Antonio Juvarra – “Lapsus logici di un grande cantante”

Nel suo articolo di questo mese, Antonio Juvarra ci parla di alcuni equivoci nella didattica vocale, più precisamente quelli relativi alla differenziazione delle vocali. Buona lettura a tutti e grazie come sempre ad Antonio per la collaborazione.

LAPSUS LOGICI DI UN GRANDE CANTANTE

Nel mondo del canto ancora domina incontrastato il teorema paralogico “fammi sentire come canti e ti dirò se le tue teorie tecnico-vocali sono giuste”. Ne consegue che la veridicità di una determinata affermazione tecnico-vocale non è fatta dipendere dalla sua fondatezza, ma dal prestigio del cantante che ha fatto quell’ affermazione. Di qui la proliferazione dei virus tecnico-vocali, virus che rendono sempre più ingarbugliata la didattica vocale e che, invece di essere essere neutralizzati, vengono conservati e, se provenienti da un grande cantante, coltivati come reliquie. Per risvegliare il senso critico (e logico) di chi accetta questi dogmi, si potrebbe provare ad accostare le numerose affermazioni tra loro antitetiche, fatte da diversi grandi cantanti del passato, in modo che il cortocircuito logico generato dal loro contatto risvegli le persone. Si potrebbe anche provare a far ricorso all’ autorità dei trattati classici del belcanto, dove non c’ è traccia di simili assurdità, ma spesso neppure questo strumento è sufficiente: certe menti infatti non sono penetrabili da alcun dubbio, come se l’ astrusità di certe affermazioni fosse resa invisibile dal prestigio del cantante che ne è latore, o come se ciascuno dei cantanti che ha fatto quelle affermazioni appartenesse a un universo parallelo a sé stante, che ubbidisce a proprie leggi, distanti anni luce da quelle normali.

Tre esempi (tra i mille esistenti) di queste affermazioni (assurde di per sé e tra loro inconciliabili) sono i seguenti.

Dice Lauri Volpi: “Bisogna dire la vocale ‘I’, pensando a una ‘A’.”

Dice invece Alfredo Kraus: “Bisogna dire la vocale ‘A’ nella posizione della ‘I’.”

Dice in fine la Kabaivanska: “Bisogna dire la vocale ‘A’, pensando a una ‘U’.”

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Ne consegue che se uno volesse essere rispettoso di tutti e tre questi grandi cantanti, applicando le indicazioni di ciascuno di loro, dovrebbe cantare la vocale ‘A’ pensando di metterla nella posizione della ‘I’, ma nello stesso tempo pensare che sta cantando una ‘U’, e se, subito dopo questa ‘A’, deve cantare una ‘I’, dovrebbe pensare che sta continuando a cantare una ‘A’, ma avendo anche in mente, come un pensiero nel pensiero, la ‘U’.

“Ma che garbuglio è questo mai?” direbbe qualcuno, se fossimo in un’ opera.

Mentre i dogmatici del canto sorvolano serafici su questi guazzabugli cervellotici che pretendono di spacciarsi per concretezza, nelle persone normali sorge spontanea la domanda: ma ci sarà mai un giorno in cui la tecnica vocale farà finalmente pace con l’ intelligenza? La risposta potrà essere affermativa a una condizione: che una nuova teoria del canto, basata sulla logica, la semplicità e la chiarezza, la sfrondi dei rami secchi di cui è sovraccarica e agisca da SEMPLIFICATORE DI COMPLESSITA’ (che è la funzione della vera tecnica vocale) e non, come invece attualmente succede, da complicatore di semplicità.

Proviamo quindi, alla luce di questo criterio, ad esaminare il discorso di Lauri Volpi, da cui è tratta la frase sopra citata e che è contenuto in questo video:

Ne riportiamo qui di seguito i punti essenziali:

“Bisogna pronunciare la ‘I’ tenendo aperta la gola, altrimenti istintivamente la gola si chiude. Se la ‘I’ la si appoggia sul punto di risonanza giusto, cervicale, allora il flusso sonoro è indipendente dalla vocale. Ma se la vocale si impiglia nell’ emissione, allora la vocale stringe la gola. Bisogna che la gola sia indipendente dall’ articolazione e allora viene la ‘I’ sonora e rotonda, sempre mantenendo la fisionomia della ‘I’. I raggi sonori si proiettano sulla cassa cranica e allora sono indipendenti dall’ articolazione. (….) Se si dice la ‘I’ pensando alla ‘A’, la ‘I’ verrà ampia e sonora. Bisogna dire la ‘I’ pensando alla ‘A’ perché la ‘A’ terrà tutta la gola aperta.”

Incominciamo a individuare in questo discorso quelli che abbiamo definito i “rami secchi”, nel senso di teorie rivelatesi false, quindi da eliminare. Premettiamo che tutto il discorso di Lauri Volpi sopra citato è totalmente estraneo alle indicazioni contenute nei trattati classici del belcanto, dove il giudizio su espedienti del genere è lapidario e ‘tranchant’ e recita:

“Il miscuglio delle vocali rende imperfetto il canto e ridicolo il cantante”. (Mancini)

Questa affermazione di Mancini è molto importante perché dimostra che i belcantisti, pur ritenendo molto importante l’uso della vocale ‘A’ nei vocalizzi, non si sono mai sognati di dire che bisogna cantare la ‘I’, pensando alla ‘A’, idea questa che, se non fosse stata fatta propria da un cantante prestigioso come Lauri Volpi, diremmo che è qualcosa che appartiene al novero degli espedienti ‘tappabuchi’, quegli espedienti cioè che non risolvono un problema, ma si limitano a tamponarlo provvisoriamente, compensando artificialmente uno squilibrio. In effetti Lauri Volpi in questo caso non fa che raccogliere le incrostazioni tecnico-vocali accumulatesi nel corso dei secoli nella didattica vocale come conseguenza dell’ influsso esercitato soprattutto, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, della concezione foniatrica del canto. Il più clamoroso caso di contaminazione foniatrica nella concezione tecnico-vocale di Lauri Volpi, si ebbe quando Lauri Volpi, che aveva elaborato genialmente quella che si può considerare la formula del belcanto e cioè la massima “suono calmo, SFERICO, leggero, potente”, successivamente la contraddisse, quando nel suo libro “Voci parallele” si mise a parlare di un “TUBO risuonatore”, da mettere in rapporto con il “TUBO peneumatico”. Un altro esempio di contaminazione foniatrica (da eliminare), contenuta nelle teorie tecnico-vocali di Lauri Volpi, è rappresentato dalla frase, sopra riportata, “i raggi sonori si proiettano sulla cassa cranica e sono indipendenti dall’ articolazione”. Entrambe le affermazioni contenute in questa frase sono errate. Infatti la prima (“i raggi sonori che si proiettano sulla cassa cranica” così come il concetto di “punto di risonanza cervicale”, cioè la teoria della ‘maschera’ come cavità di risonanza) è stata confutata ormai da mezzo secolo da quella stessa scienza che due secoli fa l’ aveva inventata. E’ bene ricordare a questo proposito che, come ho evidenziato nel mio libro “Le teorie tecnico-vocali di Mario Del Monaco e Franco Corelli”, fu proprio la concezione foniatrica (errata) della brillantezza del suono come “proiezione dei raggi sonori sulla cassa cranica” a indurre Corelli ad allontanarsi da Lauri Volpi dopo dodici anni di devoti (e, per altri versi, proficui) “pellegrinaggi” tecnico-vocali da lui in Spagna. La conseguenza diretta di questa idea infatti è, come affermò esplicitamente Corelli in un’intervista con Zucker, la chiusura della gola, cioè esattamente il contrario di ciò che aveva teorizzato Lauri Volpi. La seconda idea (“i raggi sonori sono indipendenti dall’ articolazione”) e la sua variante (“il flusso sonoro è indipendente dalla vocale”) sono assurdità acustiche autoevidenti, dato che i “raggi sonori” sono filtrati dalle diverse forme che lo spazio di risonanza assume proprio per effetto dell’ articolazione, ergo sono DIPENDENTI dall’ articolazione. Se così non fosse, noi saremmo in grado di cantare suoni NON identificabili con alcuna delle vocali di una qualunque delle lingue oggi esistenti al mondo, cosa ovviamente impossibile, dato che persino il fonema neutro ‘schwa’ fa parte integrante del sistema vocalico di più di una lingua (tra cui l’ inglese e il dialetto napoletano) per cui anch’ esso è un preciso prodotto DIPENDENTE dall’ articolazione.

Ma Lauri Volpi utilizza il concetto di indipendenza non solo con riferimento al rapporto tra “raggi sonori e articolazione” (indipendenza, come abbiamo visto, inesistente), ma anche con riferimento al rapporto tra “gola e articolazione”. In questo caso l’ affermazione è veritiera, se riferita a quelle situazioni in cui la gola ha perso la sua naturale duttilità e flessibilità perché TROPPO CHIUSA O TROPPO APERTA O COMUNQUE APERTA MALE. Ora i casi in cui la gola è rigida perché aperta male sono rappresentati o dall’ apertura muscolare diretta, meccanica della gola (come nel caso del metodo dell’ affondo) oppure proprio dal tentativo di imporre alla gola un modello di spazio difforme da quello della vocale che si sta cantando, che è appunto ciò che succede applicando l’espediente di Lauri Volpi del “dire la ‘I’ pensando alla ‘A’”. Il concetto di indipendenza tra gola e articolazione di Lauri Volpi deve essere interpretato quindi come libertà del movimento articolatorio, che non deve essere bloccato o ostacolato da una gola irrigidita (qualunque sia la causa del suo irrigidimento), ma non come assenza totale di sensazioni nella zona della gola, cioè come “gola morta”. Tenuto conto che naturalmente i movimenti che determinano l’ articolazione sono movimenti minimali automatici, i belcantisti parlavano a questo proposito (più correttamente) di “moto leggero della gola”, volendo evidenziare con questo concetto l’importanza dei micromovimenti con cui la gola, pur non partecipando attivamente a questo processo, asseconda il movimento articolatorio vero e proprio, che avviene nella parte anteriore dell’ apparato fonatorio (da cui il termine pro-nuncia). Si tratta insomma di un fenomeno analogo a quello del movimento delle braccia che, camminando, accompagna e indirettamente asseconda il movimento delle gambe, a cui è deputata la funzione della deambulazione.

Passiamo ora ad esaminare l’affermazione di Lauri Volpi che recita: “se si dice la ‘I’ pensando alla ‘A’, la ‘I’ verrà ampia e sonora. Bisogna dire la ‘I’ pensando alla ‘A’ perché la ‘A’ terrà tutta la gola aperta”. Per rendersi conto dell’ assurdità di un espediente del genere, se preso alla lettera, basta pensare che ciascuna vocale è una forma dello spazio di risonanza, completamente diversa da quella di un’ altra vocale. Addirittura in questo caso abbiamo, da una parte, una vocale foneticamente chiusa e anteriore (la ‘I’), e, dall’ altra, una vocale foneticamente aperta e centrale (la ‘A’), quindi foneticamente le due vocali sono agli antipodi. Dal punto di vista obiettivo, fisiologico, non è vero poi che con la vocale ‘I’ la gola sia chiusa e con la vocale ‘A’ sia aperta, essendo vero esattamente il contrario. In questo senso quindi aveva ragione Kraus nell’ affermare che è con la vocale ‘I’ che la gola è più aperta, ma anche lui sbagliava perché non teneva conto del fatto che nel canto lo spazio di risonanza è BICAMERALE (bocca e gola), per cui è importante non quanto sia aperto uno dei due spazi, ma quale sia il volume globale, rappresentato dalla somma dei due spazi, per cui possiamo dire che se con la vocale ‘A’ lo spazio della gola è, poniamo, 2 e lo spazio della bocca è 4, invece con la vocale ‘I’ lo spazio della gola è 4 e lo spazio della gola è 2. In entrambi casi quindi la somma sarà la stessa e cioè 6, motivo per cui è irrilevante sapere con quale vocale la gola è più aperta.

Abbiamo visto come, da un punto di vista ‘esterno’, cioè fisiologico e obiettivo, non sia vero che con la vocale ‘A’ la gola sia più aperta e con la ‘I’ sia più chiusa, ma come questo dato, ai fini dell’ apprendimento del canto, non sia molto importante. Questo perché il canto non è creato dalla nostra conoscenza razionale della sua dimensione ‘esterna’ fisio-anatomica (altrimenti tutti i foniatri canterebbero), ma è creato dalla nostra coscienza plurisensoriale e senso-motoria, la quale appartiene a una dimensione ‘interna’ che è sì soggettiva, ma non nel senso che cambia da soggetto a soggetto (come falsamente afferma la scienza ‘esterna’ misuratrice, ‘anestetica’ per definizione), ma nel senso che si manifesta uguale attraverso i diversi soggetti. LA DIMENSIONE SENSORIALE È INSOMMA UN UNIVERSALE SOGGETTIVO che è sullo stesso piano anzi, nel caso dell’ apprendimento del canto, su un piano superiore rispetto all’ universale oggettivo della scienza esterna misuratrice. Adottando questa prospettiva, analizziamo ora il discorso dell’ uso delle vocali nel canto. L’ idea che si possa migliorare una vocale, pensando a un’ altra vocale (qualunque sia la vocale scelta come modello) può essere un espediente che magari può anche risultare utile in certi casi, ma che in linea di principio è pericoloso perché intacca L’INDIPENDENZA (questa sì reale!) ESISTENTE TRA IL SISTEMA DELL’ARTICOLAZIONE-SINTONIZZAZIONE E IL SISTEMA DELLA RESPIRAZIONE-VOLUME (intendendo per ‘volume’ l’ espansione dello spazio di risonanza, creato dalla respirazione). In questo senso le frasi, sopra citate, di Lauri Volpi, Alfredo Kraus e Raina Kabaivanska, sono fondamentalmente (e per fondamenta intendo una teoria essenziale, chiara e logica della vera struttura del canto) tutt’ e tre ERRATE. Usando questi espedienti grossolani, l’ effetto collaterale indesiderato che si presenterà prima o dopo, è quello di intubare o opacizzare la voce (se la vocale scelta come modello è la ‘U’), di schiacciarla e renderla metallica (se la vocale scelta come modello è la ‘I’) e di slargarla e spampanarla (se la vocale scelta come modello è la ‘A’).

La prima ragione teorica (nel senso etimologico di ‘visione’ del canto) per cui tutti questi espedienti sono errati è che non tengono conto della realtà acustica del suono e della sua struttura. Parlando infatti di un “flusso sonoro” come qualcosa di “indipendente dalla vocale”, Lauri Volpi è come se avesse teorizzato che il mare e le sue onde sono entità distinte tra loro. Ora nel canto non esistono suoni che non siano anche vocali. Non solo. Non esiste un contenitore ‘ideale’, predeterminato, in cui inserire le varie vocali. Questo perché la vocale non è IN uno spazio, ma E’ LO SPAZIO di risonanza. La seconda ragione teorica per cui questi espedienti sono destinati al fallimento è che si basano su una concezione della vocale come qualcosa di ‘monolitico’, che non distingue il NUCLEO del suono dallo SPAZIO (vuoto) che lo circonda, e neppure distingue la dimensione acustica delle vocali foneticamente aperte dalla dimensione acustica delle vocali foneticamente chiuse. Partiamo dalla prima considerazione. Se non si riconosce l’ esistenza di un nucleo essenziale, di una sorta di DNA del suono, generato naturalmente dal parlato e distinto dallo spazio che lo circonda (generato dal respiro), sarà inevitabile che le vocali, per acquisire quella rotondità e ampiezza, tipiche del canto,a cui accenna Lauri Volpi, vengano distorte acusticamente e ingrossate. Volendo ricorrere a un’ analogia, potremmo dire che questo procedimento è paragonabile a quello di chi, per ampliare un cerchio, ingrossasse il centro invece che ampliare la circonferenza. Passiamo adesso alla seconda considerazione, riguardante le due diverse dimensioni del suono che caratterizzano le vocali aperte e le vocali chiuse. Il motivo per cui molti cantanti trovano problemi nell’ emissione di una vocale chiusa come la ‘I’ (o come la ‘U’) non è dato dal fatto che con queste vocali la gola tende a chiudersi (fisiologicamente essendo vero il contrario), ma è data dal fatto che il cantante ha adottato come modello di spazio lo spazio delle vocali aperte e quando si trova a dover cantare una ‘I’ (che esige una forma di spazio e quindi una sensazione spazio-formale completamente diversa) non accetta questo cambiamento, che pensa intacchi l’ uguaglianza della voce, ed è portato a costringere la vocale chiusa nello ‘stampino’ di una vocale aperta (sia questa una ‘A’ o una ‘E’). E’ da questo conflitto e non dal fatto che “la vocale si impiglia nell’emissione” (?) che nasce l’inconveniente, lamentato da Lauri Volpi, della gola che si stringe. Dalla constatazione di questo fatto deriva un principio operativo didattico-vocale molto importante: LA VOCE VA EDUCATA CON TUTTE LE VOCALI. In particolare, è opportuno che ogni vocalizzo ascendente sia ripetuto due volte: una volta eseguendo la nota più alta con una vocale aperta e la seconda volta con una vocale chiusa. In questo modo la mente si abituerà ad ACCETTARE COME NORMALE la diversità delle sensazioni corrispondenti alle due dimensioni (aperta e chiusa) del suono e non cercherà più di piegare l’ una all’altra, che sarebbe come sostituire la luce lunare con la luce solare o viceversa. Questo si rende necessario anche in considerazione di questo fatto: nel canto esistono quelli che potremmo definire i cantanti della ‘I’ e i cantanti della ‘A’, ossia allievi di canto che naturalmente non hanno alcun problema nel cantare una ‘I’ e invece hanno tanti problemi nel cantare una ‘A’, e, viceversa, ci sono allievi di canto (e probabilmente Lauri Volpi era uno di questi) che non hanno alcun problema a cantare una ‘A’ e invece hanno molti problemi a cantare una ‘I’. E’ chiaro che assecondando la loro propensione di partenza ed evitando esercizi come quello sopra citato, i primi avranno sempre problemi a cantare una ‘A’ (e quindi la trasformeranno in ‘AO’) e i secondi avranno sempre problemi a cantare una ‘I’ (e quindi la trasformeranno in ‘Y” o in ‘E’).

Abbiamo visto come sia utile pensare alla vocale come a un’ entità che ha un nucleo centrale e uno spazio vuoto che l’avvolge. A questo punto possiamo chiederci: da che cosa è creato questo nucleo? Esso è creato dal concepimento mentale im-mediato (cioè senza mediazioni razionali) della vocale pura del parlato ed è mantenuto e rigenerato continuamente dal movimento articolatorio essenziale e sciolto del parlato. La percezione di questo nucleo varia in rapporto alla vocale. Nel caso della ‘I’ la sensazione è quella di una lamina sottile orizzontale o di un filo luminoso, che NON VA MAI INGROSSATO, pena la distorsione acustica della vocale. Andando nella zona acuta lo spazio globale (bocca-gola) aumenterà, ma continuando a rispettare la differenza tra vocale chiusa e vocale aperta, per cui nel cantare una ‘I’ (o una ‘U’), la bocca si aprirà un po’ di più che nella zona centrale della voce, ma non dovrà mai aprirsi come accade con la vocale ‘A’, altrimenti la vocale ‘I’ uscirà distorta acusticamente, se non distrutta.

Volendo passare adesso a considerare la dimensione sensoriale interna che delle vocali ha il cantante mentre canta, possiamo dire che la percezione della vocale ‘I’ come qualcosa di sottile e luminoso (che corrisponde alla percezione del suo nucleo) dovrà essere rigorosamente mantenuta, pur soddisfacendo l’esigenza di un aumento dello spazio INTORNO AL NUCLEO (e NON del nucleo), ciò che farà sì che la bocca si aprirà un po’ di più e si potrà anche percepire un arretramento della vocale verso la cavità faringea. Questo significa che a garantire la purezza della vocale ‘I’ nella zona acuta non è il mantenimento della posizione ‘avanti’ della vocale (altrimenti non si realizzerà la fusione dello spazio anteriore orale con lo spazio arretrato faringeo, che è quello che le conferisce rotondità), ma è il mantenimento della percezione della ‘I’ come lamina sottile, raggio o filo luminoso. La percezione che il cantante ha della vocale ‘A’, sarà invece quella di uno spazio globale che sboccia, da cui le espressioni belcantistiche “espandere” e “spiegare la voce”, ma questo punto si rende necessaria una riflessione. Tenuto conto che, anche parlando, nel dire una ‘A’ la bocca è aperta e la gola è semichiusa, mentre nel dire una ‘I’ la gola è aperta e la bocca è semichiusa’, ci si potrebbe chiedere: perché l’ uomo ha deciso di chiamare ‘aperte’ le vocali in cui la bocca è aperta e la gola è semichiusa, e non le vocali in cui la gola è aperta e la bocca è semichiusa? La risposta è: perché l’ uomo ha la percezione vitale e liberatoria di uno spazio che si apre, solo se si apre ANCHE la bocca e questo è sia il motivo per cui il respiro che rigenera è detto BOCCATA d’aria (e non ‘golata d’aria’ o ‘nasata d’aria’…) sia il motivo per cui l’imporsi di tenere chiusa la bocca durante atti naturali come lo sbadiglio, il sospiro di sollievo e la stessa emissione di una nota acuta, è vissuto come costrizione e impedimento del naturale ‘sbocciare’ dello spazio. A questo punto si spiega anche la predilezione dei belcantisti (ereditata da Lauri Volpi) per la vocale ‘A’, che rappresenta in effetti la vocale primigenia, quella del nostro originario aprirci comunicativo e sonoro al mondo. È per evocare questo spazio dell’ apertura primigenia che Lauri Volpi consigliava di pensare a una ‘A’ anche cantando una ‘I’. E’ chiaro quindi che in questo caso Lauri Volpi concepiva la ‘A’ non in senso strettamente fonetico, cioè come precisa forma dello spazio di risonanza, ma come metafora della ‘spazialità’ del canto.

Gli equivoci che possono nascere da questo espediente però possono essere gravi, ma per fortuna anche in questi casi il genio, come si suol dire, fa la differenza. Il genio in questione ha nome Giambattista Mancini, autore di quel ‘vangelo del belcanto’ intitolato “Riflessioni pratiche sul canto figurato”. Ora, benché i belcantisti considerassero, per i motivi suesposti, la ‘A’ come la regina delle vocali, in questo trattato Mancini scrisse esplicitamente che è necessario esercitarsi con TUTTE LE VOCALI. E con questo ancora una volta chiuse autorevolmente il cerchio che collega tra loro il canto, la natura e la sua emanazione diretta: il senso logico, detto anche ‘buon senso’.

Antonio Juvarra


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2 pensieri riguardo “Antonio Juvarra – “Lapsus logici di un grande cantante”

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