Antonio Juvarra – Giuseppe Di Stefano e il Meccano della voce

Festeggiamo allo stesso tempo la Pasqua e l’ inizio del mese di aprile con il consueto contributo di Antonio Juvarra, ancora una volta dedicato alla voce e all’ arte di Giuseppe Di Stefano. Buona lettura a tutti, con i migliori auguri di una serena domenica pasquale.

 

L’UOMO CHE SI RIFIUTÒ DI CONSIDERARE “TECNICA VOCALE” IL MECCANO DELLA VOCE

 

 

Immaginiamo, con una di quelle ipotesi apocalittiche, care alla fantascienza, che un cataclisma distrugga quasi completamente la terra e che, migliaia di anni dopo quel cataclisma, degli archeologi ritrovino, sepolti chissà dove, i primi due minuti di questo video, video dove sentiamo un cantante  ripetere la parola più originaria, archetipica ed emotivamente pregnante che esista, intercalata ad altre parole normalissime  e del tutto prosaiche: “Quel vino è generoso. Certo oggi troppi bicchier ne ho tracannati. Vado fuori all’aperto…”

Ebbene, quei semplici due minuti basterebbero a restituire il senso più profondo di quell’ espressione artistica che un tempo, migliaia di anni prima, aveva preso il nome di ‘opera’.

Non importa che non si sappia nulla della storia rappresentata e che si ignori la lingua con cui si esprimono i personaggi. La semplicità e la naturalezza con cui tutto, compreso il canto,  accade, sono come la superficie limpida di uno specchio d’ acqua, che lascia intravedere in profondità la verità abissale della condizione umana, quello che Wagner chiamava “il puramente umano”.

Il tutto grazie soprattutto alla voce, ai gesti, all’ inflessione emotiva, all’ alone suggestivo e  mitico, creati da QUEL cantante, di nome Giuseppe Di Stefano, mentre dice, trasfigurandole, quelle due semplicissime sillabe: mam-ma, le prime sillabe della fonazione umana prima della lallazione.

Da notare che qui il cantante si ritrova, come spesso accade nell’ opera, a camminare  su un crinale sottilissimo: quello che separa il sublime dal ridicolo, l’ opera vera e propria dall’ opera dei pupi. Il che significa che basta un passo sbagliato e subito il cantante precipiterebbe nel baratro della scenetta buffa, che in questo caso è quella del vitellone ventenne, che piagnucola perché non ha il coraggio di confessare alla mamma la marachella che ha combinato, e questo baratro tragicomico solo Di Stefano assieme a pochi altri tenori è riuscito a superarlo indenne, rimanendo vero.

Immaginiamo adesso che fine farebbe quel senso di rivelazione e di gratitudine, grazie a cui noi, nel sentire il canto di Di Stefano, ci riconosciamo empaticamente come esseri umani, se invece ci fosse un altro cantante a dirle.  Ad esempio un cantante seguace della maschera, ossia uno di quelli che hanno in testa l’ idea infantile che il canto sia il basket della voce e che il suono sia una palla da lanciare ‘avanti’ (con o senza ‘giro’) per fare canestro nella ‘maschera’, oppure sia una freccetta con cui fare centro in un magico bersaglio, posto sul palato.

In questo caso, invece di sentirci invadere, quasi increduli, dall’ infinita dolcezza, tenerezza, delicatezza e dallo struggente pathos e senso di smarrimento con cui Di Stefano canta quelle parole, noi ci ritroveremmo a doverci sorbire la baldanza fuori luogo del ‘tenore da parata’, tutto  contento che la prima parola che deve cantare, sia ‘mamma’ perché così può appoggiare la voce alla consonante ‘M’ per mandare il suono ‘in maschera’ e scongiurare il pericolo che il suono vada ‘indietro’(?!).

Anzi è molto probabile che, se particolarmente “secchione” (per usare l’ azzeccatissima terminologia di Di Stefano), quel tenore, per essere ancora più sicuro che il suono vada ‘in maschera’, prima lo ‘assaggerebbe’, anticipando la consonante ‘m’ e producendo un risultato proveniente direttamente dal registro del comico-involontario: “(mmmmmm)……. Mammmmma !” (dove ovviamente le sei ‘m’ di ‘mamma’, al posto delle normali tre, sono d’ obbligo per diventare più ‘tecnici’ e insieme più ‘espressivi’…).

Cambiamo adesso scenario ‘tecnico-vocale’ (virgolette rigorosamente obbligatorie) e  immaginiamo che, al posto del tenore fautore della ‘maschera’, a cantare quella frase ci sia un seguace dell’ affondo.

Il ragionamento che questo signore farà prima di cantare, sarà invece più o meno il seguente:

“Dal momento che, come  si sa, io sono un tenore professionista, possiedo una signora voce e conosco i segreti esoterici dell’ affondo, è ovvio che io non posso cantare quel ‘Mamma’ come lo canterebbe un Di Stefano. Altrimenti la ‘copertura’ del suono dove andrebbe a finire?  E dell’ importanza della mia voce chi si accorgerebbe? Sì, certo, se uno è un Gianni Morandi della lirica, può anche cantare questo ‘Mamma’ come canterebbe ‘Fatti mandare dalla mamma’, ma si dà il caso che io sia un cantante lirico e per di più un tenore.  Ergo io ‘imposto’, ‘copro’, ‘affondo’ e ‘giro’: per niente sono un tecnico io!.”

Il risultato, di cui il cantante ovviamente andrà particolarmente fiero per l’ inconfondibile tocco di ‘professionalità’ (virgolette d’ obbligo), che così caratterizzerà la sua esecuzione, sarà in questo caso: “MOMMO!…. MOMMO!…”, con la bocca spalancata in verticale come quella dello scemo, per ‘sganciare’ meglio la mandibola.

Non è escluso però che (siccome il destino ama essere ironico) dopo la recita il tenore affondista, proprio mentre con la mente era perso nella sua fantasia auto-erotica preferita (quella della grossezza della sua voce),  venga avvicinato da uno dei tanti esperti di tecnica vocale a piede libero, che circolano nei teatri e su facebook, e che tra loro si instauri il seguente dialogo:

MELOMANE: “Perdoni la curiosità, ma lei per caso è della scuola Del Monaco?”

TENORE: “Sì.”

MELOMANE: “L’ avevo capito subito!”

TENORE: “Perché, non le è piaciuta per caso la mia esecuzione?”

MELOMANE: “Per carità, per essere piaciuta, mi è piaciuta.  Però, se posso essere sincero, le dirò che quel mi bemolle io l’avrei coperto ancora di più, avrei sganciato in basso ancora di più la mandibola e per sicurezza avrei anche azionato di più il torchio addominale… Ovviamente non c’ è bisogno che le spieghi che cosa voglio dire: tra noi ci intendiamo.  Sa, queste cose io le so perché ho fatto il cameriere di Del Monaco e ho portato a spasso il cane di Corelli per due anni, non so se mi spiego. Comunque guardi, facciamo una cosa: siccome lei mi è simpatico, se mi viene a trovare un giorno che ho tempo,  sono disposto a spiegare questi segreti anche a lei.  E le farò anche provare la cintura dell’ affondo del grande Mario! Così poi non sembrerà più un Di Stefano. Per carità, con tutto il rispetto per Di Stefano, sia chiaro…”.

Sorvolando ora sulla scena comico-surreale che seguirebbe se il tenore normo-affondista andasse a lezione dal melomane ultra-affondista (in sintesi la scena di un incredibile Hulk che fa scappare terrorizzata la madre, gridandole  l’ incomprensibile verso animalesco “MUMMUUUU!…. MUMMUUUUU!…”) e volendo ritornare  dal grottesco all’ umano, la domanda (liberatoria) che uno dovrebbe farsi, è: ma come faceva Di Stefano a cantare quel “mamma” con un suono che è insieme dolce, rotondo, delicato, vivo e talmente limpido da lasciar trasparire l’ anima? Come mai non aveva bisogno di profanare la tecnica vocale italiana, l’ opera italiana e la lingua italiana, muggendo “Mommo” (o, ancora più ‘tecnicamente’, “Mummu”) col pretesto penoso della ‘copertura’ del suono, e nemmeno aveva bisogno di belare ‘Memme’ col ‘naso-maschera’ nell’ illusione comica di ‘proiettare’ così la voce?

La risposta è di una semplicità disarmante. Perché Di Stefano non ha mai creduto alla favola che il suono (che non è un oggetto, ma una serie di onde onnidirezionali) possa e debba essere mandato intenzionalmente da qualche parte. Perché sapeva perfettamente che è proprio l’ idea di mandare o tenere il suono ‘avanti’ che fa sì che  la vocale ‘A’, di per sé già brillante, si schiacci e diventi ‘aperta’ in senso negativo, facendo nascere così nella mente dei “secchioni” delle fantatecniche vocali la bislacca idea che una vocale come la ‘A’, che per secoli era stata usata tranquillamente, anzi con vero e proprio piacere dai belcantisti, improvvisamente sia diventata difettosa, non ‘funzioni’ più e quindi necessiti delle ‘riparazioni’ tecnico-vocali dei geni delle vocali ‘coperte’, ‘riparazioni’ consistenti nel… sostituirla con un’ altra vocale.

I suddetti geni infatti definiscono eufemisticamente ‘vocali miste’ o ‘coperte’  le vocali da loro sottoposte a questo trattamento, cioè violentate, non rendendosi conto che, come la nota La diesis non è la nota La e la nota Re bemolle  non è la nota Re, così  la vocale AO non è la vocale A e la vocale EU non è la vocale E. Entrambe sono ALTRE vocali, checché ne abbia farneticato in proposito Manuel Garcia jr.

Di Stefano aveva intuito (ed è questa la vera tecnica vocale!) che se la vocale pura del parlato rimane il centro, il focus, il DNA della vocale cantata e se si respira in modo ampio e distensivo (rimanendo essere umani e non trasformandosi in robot),  è la vocale stessa che da sola si creerà lo spazio di cui ha bisogno, ‘arrotondandosi’ morbidamente e naturalmente, ma rimanendo se stessa. Aveva capito che il passaggio di registro non è l’ oscuramento della vocale, ma la semplice chiusura fonetica della vocale. Aveva capito che fare la faccia dello scemo per ‘rilassare’ e ‘sganciare’ meglio la mandibola cantando non è tecnica vocale, ma, molto più banalmente, soltanto uno dei cento modi per sembrare ED essere scemo.

In altre parole non aveva mai creduto ai dogmi vocali, imposti con supponente ottusità dai ‘topi di biblioteca’ del canto e accettati come veri da molte ‘pecore di palcoscenico’, secondo cui per cantare occorrerebbe trasformarsi in ‘proiettori’ (riducendo così di 135° l’ orizzonte visivo, acustico e mentale) o in ‘sommergibili’ (teorizzando intelligentemente che, per navigare meglio, una nave debba affondare).

E neanche aveva mai creduto alla barzelletta che per cantare bisognerebbe usare delle vocali (come la AO, la EU e la Y), che paradossalmente NON esistono proprio nella lingua di quel paese, l’Italia, dov’è nato il canto!

Si sarebbe poi vergognato a seguire l’ esempio degli affondisti, che dopo aver (giustamente!) buttato fuori dalla porta l’ idea del suono ‘avanti’, in ‘maschera’ e la relativa demonizzazione del suono ‘indietro’, avevano fatto comicamente dietrofront, facendo rientrare di nascosto dalla finestra tutto l’ armamentario della ‘maschera’, e questo perché, avendo verticalizzato lo spazio di risonanza e alterato le vocali, si erano ritrovati con tutti i suoni intubati, da cui la necessità di tirar fuori in qualche modo un po’ di brillantezza, ricorrendo all’ espediente artificiale e compensativo della ‘maschera’ e coll’ intelligentissimo risultato di aggiungere così alle tensioni innaturali dell’affondo anche quelle della ‘maschera’.

In sintesi, Di Stefano aveva capito che pensare di arrotondare la vocale  ingrossando il suo nucleo puro, invece che ampliando lo spazio che lo circonda, grazie al respiro, è come pensare che per ingrandire una fotografia sia necessario sfocarla o come pensare di ingrandire un cerchio, ampliando il centro invece della circonferenza. Aveva capito che il suono  si espande come fa la luce del sole, e non si ‘proietta’ come se fosse un faro. Aveva capito che è sufficiente, grazie al respiro, salire sull’ onda della frase naturale parlata e da essa lasciarsi trasportare, per realizzare il legato e, appunto, il fraseggio, ma tutte le volte che lo diceva, i secchioni ottusi del canto pensavano che lui intendesse dire che bisogna sillabare meccanicamente o ‘scolpire’ la pronuncia, come se nella vita reale, invece di dire semplicemente, fluidamente e musicalmente: “Mi fa un caffè?”, noi scandissimo  marionettisticamente le sillabe, dicendo “MI-FA-UN-CAF-FE’?”.

Aveva capito che solo i superficiali del canto scambiano per profondità la complicazione meccanica e per superficialità la semplicità naturale, semplicità che non è cantare a ‘caso’, ma comandare alla natura, ubbidendole.

In sintesi aveva intuito che quelle che attualmente passano per ‘tecniche vocali’, NON sono tecniche vocali, ma mere intellettualizzazioni meccanico-foniatriche, ovvero fantasie mentali, di cui fino a tutta la prima metà dell’ Ottocento nessun maestro di canto avrebbe mai immaginato la futura esistenza e a cui nessun grande cantante aveva mai avuto bisogno di pensare fino ad allora per poter cantare.

Queste verità (semplici e profonde come tutte le verità autentiche) ovviamente poteva intuirle soltanto uno come lui, che non si era autorecluso nel bunker delle teorie comico-scientifiche del canto, come fanno i grigi burocrati delle ‘maschere’ e degli ‘affondi’, ma era rimasto a contatto con la vita e la sua sconfinata apertura di orizzonti.

Ma qui si entra in un altro discorso, che riguarda la distanza siderale (di voce, mente e cuore), che sempre separerà Di Stefano dagli abitanti di uno strano pianeta: il pianeta delle scimmie ammaestrate allo stupido gioco del meccano della voce.

Antonio Juvarra


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