e percepito come suono ‘alto’. Quella ‘luce bianca’ che fonde in sé tutti i colori dell’ iride, corrisponde nel canto alla fusione-sintesi delle risonanze della bocca e delle risonanze della gola. Analogamente l’ acqua è la fusione di due sostanze, l’ idrogeno e l’ ossigeno, che nel fondersi cessano di esistere come ‘idrogeno’ e come ‘ossigeno’ per creare una nuova sostanza. Nel canto questa nuova sostanza, frutto della fusione del semplice dire e del respiro naturale globale, ha preso il nome, a partire dal VI secolo d. C., di “VOCE ALTA”.

Non è noto il nome di colui che per la prima volta, per evocare il senso della ‘voce alta’ nel canto, pensò ad una maschera. Una cosa però è certa: che mai avrebbe immaginato che di questa immagine simbolica sarebbero state elaborate interpretazioni, che hanno rapporto con l’idea originaria come il dito che indica la luna ha rapporto con l’ anatomia del dito. La ‘maschera’ del canto appartiene a quello speciale tipo di metafora, che ha nome catacresi e di cui certe espressioni come ‘le gambe del tavolo’ o ‘il collo della bottiglia’ sono dei classici esempi. Ora credere che, affinché si crei il fenomeno della voce ‘alta’, si debba ‘metterla’ nella ‘maschera’ è come credere che alle ‘gambe’ di un tavolo si debbano mettere le calze e al ‘collo’ di una bottiglia si debba mettere la cravatta. ‘Voce alta’, come abbiamo visto, è un concetto immateriale ed è essenzialmente uno stato di coscienza. Ad esso ovviamente corrisponde una precisa percezione fisica, che però non c’ entra nulla con la localizzazione delle vibrazioni e delle risonanze nel “massiccio facciale”, come a partire dalla seconda metà dell’ Ottocento la foniatria incominciò a fantasticare. Come spesso accade, a trasformare la metafora della maschera in oggetto (fanta)scientifico contribuì anche l’ influenza, molto poco scientifica, di quella nazione, la Francia, che alla fine dell’ Ottocento deteneva l’ egemonia politico-economico e culturale. Il che significa che se il francese non fosse una lingua pesantemente nasale, a nessun foniatra francese del tempo sarebbe mai saltato in mente di affermare che quella magica (e inesistente) cavità di amplificazione che qualcuno aveva erroneamente identificato col simbolo della ‘maschera’, includeva in sé, come ‘piano nobile’ dell’edificio, la cavità nasale, sede privilegiata dei suoni della lingua francese. A questa teoria aderirono incredibilmente, a conferma del potere fascinatore della scienza, non solo grandi cantanti poco intelligenti come Jean de Reszke, secondo il quale tutti i problemi vocali si potevano risolvere “mettendo la voce nella cavità nasale” (testuale), ma anche grandi cantanti intelligenti come Lilli Lehmann, che nel suo trattato ‘La mia arte del canto’ (1903), oltre a concepire il famoso disegno del volto con la dislocazione dei vari ‘punti di risonanza’ della voce in rapporto all’ altezza tonale, affermò anche che la risonanza totale della voce è facilitata molto dal “volume colossale” (?), che si creerebbe coi suoni della lingua francese.

Un fenomeno analogo di soggezione culturale a ragioni che di scientifico hanno ben poco, si è avuto recentemente con la teoria secondo cui il ‘twang’ (un prodotto della nasalità dell’anglo-americano) sarebbe da considerare una delle cause dello squillo della voce. Questo in totale antitesi con la concezione del belcanto, che nel “vizio del naso” aveva sempre visto uno dei peggiori difetti della voce. Possiamo avvicinarci al vero significato attribuito al simbolo della ‘maschera’ dal suo anonimo inventore, se sappiamo innanzitutto a quale tipo di maschera occorre far riferimento. Non certo alla maschera greca, che copre tutto il volto, ma alla maschera veneziana, che copre solo la metà superiore del volto. A questo punto occorre chiedersi: quali sono le coordinate spaziali della maschera veneziana, che corrispondono alla struttura della vera voce ‘in maschera’? La prima, su cui si è concentrata quasi esclusivamente, a scapito delle altre due, l’ attenzione dei fautori della maschera, è l’ ANTERIORITA’. La ‘maschera’ interessa il piano frontale dello strumento, cioè è collocata davanti, nel senso che è sopra il volto, il quale, come suggerisce una metafora di Eschilo, rappresenta la prua di quella nave che è la testa. Tuttavia questa anteriorità, come sempre seppero i trattatisti del belcanto e come anche Corelli ebbe a scoprire personalmente, non è da intendersi come il risultato di manovre pseudo-tecniche finalizzate a portare il suono avanti o ‘proiettare’ la voce, altrimenti la gola si chiude, ma è un dato strutturale, riconducibile al semplice fatto naturale che nel linguaggio umano (parlato e cantato) l’ articolazione si realizza con movimenti degli elementi articolatori (labbra e punta della lingua), che sono naturalmente avanti, da cui il termine pro-nuncia (ossia ‘dire avanti’). Il fattore ‘anteriorità’ sarà dunque garantito di per sé, se noi semplicemente lasciamo che il movimento articolatorio si realizzi da solo con la naturale essenzialità e scioltezza che lo caratterizza, e in modo sinergicamente indipendente dal fattore che realizza lo spazio (arretrato) della rotondità del suono e che è rappresentato da nient’ altro che dalla distensione inspiratoria che apre morbidamente (e non attivamente) la gola.

Passiamo ora a considerare le altre due coordinate, altrettanto se non più importanti della prima e trascurate nella maggioranza delle scuole di canto, e che sono l’ altezza e l’ orizzontalità. L’ ALTEZZA è rappresentata dalla base della maschera veneziana, che dunque stabilisce una linea alta immaginaria, che immediatamente è al di sopra della bocca. Qui ci avviciniamo di più al vero senso della cosiddetta ‘voce alta’, che è appunto la percezione di una ‘linea di galleggiamento’, al di sopra e al di sotto della quale il suono non deve mai andare e una delle cui condizioni necessarie è il mantenimento della pronuncia essenziale e sciolta del parlato. L’ importanza di questa linea alta immaginaria è messa bene in risalto nel libricino sul canto scritto da Caruso, testo molto interessante perché, essendo stato scritto in un periodo in cui imperversava la moda della ‘maschera’ foniatrica (cioè nasale), non la nomina mai, ma, a conferma che la ‘voce alta’ non è riducibile né alla gabbia della ‘maschera’ né al bunker dell’affondo, a un certo punto significativamente afferma:

“Il più grave errore commesso da molti cantanti è attaccare il suono, invece che al di sopra del palato, all’ altezza del petto o della gola” (cioè affondando il suono…) “Anche se si ha un organismo forte e una voce bellissima, non si può resistere a questo. Questo è il motivo per cui così tanti artisti che hanno debuttato brillantemente, poi scompaiono molto presto oppure proseguono con una carriera molto mediocre.”

Con la successiva raccomandazione del sorriso (interno) e del lasciare che la bocca si apra di più solo nella zona acuta, Caruso dimostra di conoscere anche la terza coordinata spaziale che definisce la forma dello spazio di risonanza della vera tecnica vocale italiana e questa terza coordinata è l’ ORIZZONTALITA’. Le modalità utilizzate tradizionalmente per evocare la coordinata dell’ orizzontalità (che, più dell’ anteriorità, è da mettere in rapporto con la brillantezza naturale del suono, in quanto, diversamente dall’ anteriorità, non si pone in antitesi col polo arretrato della rotondità, creato dalla gola aperta) sono rappresentate dall’uso di vocali come la A e la E e dal sorriso interno. Su questo asse orizzontale della voce cantata (che è quello che facilita il movimento dell’ articolazione naturale, il quale si svolge nella bocca, che è orizzontale) hanno focalizzato l’ attenzione, in modo più o meno corretto, sia Gigli, sia Kraus, sia Pertile. Quando Gigli diceva che non sarebbe mai diventato un bravo maestro di canto perché gli allievi, vedendolo cantare, si sarebbero messi a cantare ‘aperto’, intendeva dire che sarebbero facilmente caduti in un doppio equivoco: interpretare come ‘suono aperto’ e come ‘gola chiusa’ la sua apertura della bocca ‘normale’, cioè NON in verticale. Con questa sua frase Gigli evidenziava insomma l’ importanza da lui attribuita alla coordinata spaziale dell’ orizzontalità, che però (è bene sottolineare) non ha nulla a che fare col fatto di aprire foneticamente le vocali oltre il passaggio di registro. Analogamente Aureliano Pertile nel suo trattato di canto parla di “gola larga” e di “apertura della bocca più orizzontale che verticale”, ma si premura di precisare che questa apertura orizzontale non ha nulla a che fare col nucleo del suono (da lui chiamato “calibro”), che non deve mai essere allargato e ingrossato. Da parte sua anche Kraus ha sempre evidenziato l’importanza di questo ‘asse orizzontale’ della voce, che è una caratteristica strutturale della tecnica vocale italiana storica, ma purtroppo ha espresso questo concetto in forme spesso molto discutibili. È il caso della sua teoria (assurda), secondo cui nel canto la vocale U non esisterebbe e la vocale O andrebbe pronunciata ‘A’. Più rispettoso della realtà (e della logica) è invece il suo invito a sentire il canto come “espansione orizzontale” (che è la modalità con cui è percepita dal cantante l’apertura della gola nella zona acuta), mentre il riferimento a un’ articolazione affidata alla “mascella superiore”, invece che inferiore, per un verso ci riporta al senso dell’ altezza naturale del suono al livello della linea immaginaria che coincide con la base della maschera veneziana, e per un altro verso ci riporta alla condizione necessaria (e ovviamente non unica) perché il fenomeno della ‘voce alta’ accada e cioè alla scioltezza articolatoria del parlato, dove infatti, non a caso, la sensazione della mandibola semplicemente sparisce, così come accade con tutte le funzioni naturali, se rispettate nella loro naturale PERFEZIONE. Infine il suo invito (pittoresco) a immaginare di fare la faccia cattiva come quando si sgrida un bambino quale espediente per sentire la ‘maschera’, lascia ovviamente il tempo che trova e si ricollega alla concezione (altrettanto discutibile) della Lehmann della ‘maschera’ come attivazione dei muscoli facciali sui quali ‘far leva’ per aprire la gola, concezione ripresa oggigiorno da tutti quelli che sostengono l’ idea dell’ “innalzamento dell’ arcata zigomatica”. È probabile che queste indicazioni ‘esterne’ siano da ricondurre al fatto che, essendo lo spazio della gola (aperta correttamente, cioè passivamente) percepito come spazio ‘vuoto’, nella coscienza di chi canta può emergere e porsi in primo piano la sensazione del piano frontale dello strumento vocale dove avviene il morbido gioco muscolare dell’ articolazione-sintonizzazione, da alcuni insegnanti definito infatti metaforicamente il ‘volante’ o la ‘tastiera’ della voce.

In questo caso però è evidente che ci troviamo di fronte a un fenomeno tipico della coscienza alienata della modernità e cioè al capovolgimento della prospettiva naturale (che vede all’ origine del canto una causa che agisce dall’ INTERNO) in una prospettiva deformata, contraddistinta dalla fobia nevrotica per tutto ciò che è ‘dentro’ e da una conseguente idolatria per tutto ciò che è ‘fuori’: a partire dal suono fino ad arrivare addirittura alla teoria (demenziale), elaborata da qualcuno, di una pronuncia “fuori” e di una “risonanza esterna” come mete tecnico-vocali, che sarebbe come se il comandante di una nave elaborasse seriamente il metodo “fata morgana” per navigare volando. È precisamente da questa ‘endofobia’ che è derivata la graduale deformazione del senso del concetto di ‘maschera’, la quale non è da considerare la causa delle coordinazioni muscolari sopra citate (come pensava Celletti quando diceva che l’ emissione “immascherata” aveva come effetto un’ articolazione lieve e sciolta), ma, al contrario, il loro effetto. In altre parole, la percezione di uno spazio interno che gradualmente ‘sboccia’ espandendosi orizzontalmente, unita a quella di una pronuncia naturale sciolta ed essenziale, che si svolge lungo un asse orizzontale-circolare, e a quella di una bocca che, pur aprendosi di più nella zona acuta, non viene mai spalancata in verticale, contribuisce ad evocare la sensazione di qualcosa che qualcuno un giorno pensò di assimilare a una maschera veneziana, attaccata lateralmente con degli elastici alle orecchie, maschera da considerare quindi solo come il simbolo sintetico delle sensazioni generate dalle vere cause (riconducibili a processi naturali) di quell’effetto che a un certo punto prese il nome (fuorviante) di ‘maschera’.

Abbiamo visto come esista un filone della scienza che si manifesta come tendenza a ridurre nei confini di una materialità angusta fenomeni molto più grandi e complessi. È il caso appunto del canto, ridotto dalla moderna prospettiva ‘vocologica’ all’attività dello spiare dal buco della serratura quello che fanno le corde vocali quando si canta. La trasformazione del simbolo della ‘maschera’ (classico dito che indicava la luna) in magica cavità di risonanza (poi rivelatasi inesistente), è un altro esempio di questo riduzionismo. Si poteva legittimamente pensare a questo punto che la ‘foniatria artistica’ (alias ‘vocologia’), avendo preso atto dei propri ripetuti fallimenti nel cercare di individuare le cause che fanno cantare bene, desistesse una buona volta dal vizio di trasformare i fischi in fiaschi e le lucciole in lanterne. Nient’affatto. Ultimamente la sua smania di ‘materializzare’ tutto, invece di limitarsi a INTERPRETARE materialisticamente simboli come la ‘maschera’, si è spinta ancora più in là, fino ad arrivare a PRODURRE realmente oggetti, denominati ‘maschere’, che, come accade nelle fiabe, sarebbero dotati di poteri magici: è il caso della cosiddetta ‘maschera di Borragan’, che, applicata sulla faccia del cantante, ne potenzierebbe magicamente la voce. In sintesi, dalle stelle della ‘voce alta’ alle stalle della ‘maschera’ foniatrica. E con questa strampalata trovata è come se la foniatria artistica avesse posto la ciliegina del comico-surreale in cima alla torta delle sue perversioni conoscitive, nascondendo definitivamente ai cantanti la via che porta al miracolo della “vox alta, clara, suavis”.

Antonio Juvarra


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