Beethoven 2020 – Klaviertrio op. 70 N°1

Proseguiamo il nostro personale contributo alle celebrazioni dell’ anno beethoveniano, occupandoci questa volta del Trio in re maggiore op. 70 N°1 per pianoforte, violino e violoncello universalmente conosciuto con il nome di Geistertrio (Trio degli spiriti) dal tema principale del secondo movimento, che Beethoven aveva preso dagli abbozzi preparatori di un coro di streghe da inserire in un progetto di musiche sceniche per il Macbeth di Shakespeare, lavoro mai portato a termine. Il Trio in re maggiore, quinto dei sette composti dal musicista in questa forma derivata dalla Triosonata barocca combinata con la forma strutturale della Sonata classica, fu scritto nell’ estate del 1808 a ridosso della Quinta e Sesta Sinfonia, in una stagione creativa che fu tra le più felici nella vita di Beethoven. Il Largo assai ed espressivo in re minore che sta al centro della composizione, con la sua atmosfera di straniamento irreale basata sugli accordi pulsanti del pianoforte combinati con i tremoli e le scale cromatiche dei due strumenti ad arco, è sicuramente una tra la pagine più ispirate di tutta la produzione beethoveniana. Il celebre studioso Paul Bekker ha scritto a questo proposito di eine der wunderbarsten Offenbarungen beethovenscher Schwermut mentre Carl Czerny nel 1842 paragonava l’ atmosfera del pezzo a quella dell’ entrata dello Spettro nell’ Hamlet:

“Der Charakter dieses sehr langsam vorzutragenden Largo ist geisterhaft schauerlich, gleich einer Erscheinung aus der Unterwelt”
(Carl Czerny, Über den richtigen Vortrag der sämtlichen Beethovenschen Klavierwerke, Wien 1842, ristampa a cura di Paul Badura-Skoda, 1963, p. 99)

Tra i critici ottocenteschi, il celebre scrittore, compositore e giurista E.T.A. Hoffmann dedicò al Trio in re maggiore una lunga analisi pubblicata sull’ Allgemeine musikalische Zeitung da cui riporto un estratto:

…schon ganz der Character des Trios, das weniger düster als manche andere Instrumental-Compositionen Beethovens gehalten, ein frohes, stolzes Bewusstseyn eigener Kraft und Fülle ausspricht … Umso zweckmäßiger war es, den im ganzen Stück vorherrschenden Gedanken in vier Octaven unisono vortragen zu lassen; er prägt sich dem Zuhörer fest und bestimmt ein, und dieser verliert ihn in den wunderlichsten Krmmungen und Wendungen, wie einen silberhellen Strom, nicht mehr aus dem Auge”.

Come primo contributo critico, leggiamo questa breve presentazione del musicologo italiano Bruno Cagli tratta dal programma di sala di un concerto del 1977 al Teatro Olimpico di Roma.

Scritti nel 1808 e pubblicati l’anno seguente, i due trii dell’op. 70 furono dedicati da Beethoven all’ amica contessa Anne Marie Erdòdy, una delle pochissime donne che abbiano avuto influenza sulla sua vita. Il primo dei due trii, scritto nella tonalità di re maggiore, ha finito per essere denominato «Trio degli spinti» sia per l’ atmosfera demoniaca da cui sarebbe animato, soprattutto nel secondo movimento, sia perché il tema di questo è il medesimo appuntato da Beethoven per un coro di streghe da inserire in un «Macbeth» su testo di Collin (lo stesso che scrisse il «Coriolano» per il quale Beethoven realizzò la stupenda ouverture e le musiche di scena op. 62) mai portato a termine. Un titolo del genere dette il via ad una serie illustre di interpretazioni, più o meno fantasiose, che recano le firme di un Hoffmann e perfino di un D’ Annunzio. Il quale, ascoltando il trio «come dopo la morte», trovava che la sua musica spingeva «fino al cuore il fondo del calice della vita, quello che non ho assaporato ancora e che pregai che fosse tenuto lontano dalle labbra». A dar ragione a questi voli verbali dell’ Immaginifico e di molti altri sta la straordinaria concisione del linguaggio dei due tempi estremi del trio, un Allegro con brio ed un Presto, ambedue di magistrale stringatezza e vigore. Al centro della composizione sta il celebre Largo, basato sulla ripetizione di due elementi strutturali che creano effetti timbrici del tutto nuovi nella letteratura beethoveniana e non. L’ esasperazione di questo movimento assorbe in sé sia gli elementi costitutivi dei movimenti lenti (nella frantumazione progressiva dei temi si può riconoscere la tecnica, ovviamente volta ad altro effetto, dell’ abbellimento melodico), sia quelli dello scherzo. Il che spiega come Beethoven abbia adottato per questo trio la forma tripartita.

Di seguito, una breve analisi di Blair Johnston tratta dal sito allmusic.com

The two piano trios of Ludwig van Beethoven’s Opus 70 were both composed in 1808 during the composer’s stay at the house of the Countess Marie von Erdödy; out of gratitude for her hospitality, he dedicated both works to her. The Op. 70 trios inaugurated a period during which Beethoven wrote a great deal of chamber music both dense and wonderfully intimate. The Piano Trio No. 5 in D major, Op. 70, No. 1, has three movements, an old-fashioned scheme that Beethoven endows with new concision. Because of its strangely scored and undeniably eerie-sounding slow movement it was dubbed the “Ghost” Trio. The name has stuck with the work ever since. The ghostly music may have had its roots in sketches for a Macbeth opera that Beethoven was contemplating at the time.

But one mustn’t listen for ghosts in the other two movements — they positively sparkle with life, from the wonderfully boisterous metric obfuscation that opens the Allegro vivace e con brio first movement (the movement is in 3/4 time, but in the first few measures the eighth notes, after a single group of three, are grouped in fours), through the swinging scales that underscore that same movement’s second theme, and finally to the humorous, scampering Presto finale and its occasional comic fermatas. And yes, one should chuckle as the pianist, violinist, and cellist try desperately not to step on each other’s toes when, near the close of both the exposition and the recapitulation of the finale, the piano takes off with a rapid-fire little right-hand cadenza that moves to a completely ridiculous key and the strings have no choice but to help the piano find its way back by spinning out a chromatically ascending sequence in octaves that does manage to arrive at the proper key but, unfortunately, manages to get the downbeats all out of sync!

More serious structural thinking is on display as well — consider the elaborate modulation from tonic to dominant in the first movement’s exposition, forecast by a quick shading, as in the Symphony No. 3, within moments of the beginning of the piece. The harmonic scheme of the work as a whole is elaborate, with references and interconnections between movements. As much as any other work Beethoven ever wrote, the “Ghost” Trio invites and challenges listeners to appreciate it at a variety of levels.

La discografia del Geistertrio è vastissima e propone molte interpretazioni di alto livello. Per gli ascolti da inserire in questo post, io ho scelto tre esecuzioni dal vivo. La prima che ho selezionato è quella del leggendario Beaux Arts Trio, in un video che riproduce un concerto tenuto in Giappone nel 1998. In quegli anni il complesso era formato da Menahem Pressler, unico strumentista rimasto della formazione originale, dal violinista Yung Uck Kim e da Antonio Meneses al violoncello.

Bellissima, a mio avviso, è anche questa esecuzione registrata all’ Aldeburgh Festival del 1963 e pubblicata una quindicina di anni fa nella serie di CD, oggi purtroppo di reperimento piuttosto difficile, intitolata BBC Legends, che proponeva esecuzioni dal vivo registrate durante i festival inglesi, tutte di altissimo interesse. Benjamin Britten, che fu il fondatore e l’ animatore delle rassegne di Aldeburgh fino alla morte. suona insieme a Yehudi Menuhin e Maurice Gendron, artisti a cui era legato da un’ amicizia pluridecennale. L’ interpretazione è assolutamente entusiasmante e la lettura del celebre Largo è senza dubbio da valutare tra le massime in tutta la storia interpretativa del brano.

Come terzo ascolto, tre interpreti della giovane generazione. Il pianista finlandese Henri Sigfridsson, perfezionatosi con il leggendario virtuoso Lazar Berman, suona insieme alla violinista moldava Patricia Kopatchinskaja e alla violoncellista argentina Sol Gabetta, due tra le musiciste di oggi che io apprezzo di più, in questa esecuzione registrata nel 2009 allo Schwetzinger SWR Festspiele.

Fate le vostre scelte fra queste esecuzioni, tutte e tre ricche di motivi di interesse. Appuntamento alla prossima puntata di questa serie di post beethoveniani.


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