Ricevo e pubblico il consueto articolo mensile di Antonio Juvarra, che questa volta ci propone interessanti considerazioni sul ruolo dell’ articolazione in rapporto al canto. Grazie come sempre ad Antonio per la collaborazione e buona lettura a tutti.
MASSIME BELCANTISTICHE: “SI CANTA COME SI PARLA”
La scuola di canto italiana storica ci ha tramandato la massima belcantistica “si canta come si parla”, dove il parlato è da intendersi come una delle due componenti che creano il canto, l’ altra essendo il respiro naturale globale (detto anche profondo). È il caso di precisare in proposito che la funzione del parlato interessa due aspetti del canto: l’ auto-avvio del suono per concepimento mentale im-mediato (e non tramite azioni meccaniche localizzate) e il rigenerarsi periodico del suono grazie al movimento sciolto ed essenziale dell’ articolazione. In sintesi il significato della massima è: nel TUTTO chiamato canto, una PARTE (l’ avvio del suono e l’ articolazione) rimane la stessa del parlato. La massima “si canta come si parla” focalizza quindi l’ attenzione sul processo che genera il NUCLEO del suono e diventa poi il sintonizzatore automatico della voce. In questo senso la formula completa del belcanto è la massima del castrato Pacchierotti che, volta in italiano moderno, suona:
“Chi sa dire bene e respirare bene, saprà cantare bene.”
Per quale motivo tradizionalmente ci si riferisce a due componenti invece che a una sola? Perché, ovviamente, se usassimo la sola componente del parlato, avremmo come risultato non il canto, ma il banale parlato intonato, così come se non aggiungessimo il colore blu al giallo, non otterremmo il verde ma il giallo, se non aggiungessimo il lievito alla farina, non otterremmo il pane ma la farina cotta e se non aggiungessimo la terra al seme, non otterremmo una pianta, ma un seme. Chiarito questo fatto, risulta però subito evidente che il verde, anche se non sembra, contiene in sé il giallo, che il pane, anche se non sembra, contiene in sé la farina e che, appunto, il canto, anche se non sembra, contiene in sé il parlato.
(Ricordiamo che se dovessimo basarci su ciò che sembra e non su ciò che è, allora dovremmo escludere non solo che nel canto ci sia il parlato, ma anche che, fatto ancora più incredibile, nell’ acqua ci sia un gas che è l’ ossigeno, e un secondo gas, per giunta altamente infiammabile, che è l’ idrogeno). A chi, come succede spesso oggi, si mostra riluttante nell’accettare come vera questa massima belcantistica, occorre far presente innanzitutto il criterio metodologico che deve seguire chi fa un qualsiasi tipo di ricerca, in questo caso tecnico-vocale, e che consiste nel mettere le nostre facoltà intellettuali al servizio della frase da interpretare e non viceversa. In effetti, nel sentire riproposta questa antica verità, noi possiamo reagire in due modi:
1- dare per buoni i nostri pregiudizi (rafforzati oggi dalla pseudo-scienza foniatrica), che ci dicono che il canto è un fenomeno totalmente diverso dal parlato;
2- rimanere aperti (e umili) e cercare di capire il significato profondo di questa affermazione, così come, nel sentire l’ affermazione “non di solo pane vive l’ uomo”, noi potremmo facilmente obiettare: “invece a me risulta che il corpo vive solo grazie al pane” oppure: “sì, in effetti, non basta il pane, ci vuole anche la carne e la verdura..”, se non fosse che immediatamente intuiamo che è su un diverso piano che dobbiamo spostarci per poter capire.
Analogamente il vero significato della massina “si canta come si parla” non è: il canto è uguale in toto al parlato (che sarebbe un’ affermazione idiota e palesemente falsa), ma: per quanto riguarda la funzione della sintonizzazione perfetta del suono, che si rigenera ad ogni nuova nota, (e non quindi per quanto riguarda la creazione dello spazio di risonanza e il collegamento con l’energia!), la prima causa reale è il sistema fonatorio del parlato, che include in sé il movimento sciolto, fluido ed essenziale dell’articolazione, mentre le ‘proiezioni’ in punti o zone immaginarie dell’apparato di risonanza sono solo un riflesso o un effetto di questa prima causa. (Altri EFFETTI di questa PRIMA CAUSA REALE sono le sensazioni di suono ‘raccolto’ e ‘concentrato’, sensazioni che fanno tutte riferimento alla percezione del nucleo del suono, e i concetti di ‘focus’, ‘punta’ ecc). Un corollario della massima belcantistica ‘si canta come si parla’ è la formula di Tito Schipa “parole piccole, mai grandi”. A questo proposito potremmo chiederci: “Quand’è che le parole sono ‘piccole’ (in senso positivo) e il suono quindi risulta ‘raccolto’, ‘concentrato’ ecc?” La risposta è: “Quando esse nascono dal nucleo naturalmente piccolo del parlato, che rimane lo stesso del suono cantato, anche se lo spazio che lo avvolge è più ampio”. Quand’ è che invece le parole sono ‘grandi’ (in senso negativo)? Risposta: quando il suono non deriva dal movimento articolatorio sciolto e naturalmente minimale del parlato (che è il generatore di questo nucleo), ma da un movimento articolatorio alterato e/o innaturalmente ampliato, come succede con tutte quelle tecniche vocali che teorizzano un’ apertura attiva e localizzata dello spazio di risonanza, col risultato di un ingrossamento artificiale del nucleo “sorgivo” del suono e di una distruzione dell’ indipendenza sinergica, esistente tra articolazione-sintonizzazione e ampliamento dello spazio di risonanza. Ricordiamo che anche il seme che genera una sequoia o una quercia gigantesca, è minuscolo e ha una grandezza che non è proporzionale alle dimensioni della futura pianta.
Per far capire il ruolo svolto dal movimento naturale e autogeno dell’ articolazione parlata, si potrebbe ricorrere anche a una similitudine meccanica invece che botanica. Ad esempio, chi non sa come funziona realmente un’automobile, potrebbe dire: “un’ automobile corre grazie al motore e alla benzina, non grazie alle scintille…”, ma dimostrerebbe in tal modo di ignorare l’ esistenza di quello strano dispositivo che una volta era lo “spinterogeno”, ovvero generatore di scintille, senza il quale il motore non andrebbe neppure in moto. Ora, a differenza dei motori meccanici, il ‘motore vocale’ si avvia (purtroppo) anche senza la scintilla del suono parlato, ma con questo inconveniente: quella che viene prodotta in tal modo non è la risonanza libera del canto di alto livello, ma la risonanza forzata del canto spinto in tutte le sue innumerevoli varianti ‘tecniche’. C’ è chi motiva le proprie obiezioni alla massima ‘si canta come si parla’, affermando che il canto lirico, sviluppando una grande potenza vocale e svolgendosi in un’estensione tonale molto ampia, non potrebbe basarsi sul semplice parlato e che nel canto lirico, a differenza che nel parlato, occorre rinforzare e/o raddoppiare le consonanti per rendere udibile la voce in uno spazio ampio com’ è quello di un teatro e con un repertorio che prevede anche un accompagnamento orchestrale, che rischia di coprire la voce. Sostenere questo è come sostenere che per aumentare il volume di una radio, bisogna agire sul sintonizzatore o che per suonare più forte il violino, bisogna premere con più forza le dita della mano sinistra sulla tastiera o che per correre più veloci in macchina, bisogna agire sul volante. La causa di questo abbaglio (scambiare il sintonizzatore per il motore della voce) è data dal fatto che nel canto lirico i momenti di maggiore potenza sonora sono anche quelli di maggiore concitazione drammatica, durante i quali il ‘parlato tranquillo’ delle arie cantabili diventa ‘declamato drammatico’. Solo che questa ‘animazione della parola’ che improvvisamente interviene, non è il risultato di una manovra ‘tecnica’ finalizzata a ‘scolpire’ attivamente e direttamente la pronuncia delle parole, ma è qualcosa che avviene da sé, indirettamente, ed è già contenuto nelle possibilità funzionali ed espressive della fonazione naturale parlata. Infatti il parlato prevede una gamma dinamica ed espressiva molto ampia, che è quella che ci consente di passare ‘in automatico’ da un suadente e carezzevole ‘Ti amo’ a un esplosivo e dirompente ‘Ti odio!’, senza che uno debba preoccuparsi di alzare un inesistente cursore del sistema articolatorio, per passare dal livello ‘low’ al livello ‘high’. Applicata al canto, questa diventa anche la differenza tra il declamato drammatico dei cantanti belcantisti e il declamato drammatico dei cantanti meccanicisti (ad esempio dell’affondo). A parità di potenza vocale, i primi lasciano che da sola, indirettamente, la parola si animi sull’onda della concitazione drammatica, nel qual caso il risultato è il mantenimento di una certa dose di legato, di flessibilità e di dolcezza, sia pure in presenza di una maggiore intensità dinamica. I secondi invece ‘scolpiscono’ direttamente, attivamente e duramente la parola, nel qual caso il risultato è la detonazione sonora, la distruzione del legato (e quindi anche del senso di nobiltà del canto, che da esso deriva) e, portando alle estreme conseguenze questa logica funzionale, il latrato, il quale infatti si basa sullo stesso fenomeno strutturale di micro-esplosioni sonore e per questo rappresenta l’ anti-frase, ossia l’ anti-legato e quindi l’ anti-canto.
Per quanto riguarda il problema del rapporto tra canto e parlato naturale, ci sono alcuni che teorizzano che, ‘trapiantato’ nel canto, il parlato non potrebbe rimanere così com’è, in quanto ‘difettoso’ e ‘rozzo’, ma dovrebbe essere ‘nobilitato’ o comunque ‘corretto’. Premesso che la voce cantata, come abbiamo visto, ha due ‘poli’, uno dei quali è l’ articolazione-sintonizzazione e l’ altro è la respirazione-volume, è evidente che la massima belcantistica “si canta come si parla” si riferisce al primo polo e non al secondo. E già con questo si sgombera preventivamente il campo dalle solite obiezioni: “ma il parlato non ha energia”, “ma il parlato ha un’estensione tonale limitata”, “ma il parlato schiaccia la voce”, “ma il parlato bla bla bla…”, obiezioni utilizzate sia dai geni che sostengono che il pane (il canto) non ha niente a che fare con la farina (il parlato), sia dagli ‘specialisti’ che invece pensano che abbia sì a che farci, ma solo previo un ‘adattamento’, da loro eufemisticamente denominato ‘correzione’. In questi casi si può dire che permanga una certa qual confusione di idee su quella distinzione tra due sistemi distinti, entrambi naturali, che governano la voce cantata, distinzione che ha preso il nome di ‘indipendenza sinergica’ o ‘inter-indipendenza’. Solo una volta compreso questo concetto basilare, apparirà chiaro che la massima belcantistica “si canta come si parla” non significa “cantare come si dovrebbe parlare in base ai principi di dizione degli attori dell’ accademia”, ma significa “cantare come realmente si parla”, ossia come si parla per dire “mi fa un caffè?” e non per dire “essere o non essere, questo è il problema”.
Infatti non è un caso che adottando la prima modalità (quella naturale), la voce (e con essa l’ articolazione) rimane fluida, armoniosa e duttile, mentre adottando la seconda modalità (quella meccanica), la voce si ingessa, e il passaggio dalla prima modalità alla seconda è appunto quello che accade in automatico, quando si invita un cantante a ‘pronunciare di più’.
Tra quelli che pensano che il parlato naturale debba essere modificato ai fini del canto, ci sono poi quelli che interpretano questa modificazione come un misterioso processo di ‘perfezionamento’ o ‘nobilitazione’, processo che avverrebbe dando il giusto accento e la giusta espressività a quello che si sta dicendo. Solo in tal modo il parlato, così ‘nobilitato’ (da loro), da grezzo che era, diventerebbe magicamente capace di mettere le ali al canto. In sostanza noi dovremmo abituarci a dire “Scusi, sa dirmi l’ ora?” come se dicessimo “Sempre caro mi fu quest’ ermo colle” o “L’ albero a cui tendevi la pargoletta mano”, il che implica, tra gli altri, questo piccolo inconveniente: che il canto, se privo di questa intenzione ‘espressiva’ (che è già a rischio di retorica), cesserebbe immediatamente di ‘funzionare’ e precipiterebbe come fa un elicottero a cui si inceppa l’ elica. Se questi sono gli effetti e i rischi di un simile ‘parlato di alta qualità’, non ci vuol molto a capire che non può essere questo il significato della massima belcantistica in questione (massima che in ogni caso, se così fosse, non sarebbe stata “si canta come si parla”, bensì “si canta come si declama”). In realtà, volendo scendere più nel dettaglio, “cantare come si parla” significa lasciare che cantando il movimento articolatorio si faccia da solo (come quando appunto parliamo), conservando la stessa identica naturale scioltezza, fluidità ed essenzialità, e contemporaneamente averne la perfetta e completa consapevolezza SENSORIALE (e non teorico-razionale), in modo da non alterarlo minimamente, come di solito succede con la scusa di ‘correggerlo’, ‘perfezionarlo’, ‘potenziarlo’, ‘qualificarlo’ oppure perché semplicemente incapaci di trovare lo spazio di risonanza che dà la rotondità al suono, nel posto giusto. Solo rispettando rigorosamente questa condizione (non modificare il movimento articolatorio con o senza qualche scusa pseudotecnica, pseudoestetica o pseudoscientifica), lasciando che avvenga da solo, è possibile cercare l’ altro polo della voce (che dà rotondità e potenza al suono), senza che questa ricerca coinvolga e intacchi anche minimamente il processo di articolazione-sintonizzazione (realizzato appunto dal parlato naturale) e senza che si crei un rapporto di dipendenza di un sistema (quello articolatorio della sintonizzazione) rispetto all’ altro sistema (quello respiratorio dell’ energia e dello spazio), nel qual caso non potrà crearsi né la risonanza libera né il legato del canto di alto livello. La massima “si canta come si parla” è insomma un invito a ritornare alla semplicità, alla spontaneità e, checché ne dicano gli utopisti della voce, alla perfetta funzionalità della natura. A questi ultimi, che coltivano la grottesca pretesa di impartire lezioni alla natura, è il caso di ricordare il motto (parafrasato) di Spinoza: “per naturam et perfectionem idem intelligo” ovvero “per natura e perfezione si intende la stessa cosa”. In questo senso dire “canta come parli!” è come dire “parla come mangi!”, dal che si capisce che teorizzare, al contrario, che esso voglia dire ‘correggere’ e ‘perfezionare’ preventivamente e ‘specialisticamente’ il parlato, è tanto surreale quanto lo sarebbe teorizzare che “parla come mangi” voglia dire “parla come mangi quando vai a una cena di gala, rispettando rigorosamente tutte le regole del galateo…”.
C’è in fine chi, dando abusivamente l’ etichetta di “belcanto italiano” alle proprie personalissime elucubrazioni, teorizza che le vocali del canto si differenzierebbero da quelle del parlato, perché le prime sarebbero tutte nella stessa ‘posizione’, mentre le seconde sarebbero tutte in posizioni diverse. A demolire un’ idea del genere è sufficiente un piccolo esperimento pratico: basta provare a dire una frase parlata al tempo rallentato del canto (ovviamente rispettando quel dato di fatto reale che vuole che si parli e si canti sulle vocali e non sulle consonanti, le quali consonanti quando si parla, ricordiamo, vengono semplicemente lasciate avvenire e non ‘fatte’ attivamente, e con un tempo che è naturalmente veloce e non velocizzato artificialmente) e si prenda poi atto del risultato dell’esperimento. Si noterà che quel legato fluido che caratterizza il canto di alto livello, conferendogli nobiltà e bellezza, è già contenuto in nuce nel normalissimo (e, per alcuni, banalissimo) parlato. A questo punto si capirà anche che la fantomatica ‘posizione unica’ del canto non si crea congelando staticamente il flusso dell’ articolazione in uno stampino (per quanto ‘ideale’ possa essere immaginato dai suoi teorici), ma mantenendo i movimenti naturalmente sciolti e minimali dell’ articolazione, come già facciamo perfettamente parlando, pur non avendone coscienza a causa della velocità del parlato, velocità che a sua volta è resa possibile unicamente dall’ essenzialità e perfetta funzionalità di questi movimenti. Sono proprio questi a creare quella fusione intima del centro immateriale di un suono col centro immateriale del suono successivo, a cui è stato dato il nome di ‘legato’ (ovvero ‘collegato’) e non certo le gabbie immobilizzanti, elaborate dalla razionalismo pseudo-scientifico.
Pensare di poter bloccare in una posizione statica e prefissata, considerata ‘ideale’, la naturale motilità e minimalità dell’articolazione parlata, generatrice sia del legato sia della sintonizzazione perfetta del suono, è la conseguenza diretta di un’illusione percettiva, paragonabile a quella che ci fa apparire immobile una ruota che gira.
In effetti, se vogliamo cercare delle analogie, la cosiddetta ‘posizione unica’ del canto è da concepire al massimo come il cardine attorno a cui ruotano i raggi della ruota (dove i raggi rappresentano le vocali) e non come l’assurda sovrapposizione-fusione dei raggi in un ‘raggio unico’. Inoltre anche i raggi delle vocali (distinti e distanziati tra loro, pur facendo capo a un unico cardine) non sono fermi, ma si muovono. Nel canto quel cardine unico corrisponde appunto al centro immateriale attorno a cui ‘ruotano’ le vocali, che devono quindi mantenere la libertà dei loro movimenti essenziali e sciolti, se si vuole che la voce sia in grado di autosintonizzarsi perfettamente, senza andare in distorsione acustica, e se, last but not least, si vuole che le parole rimangano comprensibili. È noto infatti che non può esserci emissione libera, se non c’ è articolazione libera.
A chi si domanda perché molti cantanti abbiano una dizione incomprensibile, si possono dare diverse risposte, ma la più semplice e sintetica è la seguente: perché questi cantanti o cercano lo spazio che dà la rotondità al suono nel posto sbagliato, (ossia là dove avviene il processo dinamico di articolazione-sintonizzazione del suono parlato e cantato) oppure perché cercano di creare un’apertura della gola statica, invece che duttile e flessibile, che è il motivo per cui nel Settecento Mancini elaborò il concetto di “moto leggero della gola”. È sufficiente che intervenga uno di questi due sbagli tecnici (il più clamoroso dei quali è pensare che la ‘gola aperta’ sia la gola aperta attivamente al massimo e/o l’ abbassamento meccanico diretto della laringe) perché immediatamente vengano alterati e/o inibiti i movimenti sciolti ed essenziali dell’ articolazione-sintonizzazione, i quali così non potranno continuare a svolgere la loro funzione di generatori del nucleo del suono, funzione che è comune sia alla voce parlata, sia alla voce cantata. Nessuno parlando ha problemi per articolare (o, più precisamente, per lasciare che da solo si svolga il movimento articolatorio). Come mai cantando invece l’articolazione perde la sua naturale scioltezza e diventa problematica? Perché il cantante non ha ancora acquisito l’ indipendenza tra due fenomeni (o processi), ossia il movimento dell’ articolazione e l’ apertura della gola, nel qual caso succede che o per mantenere l’ articolazione del parlato, si chiuda la gola, oppure per mantenere la gola aperta, si ostacoli o si distorca l’ articolazione. Entriamo qui nel cuore del fenomeno canto e della concezione belcantistica del canto come naturalezza. Ovviamente siamo già pronti ad affrontare la solita obiezione, che suona: se tutto è naturale, allora perché il canto non è qualcosa di immediato, di già dato, ma bisogna studiarlo, talvolta anche per lunghi anni? La risposta è: perché le sue due componenti, l’ articolazione naturale parlata e la respirazione naturale globale sono due opposti dimensionali, ognuno dei quali tende a subordinare a sé l’altro. Il che significa che l’ articolazione parlata e la respirazione globale sono due processi che abbiamo già perfettamente assimilato e fatti NOSTRI ancora prima di studiare il canto, ma non combinati tra loro: infatti quando parliamo, il respiro è superficiale e lo spazio di risonanza è ridotto, mentre quando respiriamo in modo globale e profondo non lo facciamo per parlare, ma per fare un sospiro di sollievo o per prendere una boccata d’ossigeno rigeneratrice. La difficoltà del canto quindi non consiste nell’ imparare come si respira e come si articola (funzioni che sono entrambe già un nostro possesso perfetto), ma nello stabilire tra loro la giusta relazione armonica, che ne rispetti l’ autonomia (quello che Mancini chiamava“accordo”). È questo accordo a rendere possibile la fusione olistica delle due componenti in un tutto, che chiamiamo canto (fusione che è superiore alla loro somma), e solo se entrambe le componenti sono naturali, è possibile la loro fusione.
Un ’ultima osservazione sulle implicazioni di queste considerazioni nella didattica vocale. Eliminare i ferrovecchi del canto ‘impostato’ e della pronuncia ‘scolpita’ non significa abbandonarsi al caso e all’ incertezza, ma significa rifondare la didattica vocale sulla base della vera realtà del canto, che è quella di un continuum fluido e non di un assemblaggio statico di oggetti staccati come i pezzi del Lego. Quando questa rifondazione sarà avvenuta, ci renderemmo conto che tutti i metodi basati sulla predeterminazione rigida di forme statiche hanno a che fare con l’apprendimento del canto esattamente come il prefiggersi di modificare la forma di un seme per farlo assomigliare alla futura pianta ha rapporto con la coltivazione delle piante e come il cercare di far crescere le ruote a un albero ha rapporto con le scienze naturali…
Antonio Juvarra
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