Antonio Juvarra – “Belcanto Italiano ® o belcanto farlocco?”

Ricevo da Antonio Juvarra e pubblico il suo articolo mensile. Non sono al corrente dell’ argomento su cui il docente di canto veronese ha deciso di scrivere questa volta, quindi non posso prendere alcuna posizione al riguardo e lascio a lui la responsabilità dei suoi giudizi.

“BELCANTO ITALIANO ®” O BELCANTO FARLOCCO ?..

L’ ilarità mista all’ incredulità è l’ effetto che sentirà nascere in sé il navigante di internet che abbia la ventura di imbattersi in un sito sul canto, autodenominato “Belcanto Italiano”.
Da che cosa è suscitato questo singolare effetto? Non dal fatto che i suoi titolari, M. Peli e A. Amaduzzi, abbiano scelto questo nome per il proprio sito (e relativa scuola di canto): c’ è chi vende pizze e c’è chi vende belcanto, e questo a prescindere dalla qualità, eccelsa o infima, del prodotto venduto.

Le cose però cambiano radicalmente, se il venditore di pizze e il venditore di belcanto in questione annunciano che i loro prodotti hanno ottenuto ufficialmente il riconoscimento dell’ esclusività della denominazione di “pizza napoletana” e di “belcanto italiano”, che è il caso fattosi realtà con il “Belcanto Italiano ®” dei succitati Peli & Amaduzzi, spacciato tragicomicamente come loro denominazione con marchio registrato. Il tutto ricorrendo a un sempilce trucco, che consiste nel far credere che il marchio registrato, da loro esibito, abbia come oggetto (cosa che non è) le iniziative didattiche e i CONTENUTI tecnico-vocali, pubblicizzati sul loro sito e trasmessi tramite una scuola, autodenominata “Accademia Nazionale di Belcanto Italiano ®” (?), la quale, usando appunto come specchietto la magica sigla ®, rilascia niente di meno che diplomi di “alto magistero nell’ insegnamento del Belcanto Italiano” (sic).

Ora, rimandando la spiegazione del “marchio Belcanto Italiano ®” a dopo, e precisato che a qualificare come “italiana” e “belcantistica” una tecnica vocale non basta ovviamente il disegnino del sito con la scritta “Belcanto Italiano” e il tricolore sullo sfondo, una cosa si può dire con certezza ed è che per ciò che riguarda il contenuto, ossia le indicazioni tecnico-vocali, esibite come belcantistiche dai Peli & Amaduzzi, il simbolo che meglio qualifica il sito internet “Belcanto Italiano”, non è il marchio ‘R’ di ‘Registrato’, da loro esibito, ma il marchio ‘F’ di ‘Farlocco’ e ‘Fake’, di cui il presente articolo rappresenta la ‘certificazione’ (certificazione rilasciabile dallo scrivente, on demand, anche in forma di dichiarazione olografa su carta intestata).

Stropicciandoci gli occhi, ci chiediamo increduli (plurale humilitatis): dunque il “belcanto italiano” sarebbe improvvisamente diventato l’ oggetto di uno speciale diritto di proprietà intellettuale da parte dei titolari dell’ omonimo sito, che dovremmo pertanto considerare come la fonte o la garanzia di autenticità dello stesso??
Scartata l’ ipotesi comico-surreale che il marchio registrato sia da interpretare nel senso che a inventare il belcanto sarebbero stati i suddetti Peli & Amaduzzi, oppure (ipotesi meno surreale, ma altrettanto comica) nel senso che sarebbero stati loro a inventare il termine che lo definisce (‘belcanto’ appunto), a questo punto la curiosità ci spinge a chiederci: ma allora in che cosa consisterebbe l’ originalità del contributo, offerto all’ umanità dai Peli Amaduzzi e divenuto oggetto della tutela giuridica da loro esibita? Forse nell’ aver associato al termine ‘belcanto’ l’ aggettivo ‘italiano’, che è un’ idea tanto originale e creativa quanto lo è l’ associare alla parola ‘pizza’ l’aggettivo ‘napoletana’? Oppure nell’ aver adottato le iniziali maiuscole per il ‘loro’ marchio, trasformando così il banale “belcanto italiano” in niente di meno che “Belcanto Italiano”?

A rendere ingarbugliato il caso c’ è poi anche un altro fatto: in base alla legge, NON è consentito registrare come marchi “parole che coincidono con il nome del prodotto e neppure parole divenute di uso comune o che comunque hanno nel linguaggio un preciso significato”. In altre termini non è che il furbo di turno possa registrare a suo nome ed esibire come marchio esclusivo nel suo ristorante la denominazione “risotto alla milanese”, sperando che tutti ci caschino. Nel nostro caso, se fosse vero che l’equivalente didattico-vocale del ‘risotto con marchio registrato’ e cioè il fantomatico “Belcanto Italiano ®” degli ineffabili Peli e Amaduzzi è divenuto realtà, vorrebbe solo dire che l’ anonimo burocrate che l’ ha autorizzato, l’ ha fatto violando la legge, magari pensando erroneamente che “belcanto italiano” fosse un nome di fantasia, inventato dai Peli & Amaduzzi (così come sarebbe, ad esempio, la denominazione “canto alato” o “wonder singing”) invece che quel preciso termine storico-musicale e tecnico-vocale, reso comune da un uso secolare, quale in realtà è.

L’ uso da parte dei Peli Amaduzzi della locuzione “Belcanto Italiano” appare poi allo stesso tempo un pleonasmo e un paradosso e questo due motivi: che non ci risulta esista un “belcanto mongolo”, un “belcanto arabo” o un “belcanto islandese”, da cui derivi la necessità di distinguere queste ipotetiche forme ‘nazionali’ di belcanto dal Belcanto Italiano, e che l’italianità da loro attribuita alle indicazioni tecnico-vocali del loro sito omonimo è pari solo alla napoletanità di una pizza, fatta con i crauti e gli hamburger al posto del pomodoro e la mozzarella.

Ovviamente la svista di chi ha approvato la richiesta di registrazione di questo ‘marchio’ (degno equivalente di un brevetto concesso alla scoperta dell’ acqua calda) non è nulla rispetto alla faccia tosta di chi ha avanzato tale richiesta e che fa sorgere spontanea questa domanda retorica: ma come si fa a pensare che un concetto o una parola, che scaturiscono da un patrimonio culturale secolare che appartiene a tutti, possa diventare, anche se solo in quantità infinitesimale o simbolicamente, qualcosa di “appropriabile” legalmente da qualcuno (ovvero una proprietà individuale), a cui non pare vero di poterci mettere sopra il proprio misero stampino?
Ubi sunt, dove sono finiti il rispetto, il pudore e il senso stesso della realtà?

Per fortuna quando l’ impudenza supera certi livelli e si basa sul nulla, succede che per la legge cosmica della Nemesi essa sia risucchiata da un’altra dimensione: quella del ridicolo. Infatti un’incursione così plateale nel comico-paradossale da parte della coppia Peli & Amaduzzi supera con un sol balzo persino i livelli raggiunti da un’altra coppia di ‘studiosi’, tali Bianchini & Trombetta, i quali nei loro deliri musicologici su Mozart mai sono arrivati a esibire come proprio fantomatico marchio registrato e tutelato legalmente il nome “Wolfgang Amadeus Mozart ® ”.

Per fortuna a sgonfiare il caso in questione basta poco. Fatta una piccola verifica, si scopre che la soluzione del mistero del presunto marchio registrato “belcanto italiano” è qualcosa di assolutamente banale, risultato di un trucchetto, cui sono ricorsi gli impagabili Peli & Amaduzzi per fare apparire ciò che non è.

La realtà infatti è che un marchio registrato a nome Peli & Amaduzzi effettivamente esiste, solo che NON si riferisce ai contenuti tecnico-vocali del sito, NON si riferisce alla fantomatica “Accademia Nazionale di Belcanto ®”, NON si riferisce agli omonimi corsi tenuti dai due, NON si riferisce neppure al termine “belcanto italiano” (non appropriabile legalmente da nessuno, essendo patrimonio di tutti), ma si riferisce semplicemente al DISEGNINO (con un arcobaleno tricolore, che fa da sfondo alle parole ‘belcanto italiano’), scelto dai due come immagine per contraddistinguere il loro sito.

Pertanto è del tutto abusivo e fuorviante che i due utilizzino il simbolo ® mettendolo in relazione, invece che (esclusivamente!) con la suddetta IMMAGINE, con i corsi di canto da loro organizzati e con i contenuti storici e tecnico-vocali del loro sito, arrivando persino a parlare di un loro fantomatico “marchio Belcanto Italiano ®”, definendolo “sinonimo di grande eccellenza”. Questo perché in realtà non esiste nessun “marchio Belcanto Italiano ®”. Esiste solo il semplice disegnino di un tricolore abbinato a una scritta, disegnino tutelato legalmente affinché nessuno lo copi (non c’è pericolo…), dal che si deduce che il resto è da porre in relazione con quella fattispecie giuridica che la legge definisce “pubblicità ingannevole”.

Chiarito il bluff del marchio “Belcanto Italiano ®”, subito però si fa avanti una preoccupazione molto più seria, che è la seguente: se tanto mi dà tanto, che cosa si nasconderà mai sotto il ‘marchio’?
Nel sottotitolo del sito troviamo elencati, tra i contenuti trattati, “la tecnica e la storia del belcanto”, mentre nella pubblicità dei corsi si decanta il prodotto della ditta, presentandolo addirittura come “la miglior tecnica della Scuola Belcantistica Italiana” (sic).

Ora, sparate pubblicitarie a parte, ciò che a noi basta è semplicemente che il marchio registrato “cerchio rotondo” (equivalente logico di “belcanto italiano”) non sia l’ etichetta messa su una trattazione che teorizza invece i cerchi quadrati.
Che si tratti di qualcosa del genere purtroppo risulta subito evidente dal fatto che tutta la tematica tecnico-vocale del sito ruota attorno a tre cose, che filologicamente e storicamente col belcanto non hanno nulla a che fare e che sono: la maschera, le vocali geneticamente modificate e le labbra a imbuto, da considerare tre ‘prodotti’ che hanno rapporto col belcanto come la chitarra elettrica, la batteria e le maracas hanno rapporto con le sinfonie di Mozart.

L’ insistenza dei due ‘belcantisti’ con marchio registrato (e in particolare della Amaduzzi, che recentemente si è autoproclamata niente di meno che “autentica rappresentante, nel senso più alto del termine, dell’arte del vero Belcanto Italiano”) su questi plateali FALSI STORICI ci fa sorgere il legittimo sospetto che alla base delle loro conoscenze tecnico-vocali in ambito belcantistico non ci siano propriamente i trattati di canto storici, ma ci sia, molto più banalmente, un qualche fantomatico Bignami di storia e tecnica del canto, magari in versione a fumetti.

I criteri ermeneutici e filologici dei due ‘studiosi del belcanto’ si riducono infatti a uno solo, che è questo: qualsiasi scemenza sia stata detta in materia tecnico-vocale diventa ipso facto un dogma del belcanto, se a dirla è stato un cantante del Novecento con una certa notorietà. Il che significa che se i più grandi cantanti del Novecento avessero detto che il segreto per cantare bene è il ‘sarchiapone’ (l’entità misteriosa della famosa gag con Walter Chiari), gli ineffabili Peli & Amaduzzi avrebbero registrato con tutta serietà questo ‘segreto’ nel loro sito per annunciarlo poi tutti esultanti coram populo.

La ‘maschera’ si può considerare a tutti gli effetti lo speciale ‘sarchiapone’, posto dai due sedicenti belcantisti italiani DOC al centro del canto e della storia del canto: un misterioso oggetto che agisce sui due come generatore di sproloqui e cortocircuiti logici a catena.
Da questo punto di vista ai due del belcanto registrato non pare vero che a proporre (sulla base della scienza del 1930!) la teoria (riconosciuta dalla scienza attuale come radicalmente errata) delle cavità nasali e paranasali come cavità di risonanza (in realtà cavità di ASSORBIMENTO del suono), siano stati niente di meno che Aureliano Pertile e Giacomo Lauri Volpi. A loro basta il nome di un grande cantante, per ripararsi dietro di lui e poter esclamare esultanti: “Ipse dixit!”

Peccato che a entrambi sfugga del tutto questo semplice fatto: a decidere se 2 + 2 fa 4 oppure fa 5 non è l’ importanza di chi lo afferma, ma qualcosa di più oggettivo e sovrapersonale, che ha nome Realtà, misteriosa entità che include in sé anche la Logica.
Ora è noto che nella maggior parte dei grandi cantanti si verifica quell’ anomalo fenomeno gnoseologico per cui la vera causa del loro canto non si riconduce alle loro personali teorizzazioni razionali (spesso ereditate acriticamente dal proprio insegnante), ma a quel fattore inconscio che Caruso chiamava “natura”, Del Monaco chiamava “istinto” e Pavarotti chiamava “sensazione”, fattore inconscio che spesso va (felicemente) nella direzione contraria a quella indicata dalla razionalità cosciente del cantante, condizionata dalle idee didattiche del tempo. Questo significa che se Pertile e Lauri Volpi fossero vissuti secoli prima, non avrebbero mai parlato di suoni da mandare nella ‘maschera’, pur cantando agli stessi livelli di eccellenza.

Abbiamo visto come per il duo Peli-Amaduzzi fare ricerca storica sul belcanto vuol dire cercare testimonianze favorevoli (ai propri pregiudizi), quali sono offerte NON da cantanti del periodo d’oro del belcanto, ma da cantanti del Novecento, SUCCESSIVI a questo periodo. Il che, quanto a logica, è come cercare di capire qual era la tecnica pittorica degli artisti del Rinascimento, chiedendo spiegazioni ai pittori del cubismo o del surrealismo, oppure come cercare di capire la Summa Theologica di S. Tommaso, non studiando Aristotele e i teologi medievali, ma cercando lumi in Marx o Freud.
Tra l’ altro, usando questo criterio, e cioè utilizzando le affermazioni tecnico-vocali dei cantanti famosi del Novecento come mezzo per ricostruire la vera struttura tecnico-vocale del belcanto, si potrebbe arrivare facilmente a conclusioni diametralmente opposte a quelle a cui sono arrivati Peli & Amaduzzi, e per raggiungere questo scopo basterebbe rivolgersi ai cantanti del metodo dell’affondo, da cui (paradosso nel paradosso) ha tra l’altro origine l’espediente (rivenduto comicamente dalla Amaduzzi come belcantistico…) delle labbra ‘a imbuto’.

In effetti da questa ‘paralogica’ alla ‘logicomica’ vera e propria il passo è breve ed è il passo che catastroficamente fanno i due del Belcanto Italiano con marchio registrato, quando riportano SERIAMENTE e supinamente nel loro sito, presentandole quali autorevoli testimonianze del belcanto, argomentazioni come queste (riconducibili a due diversi autori, su cui stendiamo il velo pietoso dell’anonimato):

1 – “Gigli e Caruso avevano un grande vantaggio: non avevano collo. Non esisteva il collo in loro! C’era il corpo e la testa attaccata sul corpo. Quindi, anche se avessero voluto cantare in gola, non ce la facevano.” (testuale)

2 – “Percorrendo una serie ordinata di suoni dal basso verso l’ acuto, il centro di maggior risonanza della voce deve spostarsi gradatamente dai risuonatori del petto (trachea, torace, polmoni, ecc.) ai risuonatori della maschera del viso (faringe superiore, naso, palato osseo, mascelle, denti, seni frontali e mascellari, ecc.). Questo fatto dà luogo ad una sensazione speciale nel cantante, per cui gli sembra che la voce “giri” dal basso in alto e in avanti o viceversa, percorrendo quasi una linea curva regolare ascendente o discendente durante il canto, e questo è il giro vocale.” (sic)

Come ho avuto modo di approfondire nell’articolo “Aureliano Pertile e la fiaba della maschera”, pubblicato nel sito Mozart 2006 nel maggio del 2015, chi vuole fare ricerca storica in ambito tecnico-vocale (e non banale mitografia o agiografia), deve usare gli stessi criteri che vengono usati nella ricerca scientifica. Uno di questi criteri consiste nel verificare quanti sono gli autori (intendendo per autori anche grandi cantanti che hanno fatto sporadiche affermazioni in materia tecnico-vocali) che hanno sostenuto determinate teorie e in quale arco di tempo ciò è avvenuto. Ad esempio, se di una determinata teoria ritroviamo traccia solo in un singolo autore oppure in più autori, ma in uno stesso limitato periodo di tempo, occorre verificare che essa non sia contraddetta dalla tradizione, ossia da quanto è stato sostenuto dalla maggior parte dei trattatisti del belcanto. Se lo è, essa deve considerarsi inficiata oppure deve essere interpretata come una formulazione scorretta (e quindi didatticamente fuorviante) di un principio già esistente nella tradizione.

E’ il caso, per l’ appunto, sia della ‘maschera’, sia dell’ ‘affondo’, da considerare come formulazioni scorrette (influenzate dalla scienza materialistica e meccanicistica dell’epoca) dei concetti, rispettivamente, di brillantezza, focus-concentrazione del suono e di rotondità e spaziosità del suono. Più precisamente, pensare che il significato delle antiche espressioni di voce alta, voce di testa e voce sul fiato equivalga al concetto di “maschera” (patacca tardo-ottocentesca di origine francese) è come pensare che l’arcobaleno si crei usando un faro colorato o che il vapore acqueo si crei spruzzando acqua in aria.

La “maschera”, intesa come cavità anatomica dove indirizzare intenzionalmente il suono (secondo l’interpretazione datane dai Peli & Amaduzzi), è un vero e proprio assurdo acustico e fisiologico. Al giorno d’oggi è stato accertato scientificamente in via definitiva che non solo le cavità nasali, ma anche le cavità paranasali NON sono cavità di risonanza, per cui i tentativi (comuni a tutti i sostenitori della maschera, da Pertile a Kraus) di salvare il concetto tecnico-vocale di ‘maschera’ stabilendo una distinzione sofistica (e inesistente) tra ‘suono nel naso’ e ‘suono in maschera’, sono completamente destituiti di fondamento e si rivelano come nient’altro che patetici modi per arrampicarsi sugli specchi.

La formulazione, riportata qui di seguito, del concetto di ‘maschera’ della Amaduzzi, quale figura nel sito in questione, conferma che la concezione della ‘maschera’ è il risultato di una rielaborazione intrinsecamente contraddittoria e gravemente fuorviante, operata dall’ideologica meccanico-materialisica tardo-ottocentesca, dell’antico concetto di ‘suono alto’. Scrive infatti la Amaduzzi:

“Il SUONO IN MASCHERA (o SUONO AVANTI) è un sistema che serve a rendere la voce brillante, squillante, potente ed efficace (anche nelle condizioni acustiche più infelici!) Il fiato passa attraverso le corde vocali e – permettetemi un termine “pittorico” – si “tinge” delle vibrazioni delle corde vocali, ma questo non basta. Questo flusso d’ aria che porta il prezioso carico sonoro con sé, deve essere indirizzato in alto. Un’immagine utile può essere quella di immaginare di dirigere il suono “verso il naso” e “avanti” senza naturalmente far confusione tra “suono in maschera, avanti” e “suono nasale” che invece è da evitare. Se un cantante usa bene il proprio strumento avrà la sensazione che le vibrazioni sonore passino scorrendo in alto verso il palato molle e che al livello dell’ ugola (o velo pendulo), le vibrazioni compiano una specie di giravolta e vadano a finire più o meno in alto dietro al naso (nelle fosse nasali).”

Questa concezione utopistica e totalmente anti-acustica del suono come un oggetto che dovrebbe intenzionalmente essere “diretto” e “indirizzato in alto” in zone anatomiche privilegiate (“le fosse nasali”!) ignora che il suono è una serie di onde che si propagano sfericamente (e quindi onnidirezionalmente!), per cui il “mandare il suono in maschera” rappresenta di per sé un adynaton, cioè un’ impossibilità fisica, tentando di realizzare la quale il cantante non farà altro che, in realtà e molto banalmente, SPINGERE LA VOCE e irrigidirsi.

L’ immagine della cosiddetta ‘maschera’, pubblicata nel sito in questione e riportata qui sotto, mostra in maniera eclatante che cosa succede quando i sogni hanno la meglio sulla realtà, e rappresenta quindi in maniera anche simbolica la migliore autoconfutazione che i Peli & Amaduzzi potessero offrirci.

Infatti questa configurazione anatomico-fisiologica, indicata nel sito come quella della ‘maschera’, corrisponde invece in realtà a nient’altro che al suono NASALE. A rendere evidente questo fatto è il vistoso abbassamento del velo palatino, tale da deviare parte del suono nelle cavità superiori, in primis le cavità, dette appunto nasali. Al contrario, il vero suono belcantistico (non ‘in maschera’ ma ‘sul fiato’) cioè il suono perfettamente sintonizzato e a risonanza libera, corrisponde a una raffigurazione anatomica dove il velo palatino, sollevato, chiude l’ accesso alle cavità nasali e paranasali, facendo sì che il suono fuoriesca totalmente dalla bocca.

Questo suono perfettamente sintonizzato e a risonanza libera verrà percepito dal cantante come suono ‘alto’, così come indicato da una tradizione che risale indietro nei secoli fino a Guido d’Arezzo e, più indietro ancora, fino a Isidoro da Siviglia (VI secolo d.C.), ma questa altezza è da considerare essenzialmente un’ altezza mentale, uno stato di coscienza, che probabilmente contiene in sé anche delle cause fisiche, le quali però non sono date dalla ricerca di vibrazioni frontali intraossee (che porta solo a spingere e schiacciare la voce), ma, eventualmente, dall’ apertura globale della gola, compresa la sua parte superiore, rinofaringea, il che genera un altro paradosso: tra le cause del tanto mitizzato “suono avanti” (mitizzazione che inevitabilmente sfocia nella riduzione a UNO, dei DUE poli della voce) c’è un elemento ‘tabù’, la gola, che per definizione è “indietro”.

Se pensiamo che il citato anonimo cantante, indicato come autorità belcantistica da Peli & Amaduzzi nel loro sito, aveva teorizzato che Caruso e Gigli, non avendo il collo, non avevano neanche la gola (?!), per cui non rischiavano di cantare di gola (?!), ci rendiamo conto dell’ inquietante baratro che separa l’ anatomia, la fisiologia e l’ acustica ONIRICHE del sedicente “Belcanto Italiano” di Peli & Amaduzzi dall’ anatomia, fisiologia e acustica REALI del VERO Belcanto Italiano, quale può essere “certificato” non da fantomatici “marchi”, ma solo dalla STORIA, dalla LOGICA e dall’ ACUSTICA.

E’ ispirandosi probabilmente alle stesse misteriose muse (la logica e acustica oniriche) che il suddetto Peli ha recentemente fatto oggetto della sua ilarità (ognuno si diverte come può) l’ idea (questa sì belcantistica!) di mantenere le vocali pure nel canto e, da esperto qual è, prima ha stabilito l’ equazione ‘vocali pure = canto ingolato’, dopodiché, bontà sua, ha affermato: “per accorgersi che Gigli e Lauri Volpi cantavano adattando le vocali, basta non essere sordi e ciechi.”

Cercare di far capire al pianobelcantista Peli (esperto di ‘belcanto’ quanto io lo sono di ‘belpiano’) le precise ragioni scientifico-acustiche che sono alla base del concetto di ‘vocale pura’ in effetti sarebbe tempo sprecato. Lui e la ‘combelcantista’ Amaduzzi non ragionano infatti in base alla logica, ma, come abbiamo visto, in base al numero di ipse dixit di grandi cantanti del Novecento, che sono riusciti a collezionare.
Rivelare al Peli che il massimo trattatista storico del belcanto, il castrato Giambattista Mancini, ha definito “vocali tradite” le vocali “adattate” (eufemismo per “distorte”) e “difetto ridicolo” il “miscuglio delle vocali” sarebbe parimenti inutile, dato che di Mancini il Peli conosce a mala pena il nome. E comunque sia, chi è Mancini rispetto al Peli? Nessuno, ovviamente.

Non importa neppure che Beniamino Gigli, l’ autorità più utilizzata dal Peli come portavoce delle sue idee (del Peli…), abbia detto che, “se si canta in italiano, si usano le CINQUE VOCALI DELL’ITALIANO nella loro forma più PURA” (colpo di scena: Gigli teorizzava dunque il canto ingolato?) e abbia specificato anche (nella sua masterclass di Vienna) che, se invece si canta in francese e in tedesco, allora si usano anche “le modificazioni di queste”, cioè le vocali miste. Siamo sempre alle solite: che ne può sapere Gigli del vero significato delle proprie affermazioni? Non è mica Peli!

A questo proposito risultano patetici i tentativi dei Peli Amaduzzi di portare acqua al proprio mulino, “adattando” (come già fanno con le vocali) il senso delle frasi di Gigli al proprio, che è ciò che succede quando provano a interpretare la specificazione finale (“nelle modificazioni di queste”) della frase sopra citata come una legittimazione ufficiale da parte di Gigli dell’uso delle vocali ‘miste’ (o ‘adattate’), non accorgendosi che in questo modo il discorso di Gigli diventa semplicemente INSENSATO. Ci vuole poco ad accorgersi infatti che così esso logicamente acquisirebbe lo stesso ‘senso’ della frase “per cucinare un buon piatto bisogna utilizzare alimenti genuini e adulterati”.
In altre parole, perché mai Gigli si sarebbe premurato di specificare che le “CINQUE vocali dell’ italiano” devono essere realizzate “nella loro forma più pura”, se poi in realtà è lecito usare anche “le modificazioni di queste”, cioè le vocali non pure? S’è mai visto un cartello stradale con la prescrizione “non svoltare a destra o, se si vuole, svoltare a destra”?

Altra cosa è se invece, come la logica elementare ci suggerisce, diamo alla frase di Gigli il suo UNICO significato possibile, quale per altro è stato espresso ESPLICITAMENTE (senza bisogno di alcuna interpretazione) dallo stesso Gigli nella sua masterclass di Vienna e così formulabile: “se si canta in italiano si usano solo le vocali dell’italiano, dove non esistono vocali miste; se invece si canta in francese e in tedesco, allora si possono usare anche le vocali miste, che sono appunto “modificazioni” delle altre vocali.”

Il principio delle vocali pure (e non ‘adattate’) nel canto è uno dei corollari della massima belcantistica “si canta come si parla”, solo che l’ incapacità dei Peli Amaduzzi di capire il senso di questa frase si spinge a tal punto da arrivare addirittura a ribaltarla, pubblicando in bella vista nel loro sito il tragicomico e arrogante avviso “non si canta come si parla”! Il tutto riparandosi dietro l’ autorità di Aureliano Perile, che, sulla scia di Garcia, aveva avuto la disgraziata idea di scrivere che nel canto “la A deve essere pronunciata AO, la O aperta come O chiusa, la I come I francese, la E come EU, la U come UO”, affermazione assurda, confutata dall’ evidenza (contraria) del suo stesso modo di cantare. Non esistono infatti, per fortuna, registrazioni dove possiamo sentirlo cantare “Ao sy, beun myo, con l’eusseureu” invece che “Ah sì, ben mio, con l’essere”.

Senonché i Peli Amaduzzi, oltre a non essere neppure sfiorati dal dubbio che questa affermazione teorica di Pertile sia contraddetta dal suo effettivo modo di cantare, non si rendono neppure conto che essa risulta anche incompatibile, in quanto letteralmente opposta, con la frase di Gigli, sopra citata, il che obbliga a optare o per la tesi di Pertile o per la tesi di Gigli. Non si può insomma buttare disinvoltamente nello stesso calderone con l’ etichetta farlocca di Belcanto, tutto e il contrario di tutto, purché ‘firmato’ da un grande cantante.

In altre parole, nel canto NON tutto fa brodo, per cui sentire la belcantista con marchio registrato Astrea Amaduzzi affermare disinvoltamente che “bisogna sfatare una volta per tutte il mito del ‘si canta come si parla’” (sic) è esattamente come sentire un prete proclamare sull’ altare: “bisogna sfatare una volta per tutte il mito dell”ama il prossimo tuo come te stesso”.
Se la sedicente “docente internazionale di belcanto” Astrea Amaduzzi non ha ancora capito il senso di questo principio fondamentale del belcanto, non può dire pubblicamente che non ha alcun senso, perché in questo modo fa la stessa figura di un insegnante di fisica che si mettesse a dire che l’equazione di Einstein E=mc² è solo una combinazione senza senso, dato che le lettere non possono stare con i numeri.

Risultati web

Ovviamente la massima “si canta come si parla” non significa che il canto sia totalmente uguale al parlato (altrimenti tutti canterebbero subito), ma significa che per quanto riguarda il concepimento mentale delle vocali e il movimento articolatorio che ne genera il nucleo, il canto è identico al parlato. Ciò che distingue il canto dal parlato è lo spazio che circonda questo nucleo, spazio che nel canto è più ampio che nel parlato, ma a creare questo maggiore spazio che dà rotondità al suono, NON è, come si incominciò a pensare erroneamente dalla seconda metà dell’ Ottocento, una modificazione genetica delle vocali, che determinerebbe immediatamente una distorsione acustica, ma è un diverso sistema, che è indipendente da quello dell’articolazione-sintonizzazione e fa capo alla respirazione naturale globale.

Come abbiamo visto, per il Peli e per la contitolare del sito “Belcanto Italiano” fare ricerca storica sulla tecnica del belcanto (così come reclamizzato nel loro sito) non vuol dire basarsi sulla logica, sull’ acustica e sulla trattatistica del belcanto (Tosi, Mancini, Mengozzi e Lamperti in primis), dove non troviamo traccia delle patacche post-belcantistiche della ‘maschera’, delle ‘vocali adattate’ e delle ‘labbra a imbuto’, da loro spacciate come belcanto, ma vuol dire basarsi su un loro personale catalogo dei (soli) cantanti che hanno testimoniato la loro fede nell’esistenza di queste entità fantomatiche, catalogo popolato quasi esclusivamente da cantanti del Novecento.

Insomma non c’ è verso che la mente dei due “belcantisti italiani” autocertificati si lasci sfiorare dalle seguenti obiezioni logiche, basate su fatti storici:

1 – l’ inventore della patacca delle vocali ‘adattate’ è un tizio, di nome Manuel Garcia junior, che come cantante ha avuto una carriera (ingloriosa), che è durata solo quattro anni ed è terminata prematuramente, pare, per la perdita della voce. Il suo insegnante (e padre) Manuel Garcia senior, è stato invece uno dei cantanti più prestigiosi della prima metà dell’ Ottocento e ha scritto un metodo di canto, dove prescrive l’uso delle VOCALI PURE e non “adattate”. Ciò precisato, è normale considerare un’autorità in materia tecnico-vocale, su cui basare le proprie teorie sul canto, non il maestro, ma il suo allievo, ultimo della classe?

2 – Se, come è vero, prima del 1865 NESSUNO (compreso Garcia) ha mai parlato della fantomatica entità denominata ‘maschera’, e prima del 1847 NESSUNO ha mai parlato della presunta necessità di “adattare” e “mescolare” le vocali per cantare, com’ è potuto accadere che i cantanti del tempo, sprovvisti di queste presunte nozioni tecnico-vocali fondamentali, siano riusciti ad eseguire, nell’anno 1842, la prima del Nabucco di Verdi e, prima ancora, opere come la Norma, gli Ugonotti e il Guglielmo Tell? Forse grazie a un miracoloso viaggio nel futuro che li ha messi in grado di apprendere direttamente dal duo Peli-Amaduzzi la tecnica per “proiettare il suono in maschera” e “adattare” le vocali? Non è evidente insomma che la ‘maschera’ ha lo stesso grado di realtà fisiologica e acustica del ‘sarchiapone’, sopra citato?

“Proiettare il suono in maschera” è in effetti un’ altra delle assurde fissazioni del duo Amaduzzi Peli, cui fa da pendant la fobia che esso “cada in gola”, concezione di cui non si trova traccia nei trattati belcantistici, che hanno sempre parlato di “espandere la voce”, di “voce spiegata” e di “accordo tra moto naturale della gola e moto consueto della bocca”.

Ora, fin che ci si limita a parlare di “proiezione”, si rimane nell’ambito delle metafore fuorvianti o delle illusioni percettive, come lo sarebbe il pensare che la terra sia piatta o che il sole scenda effettivamente sotto la linea dell’orizzonte. Si entra invece in tutt’ altro ambito (che evitiamo di definire) quando, come fa la belcantista registrata Amaduzzi, si stabilisce un rapporto comico-scientifico tra questa illusoria ‘proiezione’ e la sua presunta causa, individuata dalla Amaduzzi nella manovra meccanica dello sporgere in fuori le labbra, avvicinando tra loro gli angoli della bocca. (?!)
In tale manovra secondo la Amaduzzi risiederebbe anche il significato dell’ espressione tradizionale ‘raccogliere il suono’: concezione comicamente ‘idraulica’ questa, invece che acustica, in quanto deriva direttamente dall’ idea (molto scientifica!) che la voce sia equiparabile a una canna dell’ acqua, di cui occorre stringere l ‘imboccatura per allungare il getto d’acqua…

In fine, come classica ciliegina sulla torta, troviamo una paradossale teoria anti-teorica, che la Amaduzzi espone con queste parole testuali:

“I suggerimenti teorici, se vengono disgiunti dall’ esempio canoro di un cantante di alto livello (che difficilmente oggigiorno uno studente può trovare), è chiaro che non hanno senso” (?!),

demenziale gaffe, con cui si teorizza che il modo di cantare di un grande cantante avrebbe il magico potere di trasformare le sue spiegazioni teoriche insensate in spiegazioni sensate, privilegio negato invece ai cantanti di livello inferiore, il cui modo di cantare scadente sarebbe, viceversa, sufficiente a inficiare le loro spiegazioni teoriche, anche se giuste.

E’ evidente che qui ci troviamo al grado SOTTO ZERO della Logica: un discorso talmente assurdo da ritorcersi contro chi ha avuto il coraggio di proporlo seriamente.

Infatti se il razzolare bene come cantante fosse il fattore determinante dell’ insegnamento del canto e se, per contro, il predicare male come teorico fosse un fattore correggibile solo grazie al primo, allora la signora Amaduzzi dovrebbe per coerenza smettere di scrivere di tecnica vocale, risparmiandoci tutte le spiegazioni teoriche assurde con cui riempie il suo sito, essendo chiaro che il suo talento vocale (obiettivamente discreto, ma non eccezionale) è del tutto impari a questo immane compito di magica compensazione e metamorfosi, compito per realizzare il quale non basterebbe una semplice Amaduzzi (per quanto autoproclamatasi “autentica rappresentante, nel senso più alto del termine, dell’ arte del vero Belcanto Italiano”), ma (in base alla sua teoria del grande cantante come Re Mida, che trasforma in oro le scemenze che dice) richiederebbe l’intervento congiunto, come minimo, di una Adelina Patti, di una Renata Tebaldi e di una Maria Callas.

Antonio Juvarra


Scopri di più da mozart2006

Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.