Le cronache di Alessandro Cortese – “Il Prigioniero”/Quattro Pezzi Sacri al MMF

Foto ©Camilla Riccò

Come secondo articolo della collaborazione con questo sito, Alessandro Cortese ha seguito per noi il dittico formato da Il Prigioniero di Dalla piccola e dai Quattro Pezzi Sacri di Verdi, in scena al Maggio Musicale Fiorentino. La sua recensione si riferisce alla recita di sabato 23 giugno.

 

      LXXXI FESTIVAL DEL MAGGIO MUSICALE FIORENTINO: IL PRIGIONIERO, QUATTRO PREZZI SACRI E UN OMAGGIO AL MAESTRO ZUBIN MEHTA

Prima di entrare nel merito della cronaca della serata, è giusto e doveroso rendere omaggio a colui che avrebbe dovuto dirigere il dittico Dallapiccola-Verdi previsto in cartellone, ovvero, Il prigioniero e Quattro prezzi sacri: il Maestro Zubin Mehta.
Con discrezione e grande rispetto per se stesso e per i lavoratori del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, il Maestro Mehta ha deciso di annullare tutti gli impegni previsti nel 2018 per occuparsi approfonditamente della sua salute a Los Angeles. Comprensibile è stata la commozione del mondo musicale in genere, ma soprattutto di coloro che aspettavano il Maestro a Firenze: maestranze, lavoratori e affezionati si sono stretti attorno al Direttore ed hanno atteso, con affetto, notizie sul suo ritorno.
Il 21 Giugno, finalmente in buono stato di salute, Zubin Mehta ha fatto ritorno a Firenze, festeggiato da orchestrali e coristi del Maggio Musicale Fiorentino che hanno accompagnato il Sovrintendente Cristiano Chiarot ed il Consulente artistico Pierangelo Conte nel dargli il benvenuto all’aeroporto di Peretola e successivamente a Teatro, dove ha riabbracciato l’ amico Daniel Barenboim.
Il Maestro Mehta, ha dovuto rinunciare non solo alla direzione del Dittico, ma anche a un concerto di musica contemporanea (al suo posto il Maestro Gergely Madaras), al tour europeo con la Filarmonica di Vienna ed ha annunciato il ritiro dalla carica di direttore musicale a vita della Israel Philarmonie Orchestra.
Ci uniamo anche noi a questo omaggio al Maestro Mehta, direttore fiorentino d’ adozione dal 1985 e poi direttore emerito dal 2007, che con grande professionalità ha confermato la sua presenza sul podio del Maggio Musicale per i due concerti dedicati al “Ciclo Šostakovič” (28 e 30 Giugno: Ouvertune da “Die Meistersinger von Nürnberg”, Sinfonia n. 1 in fa minore, op. 10 e Sinfonia n. 5 in re minore, op. 47 di Šostakovič, Concerto per pianoforte e orchestra n. 2 in si bemolle maggiore, op. 83 e Concerto per pianoforte e orchestra n. 1 in re minore, op. 15 di Brahms) accompagnati al pianoforte da Sir András Schiff.
Confidiamo di avere l’ opportunità di ascoltarlo anche nella prossima stagione che il Sovrintendente Chiarot annuncerà il 5 Luglio.

“Dialoghi ai confini della Libertà”, questo il tema dal quale è partito l’ ottantunesimo festival del Maggio Musicale Fiorentino, manifestazione che si è aperta con una pregevolissima edizione del Cardillac di Hindemith diretto e interpretato con drammatica passionalità dal Maestro Fabio Luisi e dal baritono Martin Gantner e, dopo la verdiana Battaglia di Legnano, ha proposto l’ inconsueto accostamento Dallapiccola-Verdi accomunando Il prigioniero ai Quattro pezzi sacri in un’ unica soluzione, come se uno fosse il logico prosieguo dell’ altro.
Opera fondamentale del ‘900 italiano, Il prigioniero ebbe il suo battesimo alla Radio di Torino in forma di concerto diretto da Hermann Scherchen e successivamente trovò proprio a Firenze la via del palcoscenico l’ anno successivo sempre curato dalla medesima bacchetta, mancava dal teatro fiorentino dal 2004 quando a dirigerla fu il Maestro Bruno Bartoletti.
Il prigioniero è intriso non solo del linguaggio mitteleuropeo e dodecafonico della scuola viennese, ma Luigi Dallapiccola si è preoccupato di immettervi tutti i suoi studi umanistici, tutta la complessità che il compositore sentiva accostandosi a una musica che doveva scavare gli stati d’ animi fino a ergersi limpida e catartica attraverso un canto che esaltasse la purezza e la semplicità della parola. Un impegno intensissimo che solo in un arco storico e creativo durato nove anni, dal 1939 al 1948, ha trovato piena collocazione e maturità, prima di tutto nella scelta dei testi: da La torture par l’ expérance di Auguste de Villieres de l’ Isle d’ Adam, dove il protagonista era non a caso un rabbino rinchiuso nelle prigioni del Palazzo dell’ Inquisizione di Saragozza al tempo di Filippo II e delle guerre nelle Fiandre, alla La légende de’Ulenspiegel et de Lamme Goedzak di Charles de Coster, La rose de l’ Infante di Victor Hugo, le poesie di Lisa Pevarello e la Favola del figlio cambiato di Luigi Pirandello e Gian Francesco Malipero, che diedero spunto per la figura inedita della Madre e caratterizzarono il contenuto etico, morale e filosofico del libretto. Già Dallapiccola nel ’39 si era cimentato nei Canti di prigionia (che sarebbe stato del massimo interesse far ascoltare durante la serata), una forma di ribellione culturale e morale contro le leggi razziali e se pensiamo che la stesura definitiva del libretto è datata 1944, ovvero l’ anno della liberazione di Firenze dove dimorava il compositore, è quasi scontato parlare di autobiografia musicale tale è l’ importanza da attribuire alle sue prese di posizione.
Il successo di pubblico arrise al Prigioniero che forte del consenso iniziò a girare. Più ostili furono i critici che non vollero comprendere, e scandalo suscitò tra i politici di ogni schieramento per il contenuto del libretto, e, immancabile, anche la Chiesa dimostrò il suo disappunto davanti alla figura del Carceriere/Inquisitore: meglio così. Il lavoro aveva colto nel segno e lasciato una traccia indelebile nel pubblico.
In realtà la volontà di scandalizzare era lontanissima dal temperamento di Dallapiccola, che addirittura rifuggiva l’ avanguardia per piegare la dodecafonia e la tessitura delle sequenze in blocchi netti (simmetria delle scene, arie, duetti, ballate, cori fuori scena) e temi ricorrenti (il motivo delle preghiera, il tema della speranza, quello della libertà, la campana di Gand), mentre in scena permetteva a degli archetipi ancestrali di agire e comunicare il peso del messaggio (la Madre, il Condannato innocente, il rappresentante del Potere).

Foto ©Camilla Riccò

A sostituire il Maestro Mehta è stato chiamato Michael Boder: scelta sensata. Esperto della musica del ‘900, dei compositori contemporanei, ma anche del tardo romanticismo, e ospite di prestigiosi podi europei, Boder imposta la sua direzione come se si trattasse di accompare un oratorio sacro. Sonorità ovunque livide e angoscianti, i temi emergono con forza tellurica, attutiti talvolta da uno sguardo solenne, quasi scientifico.
Emblematici la benevolenza che accompagna il canto spigoloso della madre, la sottile brutalità che sostiene il Carceriere/Inquisitore volutamente manchevole di ambiguità in questa visione, il coro fuori scena costretto ad un minaccioso crescendo, il canto onirico del prigioniero che si aggira nei corridoi, il finale così gelido e sbrigativo nel suo cinismo.
E se il coro e l’ orchestra assecondano con precisione l’ interpretazione del Maestro Boder, la compagnia di canto può contare su John Daszak, Carceriere/inquisitore, che nei ruoli contraddittori e spettrali dà il massimo del suo talento istrionico, grazie alla dizione curata, ad uno strumento certamente non potente, ma sufficientemente penetrante ed un fraseggio di camaleontico impatto; sul Prigioniero di Levent Bakirci, voce baritonale, sonora e dal fraseggio inquieto e come predestinato, ma dall’ emissione gutturale che in alcuni momenti compromette l’ intonazione delle note acute; sulla Madre di Anna Maria Chiuri che affronta un ruolo chiaramente sopranile con la sua voce di schietto mezzosoprano: le note ci sono tutte e soprattutto al centro la signora Chiuri dimostra un ottimo controllo dei mezzi; quando sale la voce rischia un suono vetroso, ma il fraseggio così amaro, l’ accento intenso che lentamente si spegne in pianissimo, ne fanno una interprete convincente. Voci beneducate e intonate quelle di Antonio Garés e Adriano Gramigni, nei panni dei sinistri sacerdoti.
Anche il regista e coreografo Virgilio Sieni, coadiuvato da João Carvalho Aboim e Giulia Mureddu, da Giulia Bonaldi per le scene ed i costumi, e le luci di Mattia Bagnoli, rilegge Il prigioniero come un dramma sacro: una parete traslucida si colora delle luci dei roghi dell’inquisizione, lasciando intravedere le sagome di quei condannati che venivano sacrificati durante gli Autodafé: davanti a questa fiamma, la Madre, scalza, coperta di corde sfilacciate, descrive la propria condizione. Ogni movimento è potenziato dalla pantomima di un mimo che raddoppia il dolore e, nel caso del Prigioniero, che vedremo emergere seminudo e prostrato al sollevarsi della parete su un cubo vuoto e tenebroso, i mimi saranno moltiplicati e d’ambo i sessi a rappresentare l’ intera umanità. Il Prigioniero, più volte, assumerà pose che lo accomuneranno ad una figura cristologica (crocifissione, noli me tangere, resurrezione, pietà) traducendo nei gesti l’ orrore delle torture subite, con il materializzarsi di quella lunghissima scia di sangue ad imbrattare un muro già incrostato dalle sofferenze altrui ed il vaneggiamento psicologico di fronte ad una orrenda speranza che lo ingannerà e ucciderà. Mostruoso il Carceriere/Inquisitore travestito da macellaio dalle braccia immense e implacabili, suggestivo il finale con l’ apparizione di una croce luminosa vista in prospettiva intorno alla quale danza il fuoco dei roghi.
Spettacolo suggestivo, purtroppo funestato da alcuni fattori in cui indulgono moltissimi registi odierni:  doppiare i protagonisti attraverso una schiera di mimi, con il risultato di portare alla distrazione nonostante l’ innegabile eccellenza espressiva e tecnica dei ballerini e camuffare dei personaggi in fogge animalesche poco attinenti con la storia. Cose già viste e già dimostratesi poco funzionali.
Meno efficace il risultato ottenuto nei “Quattro pezzi sacri”.
Il tema dei primi tre brani, Ave Maria, Stabat Mater e Laudi alla Vergine Maria, hanno portato il regista a concentrarsi sulla figura della Madonna identificandola con la benevolenza pietosa e salvifica della Madre del Prigioniero, testimone della morte del proprio figlio innocente, davanti alla quale si consuma anche il dramma dei migranti che solcano il mare per salvarsi o per morire. I ballerini ricoperti di un pesante trucco color terra che li trasforma in qualcosa di alieno e “diverso”, come un esercito di terracotta che lotta per la salvezza, si muovono in uno spazio bianchissimo che gradualmente verrà contaminato dal loro colore e riempito di oggetti a noi familiari: un gommone, due tricicli, un cassonetto per l’ immondizia, delle coperte.
Il balletto rappresenterà il naufragio, la vita, la morte e la salvezza dei migranti davanti ad un coro posto su una gradinata, bianchissimo anch’ esso, che assisterà come noi all’evento imitando empaticamente alcuni gesti dei mimi.
Il pubblico si è lasciato scappare qualche mormorio in sala a causa del non immediato accostamento, ma ha poi applaudito con convinzione il bravissimo coro che brilla per intonazione e precisione dell’ emissione delle varie richieste espressive, nella modulazione delle sonorità e nell’ amalgamarsi nei difficili brani a cappella fino al liberatorio Te Deum.
Più neutra si dimostra la bacchetta di Boder che dimostra estrema fiducia nelle capacità del coro.
Successo caloroso e convinto da parte del pubblico, che purtroppo riempiva solo per metà il teatro.

Alessandro Cortese


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