Il valzer politicamente corretto

Bellissima, l´intelligente risposta di Galatea, una delle migliori blogger italiane, a un coacervo di insensatezze scritto da Sandro Cappelletto su La Stampa.

Vi prego, il valzer politicamente corretto no!

Non ci volevo credere, perché a me La Stampa piace, perché di solito è un giornale pacato e dignitoso, il che, di questi tempi, avercene. Quindi, quando stamattina sono capitata su questo articolo di Sandro Cappelletto, me lo sono riletto due volte: pensavo ad uno scherzo. Invece, dopo attenta disamina, pare di no, è proprio serio. Il buon Cappelletto, di ritorno dalla pausa natalizia – e si sa quanto cenoni e pranzi con i parenti provino e la digestione difficoltosa tolga lucidità – se ne è uscito con una sdegnata invettiva contro – tenetevi forte – la marcia di Radetzky suonata a Capodanno.
Eh ma come dargli torno? Se uno ci pensa, è una vergogna, signora mia, un vero schifo. Questa gente che è pronta a scendere in piazza per ogni bazzecola, come la riforma di scuola ed università, o a protestare per i tagli alla cultura, dove è mai quando si tratta di combattere le vere cose che minano l’identità nazionale? Per fortuna che il nostro Cappelletto, pur se nei fumi della digestione postprandiale, non dorme! Lui la marcia di Radetzky la vuole boicottare, almeno quest’anno:

Almeno il prossimo 1 gennaio facciamone a meno. Perché mai noi italiani dovremmo iniziare il nuovo anno ascoltando orchestre e direttori suonare la Marcia di Radetzky mentre battiamo allegri le mani? Perché cominciare il 2011, e le celebrazioni per i 150 anni della nostra identità nazionale, rendendo omaggio a Josef Radetzky, il feldmaresciallo austriaco che nella battaglia di Curtatone massacrò centinaia di studenti toscani venuti a combattere per l’indipendenza? Che a Custoza umiliò il re Carlo Alberto, poi assediò e vinse per fame e colera la Repubblica veneziana del 1849 e, nominato Governatore generale del Lombardo Veneto, fece eseguire mille condanne a morte di patrioti e diede l’ordine di bastonare in pubblico e di saccheggiare le case e i palazzi di chi era sospettato di aver simpatizzato con i primi moti del Risorgimento? Come se i francesi celebrassero Bismarck, o i polacchi Stalin.

No, dico, ha ragione, povero tesoro. Sarebbe come portare al cinema i bambini a vedere quel simpaticone di Shreck, mentre si sa che gli orchi sono cattivi! Quel Johan Strauss là che l’ha scritta, poi, bel tomo anche quello, insinua il prode Cappelletto: non solo ha composto ‘sta roba per celebrare un generale austriaco che ci ha massacrato, ma la sua è una marcetta militare orecchiabile, e per scriverla s’è fatto pure pagare, mentre è noto che i nostri grandi musicisti italiani come Verdi e Rossini componevano opere e musichette pro bono, per il puro gusto di allietar le folle! Quindi, per salvare l’italica cultura, non c’è che una strada, secondo la visione culturale di Cappelletto: via il truce Radezky e suoniamo invece le musiche di Nino Rota, mentre il generale austriaco è meglio che se ne stia “consegnato in caserma, a meditare sui suoi misfatti”. Cosa che, essendo abbastanza morto, potrebbe risultargli un po’ difficoltoso, ma tant’è.
Ora, onestamente, a voler rispondere ad un articolo come questo non si sa neppure da che parte cominciare, dato che i ragionamenti sottesi a questa roba sono talmente sballati che non si sa nemmeno come non mettersi a piangere.
Intanto al buon Cappelletto deve essere sfuggito un piccolo particolare non secondario: e cioè che la marcetta tanto da lui odiata viene suonata in genere alla fine di un concerto che viene trasmesso in diretta da Vienna, e che, anche se ormai è un appuntamento tradizionale per i paesi di tutto il mondo, è appunto un evento austriaco. Che gli Austriaci a fine di un concerto a casa loro decidano di suonare una marcetta celebrativa di un loro grande generale mi pare più che lecito; sarebbe come andare a contestare agli Inglesi di suonare Good Save the Queen sulla base del fatto che in fondo, quando erano un impero coloniale, di porcate contro i popoli sottomessi con la forza ne han fatte alquante, e la regina Vittoria, per non parlare dell’Elisabetta I, non erano mica ‘sti gran stinchi di sante.

Ma quello che fa veramente cadere le braccia non è tanto l’idea di boicottare la marcetta, ma la visione culturale che c’è dietro: una sorta di impeto talebano per cui si dovrebbero mettere in scena e proporre al pubblico solo opere d’arte “politicamente corrette” ed in linea con i valori dominanti. Un mondo, insomma, in cui l’opera d’arte non viene valutata in sé, ma sulla base di quanto è considerata “morale” la vita di chi l’ha scritta, o di quanto è considerato “buono” il personaggio che l’ha ispirata o commissionata. Un delirio da fondamentalisti.

Mi scusi, Cappelletto, ma con Beethoven come la mettiamo, per esempio? No, perché pare che, oltre ad avere un carattere orribile, andasse anche spesso a puttane. Sarà il caso di applaudire la Nona e di farne l’inno di Europa, visti questi trascorsi? E Wagner? Quello sporco antisemita crucco…lo vogliamo togliere dalla Scala, ché quest’anno gli han addirittura fatto aprire la stagione, quando ci sarebbero state tante belle opere italiche più adatte, tipo un bel Barbiere, che poi è anche allegro e non tocca star lì a menarsela con una roba che dura tre ore in tedesco? Oddio, no, se poi ci si pensa, anche Rossini…che razza di esempio diamo a questi nostri giovani? Uno che componeva opere per il miglior offerente, attento al soldo e così poco patriottico da essersi poi trasferito a Parigi per strafogarsi in santa pace…no, no, non è il caso nemmeno lui.

Che se poi la vogliamo allargare all’arte, questa idea qua, stiamo messi bene. Sarà mica il caso di buttare fuori dai musei Sironi, e i Futuristi tutti, che per il Duce e il Fascismo avevano una certa qual simpatia? O togliere dagli scaffali delle biblioteche quel certo Celine, che è un grande scrittore, ma un tantinello nazista lo fu, e non se ne pentì nemmeno mai? E Borges, Borges ce lo lasciamo? E gli artisti comunisti? Anche loro via in botto, visto che Stalin non era, come si dice in Veneto, farina da far ostie?

No, perché a voler guardare il capello, di opere proponibili con questi criteri ne restano poche e i risvolti possono essere imprevedibili. Mi ricordo una mia amica, per esempio, che al suo matrimonio ebbe problemi con il parroco, perché costui non volle assolutamente cantata in chiesa l’Ave Maria di Schubert, avendo letto che Schubert la compose non pensando alla Madonna ma ad una sua amante, che di mestiere faceva la prostituta. Cioè, l’Ave Maria vietata durante una messa, non so se mi spiego.

Ma ascoltiamoci ‘sta povera marcetta di Radezky, via! Che magari può far meditare qualcuno sul fatto che chi è un eroe da una parte, dall’altra è considerato un macellaio, con qualche buon motivo. O che anche i più biechi macellai possono ispirare opere d’arte, perché dal letame nascono i fior.

Ma non so se si può fare, questa citazione qua. De Andrè, in fondo, spesso si ispirava a delle prostitute.

Qui il post originale

La coscienza del musicista

Claudio Ronco è un violoncellista specializzato nelle prassi esecutive antiche, oltre che apprezzato compositore.
Pubblico questo suo scritto, apparso sulla sua pagina di Facebook. Parole assolutamente da leggere e da meditare.

Ci sono molti modi, e alcuni sono sottili, per distruggere i valori dell'arte e della cultura. Scrivo da Vienna, ora, dove "l'industria" della musica classica è ancora in forte attivo, ma l'operazione artistica sta crollando nell'abisso dell'omologazione, di un mortifero allineamento a un "common sense" diabolicamente annichilente. E tutto ciò sembra accadere senza che nessuno abbia il tempo o il desiderio di accorgersene.

I pochi musicisti che provano a parlarne incontrano orecchi chiusi nei loro stessi colleghi, spaventati dalla sola idea di dover parlare di qualcosa in più di qualche dettaglio del problema, come la presenza di un sempre maggior numero di "volgarizzazioni" e "contaminazioni" nei cartelloni di tradizione, o la constatazione, inevitabile, che i cachet offerti sono sempre più bassi, i concerti congelati da anni allo stesso numero di proposte e di presenze di pubblico, mentre i professionisti in attesa di farne parte attiva, e di renderli forma di guadagno e sostentamento, diventano sempre più numerosi poiché sono la conseguenza di una scuola della musica che, pur di sopravvivere, ha scelto di illuderli preparandoli a un futuro che non potrà essere.

Il nostro problema inizia dalle tecnologie: la televisione e i dischi, ovvero ciò che è mero simulacro dell'arte, eppure, a volte ma sempre più spesso, più soddisfacente per il grande pubblico, ormai diseducato. In tutto questo panorama, l'unica via di scampo è nel tentativo di restituire proprio al fruitore la responsabilità di far vivere l'arte e la cultura, e in questo, ovviamente, c'è un rischio che dire altissimo è frutto di un impossibile ottimismo…

E dunque in un'Italia in cui la gente si è abituata a non pagare nulla più degli spiccioli del vero costo di arte e cultura, lasciando alle istituzioni il problema di trovare i soldi per completarne il pagamento, giorno dopo giorno vediamo assottigliarsi la possibilità di mantenere attivi teatri lirici e orchestre, festival di tradizione, stagioni concertistiche, a seguito di tagli di bilancio per i quali ben pochi scendono in pazza a manifestare la loro protesta, poiché, dopo tutto, i lavoratori di questi settori sono una minoranza d'italiani afflitti da un problema ben meno appetibile dai media di quanto non sia quello di qualsiasi altro lavoratore disgraziato. E fra questi lavoratori dell'arte in protesta ce ne sono molti che gridano contro la chiusura degli enti lirici e sinfonici, argomentando con l'assunto per cui non è certo eliminando due o tre teatri con relative maestranze che si potranno far sopravvivere gli altri.

Ma temo non sia così semplice salvarli. Ciò che è stato tolto alla cultura e all'arte negli ultimi anni, non è certo stato tolto per favorire la crescita dell'arte e della cultura, checché al politico di turno abbia fatto comodo giustificarsi con simili argomentazioni. Così all'arte e alla cultura ciò che è stato tolto, lo è stato tanto dal governo quanto dagli enti e dai "furbi" che li hanno usati per arricchirsi.

Nei miei ormai quarant'anni di attività performativa, ho seguito le vicende di molti, troppi musicisti, cantanti, direttori d'orchestra che hanno scelto di "farsi furbi" per far carriera artistica, e molti sono riusciti benissimo. Ma la loro "furbizia" li ha portati ad essere dipendenti di un'industria insostenibile, impopolare e quindi attiva soltanto se protetta da una società e da un potere altrettanto insostenibile, impopolare e pure, spesso, immorale.

Si è giunti ad avere una generazione di musicisti inutili, preparati esclusivamente a ripetere come registratori vaganti poche decine di opere d'arte del passato, ridotte a miseria che conservatori e concorsi e corsi di perfezionamento cercano di sollevare a rango di alte tradizioni, benché nulla di ciò sia più di un'ombra di ciò che è stato, presso quei Maestri che ci hanno consegnato la loro eredità. La composizione musicale è immobilizzata in un loop confuso, e costretta ad una esistenza ridicolmente effimera, senza dialettica vera, senza possibilità d'approfondimento, senza, insomma, mai potersi alzare in volo.

Le orchestre sono diventate associazioni di musicisti spaventati da qualsiasi cosa possa suggerire la loro eliminazione dalla scena pubblica, masse di lavoratori ben più privilegiati di altri, eppure incessantemente frustrati e dominati da un paradossale egoismo, confuso fra un'identificazione con "l'orchestra" e quella del proprio sé come "artista". Il giovane studente di musica riesce a preoccuparsi solo di "apparire" secondo modelli di sicuro successo, e mai trova modo e tempo per provar a chiedersi cos'altro potrebbe essere e significare una vita da maestro di musica.

Cos'altro potrebbe pretendere, allora, una società di individui legati fra loro soltanto dal desiderio di mantenere in vita un organismo alla fine del suo ciclo vitale, se non una sopravvivenza imposta, percepita presto o tardi come parassitaria, insostenibile?

Questo io credo stia già accadendo, perché lo vedo emergere ogni giorno, nei pensieri espressi nei media e negli spazi vuoti fra le troppe parole gettate al vento delle informazioni mediatiche.

Provo infatti grande sollievo quando dentro a queste finestrelle virtuali, progettate per rinchiudere pensieri in una spece di limbo di parole galleggianti nel nulla, si iniziano ad ascoltare voci vere, coscienti, consapevoli, responsabili. E anche se dalla voce dei musicisti "classici" sembra giungere solo una serie infinita di egoistiche lamentazioni, o un diplomatico silenzio da parte di coloro che credono di aver fatto fortunata carriera, molti, di fatto, si mostrano consapevoli della distanza tremenda e forse incolmabile che si è formata fra la nostra coscienza dell'arte e quella che ne ha la massa della gente d'oggi.

Senza obbligarci a un'autentica, difficile dignità e responsabilità nel dire e nel comunicarci, siamo già morti prima ancora che qualcuno inizi a mettere in atto la nostra condanna. Ma, appunto, non aspettiamoci aiuto da chi è "programmato" per tutt'altri scopi, come il furbo che sa cavalcare a suo vantaggio ogni male altrui. Se in una società scompare il bisogno, e quindi il desiderio dell'arte e della cultura, nessuno mai potrà imporgli qualcosa che possa essere diverso da un falso, un'illusione, un simulacro. E così pure la classe politica giunge ad essere nient'altro che un falso, un'illusione, un simulacro di civiltà. Da ciò si giunge a una constatazione feroce: dobbiamo aiutarci e salvarci da soli.

Il musicista forse deve tornare ad essere, almeno in parte, un musico di strada, un cantastorie nella piazza del mercato, ma un musico che poi sappia fermarsi sul sagrato della chiesa e attendere. In quel luogo il pubblico, già divertito a sufficienza, ora gli porgerà un'attenzione nuova, interiorizzata e intensa: quella che il mero edificio sacro, i suoi paramenti, i suoi simboli, non potranno offrirgli. Senza tempio edificato in legno o pietra, alcuni popoli antichi poterono sopravvivere ai loro nemici, poiché nessuno era in grado di bruciare o abbattere quel tempio che ognuno di loro portava in sé. Il musicista che abbia accolto l'eredità dei maestri che ci hanno preceduti, sa che l'edificio indistruttibile della sua arte è nella sua cultura, e quindi sa che deve proteggere innanzitutto quel suo tesoro, prima ancora dei teatri che nelle alternanti fasi della storia vengono eretti e poi distrutti per erigerli nuovamente, senza sosta.

In conclusione del mio pensiero, né voi né io né un ministro o un imperatore può far nulla, se un'intera società si rivolge a un futuro anziché un altro; il potere delle maggioranze è sempre stato, lungo la storia dell'umanità, il peggiore, il meno lungimirante, il più dannoso e opposto alla saggezza, e tanto in democrazie quanto in regimi autoritari è sempre ciò che è più facile, ovvio e lineare a vincere e con-vincere; dunque siamo inesorabilmente soggetti alle scelte di maggioranza, sia che queste vengano dal più o meno libero voto, sia dalla scelta dei potenti, che tali sono, diventano e restano nell'interpretare la tendenza delle masse. Se le masse chiederanno con sempre più insistenza le tastiere elettroniche e i ritmi tecnologizzati di una musica costruita per "dare emozione" e nient'altro, non ci sarà legge che possa far sopravvivere un violinista o un qualsiasi emulo d'Apollo, senza speranza che possa più misurarsi in gara con il più scarso dei semi-uomini emuli di Marsia…

In tutto questo degrado, se per indubbia disgrazia Milano dovesse chiudere il suo teatro lirico, o Venezia la sua risorta Fenice, forse quelle città scoprirebbero d'avere centinaia, migliaia di musicisti classici in necessità di offrire la loro arte musicale, e a seguito, certo, anche il più ignorante fra gli ignoranti scoprirebbe con facilità cos'è il vero amore che la musica porta al mondo.

 

Claudio Ronco, violoncellista e compositore.

Vienna, 15 Dicembre 2010 

Qui ulteriori informazioni sull´autore

Sergio Sablich: Tradurre all´epoca dei sopratitoli

Pubblico questo bell´articolo di Sergio Sablich, apparso originariamente sul Giornale della Musica, relativo al problema delle esecuzioni operistiche in lingua originale e delle versioni ritmiche. Come sempre, la finezza di argomentazione e la lucidità di scrittura del compianto musicologo di Bolzano sono da ammirare senza riserve.

Quella delle traduzioni ritmiche è anzitutto una questione superata dai tempi. E mi spiego. Le opere venivano abitualmente tradotte quando erano novità del giorno o della stagione, prodotti che per entrare nel repertorio dei teatri di lingua e cultura diverse da quelle d’ origine venivano resi accessibili nell’elemento, funzionale alla musica, del libretto. In questo senso è vero che perfino Wagner e Strauss, per non dire lo Schönberg citato da D’Amico, ne patrocinarono la traduzione: pur di facilitare all’ estero la comprensione della loro musica, che sapevano nuova o comunque diversa, erano disposti a qualsiasi compromesso. Ciò non toglie che di un compromesso, verosimilmente ai loro stessi occhi transitorio, si trattasse. Inoltre esistevano allora, anche nei teatri che non avessero alle spalle una storia e una forte tradizione lirica, compagnie stabili di cantanti che eseguivano, facendole circolare, le opere nella propria lingua, creando così a loro volta una tradizione e una norma. La Carmen, per esempio, per lungo tempo circolò non soltanto un Italia ma anche in Spagna, Sudamerica e perfino in Germania nella versione italiana (con i recitativi musicati al posto dei parlati) anziché in quella francese, perché erano i grandi cantanti di scuola italiana e d’ interpretazione verista a imporla. Ma da quando il repertorio si è stabilizzato sui titoli del passato (che sono stati dunque a poco a poco metabolizzati) ed è mutata la struttura dei teatri (abolizione delle compagnie stabili, perdita delle specifiche tradizioni vocali, scambio internazionale dei grandi cantanti da teatro a teatro), si è affermata la tendenza a eseguire le
opere in lingua originale, ovunque: per una ragione più pratica che ideologica. Oggi, d’altra parte, i compositori che scrivono per il teatro (vedi i casi ultimi dei nostri Vacchi, Sciarrino e Corghi, più eseguiti all’estero che in Italia: ma questo è un altro discorso) predispongono versioni diverse per i singoli Paesi (in tedesco in Germania, in francese in Francia), magari in attesa che un successo internazionale decida quale sia la versione “originale” (naturalmente il ruolo del testo cantato nell’ opera contemporanea è assai più flessibile: diciamo di tipo più strumentale che specificamente vocale). Non è un caso che da noi i residui della tendenza alla traduzione abbiano resistito più a lungo o in presenza di opere non ancora metabolizzate dal repertorio (di Strauss per esempio Capriccio, meno Salome o Elektra; di Berg semmai Lulu non Wozzeck; Mahagonny di Brecht- Weill) o per autori di lingue particolarmente difficili come quelle slave (caso emblematico: il rilancio
di Janácek). Qui scatta il vecchio meccanismo: per rendere meno ostiche queste opere (e la loro musica, come traguardo finale), le si sono spesso tradotte. Io stesso ho tradotto per l’ esecuzione in lingua italiana al Maggio Fiorentino due opere di Janácek, Il caso Makropulos e Káta Kabanova, Franco Pulcini altrettante (fatto, ricordo, che fece crescere notevolmente le nostre quotazioni appo D’ Amico). Qui però entrarono in gioco le suddette mutate condizioni del costume teatrale. Per Il caso Makropulos, dopo aver cercato invano una protagonista italiana vocalmente all’ altezza dovemmo ripiegare su una cantante inglese, con risultati facilmente immaginabili (cantando lei in una lingua che non capiva, nessuno capì che cosa stesse cantando); nell’altro caso, dopo disperate, inutili ricerche, optammo nostro malgrado per l’esecuzione in lingua originale (il regista,
il grande Ermanno Olmi, trovò una soluzione geniale: un attore sulla scena riassumeva in italiano l’ azione che poi veniva cantata in ceco). Fu da questa esperienza che nacque l’idea, lanciata da Zubin Mehta, di importare dall’ America il metodo dei sopratitoli, che furono battezzati per la prima volta in Italia al Maggio Musicale Fiorentino con I maestri cantori di Norimberga. Fu un successo travolgente: per la prima volta un pubblico italiano capì il senso delle contraffazioni di Beckmesser e rise a crepapelle. Resterebbe la questione di principio cara a D’ Amico. Che è però un “mito culturale” né più né meno di quello della “versione originale”. Neppure D’ Amico, che è stato il più grande traduttor de’ traduttori, è riuscito a «fornire agli esecutori la possibilità di un’espressione naturale e immediata». Il meraviglioso stile di conversazione, così naturale e spontaneo, dello straussiano Capriccio, nella sua traduzione diventava una scivolosa arrampicata sugli specchi, un continuo esercizio da acrobata sulla corda senza rete: e il diavolo, mettendoci la coda volle che
Raina Kabaivanska, cantante splendida, non lo aiutasse con la sua dizione notoriamente impastata (ma di quanti cantanti si capiscono le parole, anche nella loro lingua? Forse, tra i sommi, solo Placido Domingo). Una versione ritmica, per quanto ben fatta (compito arduo: provare per credere), non restituisce sempre immediatezza e vivacità: dà solo l’ illusione di capire, captando qua e là qualche sillaba. Ma a che prezzo? D’ Amico, per esempio, usava aggiungere note allo spartito per conseguire una maggiore naturalezza della frase in italiano, e la linea del canto ne risultava continuamente modificata. Il ben più modesto sottoscritto, che invece si ostinava al principio della assoluta fedeltà alla musica, fece a suo danno l’esperienza della sua impraticabilità se non scadendo nel più insulso librettese (ostacolo insormontabile: i troncamenti delle parole).
Varrebbe poi la pena di fare l’esperienza inversa: Mozart tradotto in tedesco, pesante e traditore. Ho fatto ancora in tempo a sentire nei teatri tedeschi lo storico Verdi tradotto da Franz Werfel e Fritz Busch e perfino lo Janácek del sommo Max Brod: sembravano, giuro, altre opere. Ma, buone intenzioni a parte, sono i tempi a essere cambiati, ineluttabilmente: un fenomeno anch’esso, della globalizzazione. Quando, con Eliahu Inbal, facemmo la Tetralogia di Wagner alla Rai di Torino, accarezzammo l’idea di una edizione in lingua italiana. Contattai alcuni cantanti per sapere se erano disponibili, cominciando da Brunilde e Sigfrido: quelli che non mi risero in faccia, fecero notare educatamente che non era ragionevole imparare una parte così massacrante per cantarla
una sola volta nella loro vita. Chi investe su una Brunilde o un Sigfrido con la speranza di far carriera, lo fa ovviamente in tedesco. Piccola postilla. I sopratitoli sono evidentemente un surrogato, ma almeno hanno il vantaggio di aiutare a capire il cosa senza snaturare il come. E poi. Non sarebbe meglio insegnare ai nostri ragazzi a scuola le lingue straniere (e magari, udite udite, anche l’ alfabeto musicale), per metterIi in condizione di seguire un’opera in lingua originale, con l’ aiuto del testo a fronte? Sarà un caso che la riscoperta a livello mondiale di Britten (in lingua originale) sia avvenuta in epoca di diffusione planetaria dell’ inglese?

Sergio Sablich

Da «Il giornale della musica», n. 188, dicembre 2002 (www.giornaledellamusica.it)

Carlos Kleiber: ancora un ricordo

Aggiungo alla raccolta di testimonianze riguardanti Carlos Kleiber questo ricordo apparso sulla rivista MUSICA Continua a leggere “Carlos Kleiber: ancora un ricordo”

Il Quartetto Italiano: formazione ed esordi

Il Quartetto Italiano è stato probabilmente il più illustre gruppo di musica da camera che il nostro paese abbia avuto. Pubblico qui un bel saggio di Ettore Napoli, originariamente scritto per la ristampa in CD delle prime registrazioni del complesso.

Ulteriori approfondimenti riguardanti il Quartetto italiano si possono trovare nel sito dedicato al gruppo, qui

Ci siamo incontrati a Siena, abbiamo suonato insieme e il Quartetto Italiano è venuto fuori da lì, come cosa naturale, come si nasce, si cammina“. Con queste semplici parole, affidate a un’ intervista ad Amadeus di molti anni fa, Elisa Pegreffi ha ricordato la nascita dell’ unica formazione da camera italiana – a parte forse il Trio di Trieste – ad avere raggiunto un prestigio internazionale mai scalfito dal tempo.

Nel corso dei trentacinque anni di attività il Quartetto Italiano ha tenuto oltre 3.000 concerti in tutto il mondo, con una media di ottantacinque serate l’anno e una stabilità d’ organico seconda solo a quella dell’ Amadeus Quartet: dal 1945 al 1980, infatti, la formazione non ha mai subito mutamenti, se escludiamo la presenza di Lionello Forzanti nei due anni iniziali e di Dino Asciolla negli ultimi due, entrambi alla viola. Un’ altra caratteristica di non poco conto riguarda gli strumenti impiegati, tutti con corde di metallo e nessuno proveniente da liuterie famose, come Stradivari, Amati, Guarneri del Gesù: Borciani aveva un Vuillaume del secondo Ottocento, la Pegreffi un De Comble di metà Settecento, Farulli e Rossi una viola e un violoncello italiani del Novecento, rispettivamente uno Sderci e un Capicchioni. L’ eccezione è avvenuta solo quando, nel corso di una tournée negli Stati Uniti, il Vuillaume di Borciani si è improvvisamente “ammalato” ed è stato giocoforza sostituirlo; ma, rientrato in Italia dopo adeguate “cure”, è ritornato ben presto tra le mani del primo violino.

Il repertorio del Quartetto ha percorso la direttrice Haydn-Brahms lungo la quale si è disposta la tradizione classico-romantica, sia pure con una presenza haydniana limitata – si fa per dire – a una decina di lavori e aggirando Mendelssohn. Oltre i due punti estremi non sono mancate incursioni da una parte nel periodo barocco e preclassico – Boccherini, Cambini, Corelli, Tartini ecc. – e dall’ altra nella grande letteratura del XX secolo di Debussy, Ravel, Stravinskij, Webern, ai quali sono da aggiungere appena due Bartók (nn. 1 e 6), solo pagine isolate di Schönberg (op. 10), Prokof’ev (op. 92), Sostakovic (op. 108) e poco altro. Da segnalare la presenza di contemporanei italiani come Bucchi, Bussotti e Ghedini con lavori espressamente dedicati al Quartetto. Quanto alla cronologia delle scelte, nella sua preziosa storia del Quartetto Italiano Guido Alberto Borciani fa giustamente notare come alcune potrebbero stupire perché «adatte a esecutori che hanno già raggiunto la piena maturità, quali il K. 465 di Mozart e soprattutto l’ op. 130 di Beethoven, opere affrontate prestissimo [rispettivamente nel 1946 e nel 1947] se non si pensasse che alle esigenze normali di programmazione si è aggiunta in tali casi una precisa coscienza dei propri mezzi, magari condita da un pizzico di giovanile baldanza». Ma nello stesso tempo, osserva ancora l’autore, «l’ Op. 59 n. 2 di Beethoven viene affrontata [ … ] solo dopo che la serie degli ultimi Quartetti è stata superata [nel 1972]». Il motivo, come ha rivelato la stessa Pegreffi, è da cercarsi nella «soggezione che sempre ci ha fatto specialmente quell’ indecifrabile primo tempo, ricco di tanti interrogativi». Soggezione che in verità il Quartetto Italiano ha provato nei confronti di tutto Beethoven, come un giorno ha ammesso lo stesso Paolo Borciani: «c’è voluta una vita per presentare degnamente le opere di Beethoven» (in G.A. Borciani, Il Quartetto italiano, una vita in musica, p. 55, Aliberti Editore, Reggio Emilia 2002).

L’attività concertistica della formazione italiana è proceduta, di pari passi con quella discografica, ma non tutti i titoli della prima sono stati riversati nella seconda. In compenso, alcuni sono stati incisi più volte – del Quartetto di Debussy e delle opere D. 703 e 804 di Schubert esistono tre versioni ciascuno – e ben sei integrali sono state eseguite e sono passate dalla sala da concerto allo studio di registrazione: Mozart, Beethoven, Schumann, Brahms, Stravinskij e Webern. Schubert costituisce un caso a parte, perché a fronte dell’ esecuzione in concerto di tutti i quindici Quartetti, quelli incisi risultano essere purtroppo solo sette; e uno di questi, il D. 810 «Der Tod und das Mädchen», nell’ esecuzione del nostro Quartetto avrebbe dovuto essere la colonna sonora del film Il nipote di Beethoven che Luchino Visconti ha pensato di ricavare dal libro omonimo di Luigi Magnani. Ma il progetto è rimasto tale.

La naturalezza alla quale ha fatto riferimento la Pegreffi in apertura per la nascita del Quartetto Italiano si trasferisce nella qualità altissima già delle sue prime esibizioni, dalle quali si leva un’ eccellenza che, ascoltando le registrazioni inedite del 1946-1952, appare sgorgare con facilità, laddove è invece frutto di una ricerca quasi maniacale del “giusto” suono condotta attraverso uno studio meticoloso della partitura non di rado segnato da momenti di aspro confronto tra i quattro artisti, sui quali però alla fine l’ amore e il rispetto per la Musica hanno finito sempre per prevalere. Scorrendo i titoli di questo cofanetto emerge anche come il Quartetto sin dall’inizio abbia trovato la “sua” strada, perché a fianco di presenze destinate a restare eccezioni – Vinci, Boccherini, Verdi, Tartini – ci sono molte di quelle sulle quali costruirà la propria fama. A cominciare da Debussy, perché è attorno all’ op. 10 che tre dei suoi componenti si sono ritrovati per la prima volta in occasione dell’annuale saggio di musica da camera dell’ Accademia Musicale Chigiana di Siena, previsto per il 7 settembre 1942 e con un programma misto al centro del quale veniva inserita l’esibizione di Paolo Borciani ed Elisa Pegreffi violini, Lionello Forzanti viola e Franco Rossi violoncello. Quando all’inizio del 1947 Piero Farulli sostituirà Forzanti, il Quartetto Italiano avrà trovato l’assetto definitivo.

«Frequentavamo tutti, sempre, la classe di [Arturo] Bonucci, che faceva anche musica da camera. E lì nel 1942 Bonucci decise di portare al saggio il Quartetto di Debussy. Aveva scelto come secondo violino un’altra ragazza e c’erano Paolo, Forzanti e Rossi. Ma c’è un destino. Da poco avevano cominciato a provare quando, in una delle sale di Palazzo Chigi, incontro Bonucci: Ciao Pegreffina, ti devo chiedere una cosa. Tu lo faresti il secondo violino nel Quartetto di Debussy?. «Altroché!’ Ma il secondo violino…». «Certo!». Eravamo alla casa dello studente, si studiava di sera». Nel rievocare come siano andate le cose in quell’ estate del 1942, la Pegreffi aggiungerà una circostanza che sin dall’esordio avrebbe colpito tutti e contribuito non poco a fare dell’ensemble una leggenda: «Ricordo che provavamo prima di entrare e lo sapevamo a memoria. Non so chi di noi abbia detto: “Potremmo fare a memoria”. Al momento no, perché non l’avevamo mai provato. Ma da lì verrà [prima ancora dell’esordio ufficiale] il suonare a memoria del Quartetto Italiano», prassi esecutiva che ancora oggi pochi ensemble rischiano e sino ad allora praticata solo dal Quartetto Kolisch, ritiratosi però nel 1939. «Non per presunzione», chiarirà Rossi, «ma senza l’ obbligo di girare le pagine ci sentivamo più liberi, comunicavamo meglio tra di noi». Il Quartetto Italiano sarà però il primo ad avere una donna a uno dei quattro leggii. Per vederne un’altra bisognerà aspettare il 1969, con il Quartetto di Tokio.

Il saggio del 1942 ha il merito di rafforzare nei quattro l’idea di “fare quartetto”, come più volte si erano detti dopo essersi conosciuti nelle aule della Chigiana o quando si incontravano a qualche concorso; Borciani (Reggio Emilia, 1922), la Pegreffi (Genova, 1922) e Rossi (Venezia, 1921), per esempio, nel 1940 avevano partecipato insieme al Concorso Nazionale di La Spezia dove erano arrivati, rispettivamente, primo e seconda nella classe di violino e primo in quella di violoncello. Inoltre, lei aveva anche un’esperienza solistica, perché dopo la vittoria nel 1939 a Trieste dei Littoriali della cultura e dell’arte in rappresentanza del GUF di Genova, aveva suonato il Concerto di Brahms a Roma sotto la bacchetta di un venticinquenne violista: Carlo Maria Giulini. Ad assistere al concerto, seduto in prima fila, c’era Benito Mussolini, del quale, lei confesserà in un’intervista video, «non mi importava niente, m’importava invece di suonare dinanzi al mio Maestro». Il programma del saggio della Chigiana al centro del quale spicca il Quartetto di Debussy è molto composito: Pupazzetti per pianoforte a 4 mani di Casella, Scherzo in si minore di Chopin, musica vocale da camera, un tempo della Sonata per violino e pianoforte di Pizzetti e un tempo del Concerto in re maggiore di Paganini con il pianoforte al posto dell’orchestra.

Ma gli eventi bellici precipitano: a El Alamein e Stalingrado si stanno combattendo due tra le più sanguinose battaglie del conflitto mondiale e in Italia la vita quotidiana è sempre più dura, perché da marzo il razionamento alimentare ha subito una stretta, fissando a 800 grammi al mese la quantità di carne disponibile a testa e a 150 al giorno quella del pane. Così, il progetto di “fare quartetto” naufraga, tanto più che Farulli (Firenze, 1920), al quale si era pensato in un primo tempo per la parte della viola e anche lui chigiano, dopo essere partito per la Sicilia è bloccato a Bari dove è arrivato con la viola a tracolla e ha trovato lavoro in un’ orchestra. La sua sostituzione nel saggio con la “magnifica viola” di Forzanti (Venezia, 1913) non è però un ripiego, come dimostra l’ esito artistico dell’esibizione alla quale, come sempre, ha assistito entusiasta anche il Conte Chigi. Ma non c’ era stato nemmeno il tempo di festeggiare ed ecco che i quattro si sono dispersi: la Pegreffi si è rifugiata a Novellara, nella bassa reggiana, Rossi e Forzanti sono a Venezia dove sono entrati nell’ Orchestra della Fenice, Borciani è militare prima a Verona poi a Pescara, da dove dopo l’ 8 settembre del 1943 riesce a tornare a Reggio. Qui si nasconde in casa e riprende a studiare i Quartetti di Mozart e Beethoven con il padre come secondo violino e il fratello Guido Alberto al pianoforte per le parti della viola e del violoncello. «Finché a un certo punto – racconterà quest’ultimo – decidiamo di entrare nella Resistenza e un giorno una ragazza-staffetta dopo un lungo giro ci porta a Quara, sugli Appenini del reggiano, dove sono di stanza la brigata cristiana Santa Barbara e Giuseppe Dossetti, che lo prende in simpatia: prima lo fa entrare nella commissione giustizia, quindi lo nomina segretario provinciale del CLN. A liberazione avvenuta Dossetti pensa a lui addirittura come questore di Reggio, ma Paolo non ha mai abbandonato l’ idea del Quartetto e appena può si mette alla ricerca degli altri. A cominciare dalla Pegreffl che è in campagna a pochi chilometri di distanza; poi mi manda a Venezia per recuperare Rossi e Forzanti, che non ci pensano un attimo e vengono con me a Reggio, dove li aspettano gli altri due lasciandosi alle spalle un presente sicuro per un futuro pieno di incognite».

In casa Borciani i quattro passano giornate intere a studiare, dalle nove alle tredici e dalle quindici sino a sera; è uno studio meticoloso, severo, contrassegnato non di rado da liti anche feroci sull’ esecuzione di una frase, uno staccato, un crescendo. Ma poi tutto si ricompone nel nome della musica. Per portare a casa un po’ di soldi formano un’orchestra di una trentina di musicisti con i quali su camion militari scoperti “battono” tutta la provincia: Guastalla, Gualtieri, Castelnuovo Sotto, Castelnuovo Monte. La presenza di un paio di cantanti consente di allestire programmi molto vari, come questo: nella prima parte, ouverture delle Nozze di Figaro e de L’ Italiana in Algeri, arie da Cavalleria rusticana e da L’ amico Fritz, Mattinata di Leoncavallo; nella seconda pagine orchestrali di Catalani, Schubert, Verdi, arie di Arditi e Donizetti, un duetto da Bohème e in chiusura Il bel Danubio blu di Strauss, spesso riproposto come bis.

Intanto anche nella vicina Carpi, come in tutto il Paese, c’ è una voglia irresistibile di riprendersi in mano la propria vita; e così, mentre l’ amministrazione comunale riapre già a giugno il Teatro cittadino (con Il barbiere di Siviglia), contemporaneamente un gruppo di appassionati di musica da camera fonda la Società degli Amici della Musica. Per il concerto inaugurale una socia, pianista, si ricorda di avere sentito un paio di anni prima a Siena quattro giovani musicisti che l’avevano colpita e riesce a contattarli; nel frattempo, questi si sono dati il nome di Nuovo Quartetto Italiano, per distinguersi dal Quartetto Italiano di Remy Principe ancora attivo, denominazione che loro acquisiranno qualche anno dopo. il concerto, fissato per il 12 novembre 1945 nel Castello comunale di Carpi, segna il debutto ufficiale della formazione con questo programma: Sarabanda, Giga e Badinerie di Casella, Quartetto di Debussy, Concertino di Stravinskij (pagine queste ultime sconosciute in Italia), Quartetto op. 59 n. 1 di Beethoven. Come bis una Gavotta di Leonardo Vinci. La critica è unanime nel parlare di «perfetta fusione e impeccabile maestria», due rilievi che d’ ora in poi, sia pure con parole diverse, contrassegneranno tutta la straordinaria avventura artistica del Quartetto in un terreno dominato sino ad allora da formazioni straniere Rosé, Capet, Léner, Budapest, Busch – a parte forse il Quartetto Fiorentino, attivo per altro nel lontano secondo Ottocento e per di più guidato da un primo violino tedesco (Jean Becker). La sera dopo Carpi, il programma è ripetuto con lo stesso successo nella Sala della Società del Casino di Reggio Emilia, dove un Romolo Valli alle prime armi ne sta guidando la rinascita culturale con la proiezione di film di particolare pregio come Lampi sul Messico di Sergej Eisenstein, sulla scia di quanto stanno facendo a Parma Cesare Zavattini e Attilio Bertolucci; nello stesso tempo legge in pubblico testi teatrali, a cominciare dalla Piccola città di Torton Wilder.

I quattro si sentono ormai pronti per il debutto in una grande città e così una notte di dicembre del ’45 salgono su un vagone postale diretti a Milano, dove arrivano la mattina presto del giorno dopo e sono ricevuti da Ada Finzi, da loro contattata telefonicamente e destinata a diventare la più importante agente italiana. L’ audizione presso la Camerata Musicale ha un esito positivo e il pomeriggio del 13 dicembre il Nuovo Quartetto Italiano si esibisce per la prima volta lontano da casa, in una freddissima sala del Castello Sforzesco, sul quale i segni della guerra sono evidenti, anche se non così devastanti come quelli lasciati sulla Scala, centrata in pieno da una bomba nella notte tra il 15 e il 16 agosto dei 1943. Quello stesso giorno di dicembre, alle 20,30, s’ inaugura la stagione scaligera 1945-1946 per l’ ultima volta ospitata al Teatro Lirico (il teatro del Piermarini riaprirà ufficialmente l’ 11 maggio dell’anno successivo con un memorabile concerto diretto da Toscanini, per l’occasione rientrato dagli U.S.A.); l’ opera prescelta è Francesca da Rimini diretta da Antonio Guarnieri. Ma l’ evento non impedisce a Franco Abbiati di tessere gli elogi del Nuovo Quartetto sull’ unico foglio del Corriere d’Informazione – il Corriere della Sera era stato chiuso per epurazione – scrivendo di «tecnica pulitissima, intonazione sicura, ottimo grado di fusione [ … ] al servizio di un nobile temperamento». L’ esito artistico è tale che la sera successiva il concerto è ripetuto in una casa privata milanese alla presenza di ospiti illustri quali Massimo Bontempelli, Riccardo Bacchelli, Arthur Honegger; e c’ è anche Giulio Confalonieri, presente anche al concerto al Castello, che il 1° ‘gennaio 1946 su Oggi  firma un lungo e poetico articolo nel quale profetizza ai «quattro ragazzi una giusta gloria».

Alla consacrazione locale segue quella nazionale con la vittoria al II concorso dell’Accademia di S. Cecilia, bandito in pieno referendum istituzionale Monarchia-Repubblica; a sancirla è una giuria formata, tra gli altri, da Franco Ferrara, Goffredo Petrassi e Alfredo Casella. E’ questo il primo degli unici due concorsi ai quali il Nuovo Quartetto parteciperà; l’ altro, pochi mesi dopo, è a Ginevra, dove nel 1939 aveva trionfato il diciannovenne Arturo Benedetti Míchelangeli. Sino all’ultimo è un testa a testa con gli ungheresi del Quartetto Végh, ma la notte precedente la finale Forzanti sta male e la formazione italiana è costretta al ritiro. Tuttavia, quell’anno riserva grandi soddisfazioni: le prime scritture all’estero (Svizzera) in aggiunta a quelle italiane sempre più numerose e l’esordio in campo discografico con la Durium-Telefunken in formato 78 giri, con l’unica registrazione di Forzanti come viola (Debussy e Vinci). Poco dopo, infatti, questi lascia il Quartetto per tentare la carriera di direttore d’ orchestra in Argentina; subito contattato a Firenze, dove suona nell’Orchestra del Teatro Comunale, Farulli ne prende il posto, dietro un leggio al quale solo le circostanze belliche avevano impedito di sedersi sin dai tempi di Siena.

Per due mesi Farulli è sottoposto a un durissimo training da parte degli altri tre, che danno il via libera all’ esordio della nuova, e definitiva, formazione solo l’8 febbraio 1947, a Mantova, con un programma per l’ occasione “alleggerito”: l’ op. 59 n. 3 di Beethoven, l’ op. 64 n. 6 di Haydn e l’Oraciòn del Torero di Turina.

L’ “addestramento” comprende naturalmente anche la memorizzazione, resa più ardua dal costante ampliamento del repertorio, nel quale entrano, fra gli altri, Schumann (op. 41 n. 1) e Mozart (K. 465) ecc.. A proposito di quest’ ultimo, dirà un giorno Borciani: «Per eseguire bene Beethoven, Schubert, Brahms, bisogna essere musicisti sensibili, intelligenti, colti. Per eseguire Mozart bisogna essere soprattutto musicisti». Ma ci vuole anche la «giovanile baldanza» – e l’incoscienza – di cui parla Guido Alberto Borciani per affrontare così presto partiture come l’op. 130 di Beethoven, eseguita per la prima volta nel 1947 nientemeno che nella mitica Mozart Saal della Wiener Konzerthaus-Gesellchaft, o il Quintetto K. 581 di Mozart presentato poco dopo con il clarinettista De Bavier alle Engadiner Konzertwochen in una delle rare escursioni del complesso fuori dal repertorio quartettistico.

Il biennio 1946-1947 occupa dunque un posto importante, forse decisivo, nella storia del Nuovo Quartetto, chiamato con crescente frequenza a esibirsi sia in Italia che – soprattutto – all’estero: 58 concerti nel 1947, 63 nel 1948, 105 nel 1949, uno standard quest’ ultimo destinato a restare di fatto uguale almeno per un paio di decenni prima che la stanchezza, fisica e mentale cominci ad affiorare. Ma tanto impegno non impedisce esperienze particolari, come la partecipazione nel 1947 al Festival di Musica Contemporanea di Venezia con un programma tutto novecentesco (Bloch, Malipiero, Milhaud, Villa Lobos) o l’anno dopo un recital mozartiano di Borciani con Clara Haskil ad Aix-En-Provence. Ma di tutte le esperienze a latere quella destinata a conferire al Nuovo Quartetto una definitiva e indimenticabile definizione interpretatíva avviene nell’agosto del 1951 con l’incontro a Salisburgo con Wilhelm Furtwängler impegnato a dirigere Otello e desideroso di sentire questi quattro giovani italiani dei quali si dice un gran bene nel Quartetto dello stesso Verdi; al termine del concerto li invita nel suo albergo per trascorrere una serata musicale nel corso della quale esegue insieme a loro, e per due volte, il Quintetto di Brahms tenendo per sé la parte del pianoforte. Nel contempo, spalanca dinanzi agli occhi del Nuovo Quartetto un altro mondo musicale ed esecutivo, lontano da quello nel quale era vissuto sino ad allora, che si reggeva sulla regola toscaniniana della scansione precisa del tempo. Il direttore tedesco ha un altro credo, che loro da quel momento faranno proprio e riassumibile nell’espressione “libertà nella battuta”: in questo modo, dirà Borcíani, il ritmo è «sempre scandito con i battiti del cuore di un cuore sano, e non col metronomo» (in G. A. Borciani, op. cit., p. 27).

Nel 1977 la NASA lancerà oltre il sistema solare la navicella Voyager con a bordo un Golden Record sul quale saranno incise una ventina di musiche provenienti da tutto il mondo: così, se tra 40.000 anni ci sarà un impatto con una stella abitata da un’altra civiltà quei brani saranno testimonianze sonore dell’ingegno dell’Uomo. Tra di essi c’è la Cavatina dell’op. 130 di Beethoven nell’esecuzione del Quartetto Italiano.

Ettore Napoli

Il decreto Bondi visto dall´estero

Il decreto Bondi sul riordino delle istituzioni musicali  è diventato legge, con tutto quello che ne conseguirà. Per dare un´immagine di come sia vista all´estero la politica culturale italiana, pubblico questo articolo di Sylvain Fort, docente universitario e critico musicale francese, apparso sul sito Forum Opera.

La désopératisation de l'Italie
 

Le ministre italien de la culture, Monsieur Sandro Bondi, a décidé de faire sa part du travail dans la cure d’austérité que le gouvernement de Silvio Berlusconi impose au pays à l’instar de ses petits camarades européens. La première victime de cette cure d’amaigrissement ? Les maisons d’opéra. Le projet ministériel est de réduire de presque 75% les subventions d’Etat accordées aux maisons d’opéra italiennes, et notamment aux 5500 musiciens (choristes, instrumentistes) qui les animent. Cette décision met évidemment en péril la survie même des opéras. De là des grèves et des protestations : annulations à Rome, Venise, Milan ; déclarations ulcérées de Barenboim, Muti, et même Lang Lang. Les directeurs s’arrachent les cheveux, les musiciens se lamentent.

Il faut évidemment s’alarmer de cette mesure qui bientôt obligera des opéras prestigieux dont les productions furent longtemps le terreau de la vie culturelle italienne à réduire la voilure, voire mettre la clef sous la porte. Il faut peut-être s’indigner de voir ces théâtres livrés soit à la misère, soit au bon vouloir d’investisseurs privés qui ne manqueront pas de les transformer en cabarets volants. Les plus pessimistes iront sans doute jusqu’à déplorer la fin des temps et à voir dans cette décision politique le coup fatal porté à une tradition brillante que le berlusconisme ne peut aimer ni comprendre.
Déplorons, déplorons. Et regardons les choses en face. Pour qui connaît un peu les théâtres italiens, la mesure prise par Bondi apparaît en effet destructrice – mais elle est un dernier coup de pied dans un édifice vermoulu, un dernier clou dans un cercueil déjà largement refermé. Il faut bien le dire : la vie lyrique italienne est depuis des années l’ombre du fantôme de ce qu’elle a été jusque dans les années soixante.
Regardez les saisons, et cherchez-y l’originalité, les créations, les bonnes idées. Cherchez-y les grands chefs, les grands chanteurs, les grands metteurs en scène. Pour quelques lueurs, combien de productions poussiéreuses, composites ? où sont les grandes soirées du Costanzi ? Envolées. Où est le San Carlo ? Fermé pour travaux. Le Massimo ? superbe lieu, programmation banale. Et la jauge ? Un soir de routine dans un opéra italien, c’est la mélancolie garantie : rangs clairsemés, crânes blanchis. Tout cela pour ne rien dire de la qualité d’exécution souvent moyenne.

On ne contestera pas que quelques phares restent allumés dans cette brume qui partout enveloppe le lyrique : La Scala, mais avec des difficultés considérables et des ratages mémorables ; La Fenice, qui souffre ; Santa Cecilia, saison éblouissante, mais où le lyrique a une part restreinte (et souvent en concert) ; et Martina Franca, et Pesaro – qui sont des festivals.
Tout cela on l’écrit avec la plus grande tristesse. Et avec une sorte de colère. Car les grandes et belles âmes qui aujourd’hui agonisent le ministre Bondi – qu’on n’ira pas défendre, non – sont celles-là même qui ont laissé les théâtres s’enfoncer dans le marécage ; qui ont maintenu des pratiques salariales et financières inefficaces ; qui ont considéré l’aide de l’Etat comme un dû et n’ont pas (à quelques exceptions près) cherché les idées, les initiatives, les publics leur permettant de réduire cette assistance ; qui ont oublié qu’un public n’est jamais conquis et que son renouvellement fait partie des missions des théâtres ; qui ont vécu sur la bête ; qui ont quitté le pays pour y faire fortune ailleurs, et ne font plus présent à leur patrie de leur talent qu’à prix d’or ; qui ont muséifié et vitrifié les opéras ; qui ont laissé les jeunes compositeurs italiens dans la misère en cessant de passer des commandes…
Le ministre Bondi, avec son sinistre décret, m’apparaît comme l’équarisseur d’une dépouille que la vermine ronge depuis longtemps. La mort clinique étant déclarée, il se trouverait bien quelqu’un pour débrancher les appareils. On dira que le berlusconisme seul pouvait endosser ce rôle. Peut-être.
Le cas des orchestres américains démontre cependant qu’il n’est pas besoin de Berlusconi pour tuer le répertoire dit classique. Ce qui tue cette tradition musicale, ce n’est pas la crise, ce n’est pas l’austérité financière, ce n’est pas la Rigueur, ce sont, plus simplement, les gens qui ne vont plus au concert ni à l’opéra. Qui ne s’y intéressent plus. Qui n’y connaissent plus rien. Qui oublient. Télévision débilitante, loisirs de masse, déculturation – ces phénomènes n’ont rien de spécifiquement italien. Ils nous heurtent lorsque leurs effets se lisent sur ce qui devrait être le sanctuaire de la culture italienne, et qui comme tout le reste part au caniveau.
La crise ne provoque rien, elle révèle. Monsieur Bondi, c’est cet homme qui entre dans une salle richement éclairée et, constatant qu’elle est vide, éteint la lumière. Il n’a pas vu que nous étions là, nous. Nous sommes plongés dans le noir. Et ce n’est qu’un début.

 
                                                                                                          Sylvain Fort

Fonte:http://www.forumopera.com/index.php?page=Edito                        

Ricordo di Rodolfo Celletti

Oltre a non esserci più le voci di una volta, la crisi del teatro lirico attuale ha coinvolto anche i critici. Voglio ricordare oggi la figura di Rodolfo Celletti, uno degli ultimi cronisti teatrali a possedere la capacità di raccontare le voci attraverso i suoi scritti, sempre con un linguaggio esemplare per chiarezza e con uno stile inconfondibile.
Assolutamente diverso dalla media dei critici della sua epoca e di oggi, che di solito scrivono tutti come altrettanti ragionieri, con periodi labirintici e sintassi pericolante e con un´ignoranza totale di ciò che non avviene in casa loro o nella parrocchia di loro competenza.
Per l´appassionato operistico medio, Celletti era spesso considerato solo quello che scriveva male di Di Stefano. In realtà il musicologo romano era una di quelle figure di studioso di cui oggi si è perso totalmente lo stampo. Conoscitore come pochi della storia dell´opera e della vocalità, aveva inoltre  il dono della comprensibilità e della sintesi nello scrivere, oltre che il coraggio delle proprie opinioni, cosa che io ritengo la più degna di rispetto in un giornalista, anche e soprattutto quando non sono d´accordo con le sue idee.
Io lo conobbi personalmente ed ebbi con lui un lungo rapporto epistolare. Era un uomo di vastissima cultura, non solo musicale, con cui era possibile spaziare in moltissimi campi, ma anche chiaro e semplice come sanno esserlo solo i grandi, oltre che dispostissimo ad ascoltare. Non pensava assolutamente di avere l´esclusiva della verità, glielo avrebbe impedito il suo senso spiccatissimo dell´ironia e dell´autoironia. A quasi sei anni dalla sua scomparsa, la sua lezione non ha perduto assolutamente nulla della sua validità e quando si ascoltano i cantanti che lui non amava o amava poco, ci si rende conto che le sue riserve sono quasi sempre condivisibili. Aldilà di questo, resta poi la sua opera di studioso e storico della vocalità, che rimane assolutamente fondamentale e imprescindibile per chi vuole accostarsi all´opera in modo criticamente approfondito.
Voglio ricordare questa figura che è stata decisiva nella mia formazione musicale riproponendo un suo racconto apparso nel 1993 sulla rivista "Musica Viva".
Lo stile brillante, caustico e fantasioso di Celletti (che, non dimentichiamo, era anche scrittore molto apprezzato e autore di romanzi) appare qui in tutta la sua efficacia.

Dal 2150 folle sterminate presero d'assalto i teatri della Penisola tanto che fu necessario ripristinare il Ministero del Turismo e dello Spettacolo

Nel maggio del 2132 era Presidente Esecutivo degli Stati Comuffitari Europei la signora Fehöstrom, finlandese, eletta nel 2130. Quarantanovenne, Maikki Fehöstrom era una delle più belle donne di allora. L' arte di preservare la giovinezza s'era evoluta e l' aspetto della Fehöstrom era quello d'una raggiante trentacinquenne della fine del XX secolo. Era anche, la Fehöstrom, ricca di energia e di sapere. Reputata economista, vantava per di più valide esperienze militari. Nell' esercito europeo, ormai composto per metà di donne e di extracomunitari inquadrati in legioni straniere, era giunta al grado di colonnello, meritato in alcuni dei conflitti etnici scoppiati qua e là. Ma la mattina del 29 maggio 2132 era stata fastidiosa per la signora Fehöstrom. L'aveva trascorsa con due autorità da lei convocate a Helsinki, capitale di turno della Comunità Europea. Si trattava del Presidente e del Primo Ministro della Repubblica italiana, gli onorevoli Federico Montolmi e Maddaleno Gagliardi, che si chiamava così perché in Italia i movimenti femministi avevano ottenuto, dopo logoranti battaglie, che i ministri uomini adottassero nomi muliebri sia pure con desinenze maschili. Non era stata una seduta tranquilla. Da centoquaranta anni l' Italia era afflitta da una crisi economica aggravatasi di decennio in decennio; e invano, per risanare il debito pubblico, il fisco aveva fatto ricorso ai provvedimenti più ingegnosi.
Nel lontano 1994 era stato deciso che il redditometro non superasse le sei pagine, ma anno dopo anno i solerti funzionari del fisco avevano adottato caratteri a stampa sempre più piccoli per far posto a quesiti ai contribuenti sempre più numerosi. Intorno al 2050 per decifrare i quesiti e scrivere le risposte era stato fatto obbligo ai contribuenti e ai consulenti fiscali di munirsi del MICSTA ("Microscopio di stato") messo in vendita dal competente ministero a un ragguardevole prezzo.
Nel 2124 una gravosa imposta governativa sui contraccettivi, denominata "Cicogna" (in Italia si proliferava sempre meno) aveva provocato una rivolta finale. Molti contribuenti avevano scritto le risposte ai quesiti del redditometro con un'inchiostro che entro due mesi evaporava, gettando gli uffici fiscali nel caos. La risposta dello stato era stata drastica. A partire dal 2125 il fisco prelevò alla fonte l' 86% (leggasi ottantasei per cento) di tutti i salari, stipendi, onorari, pensioni e incassi dei negozianti. In compenso lo stato distribuiva gratuitamente generi d'abbigliamento, masserizie e suppellettili di cui i cittadini dimostrassero d' aver bisogno previa dettagliata domanda in carta da bollo da lire ottocentomila. La Guardia di Finanza ispezionava le case dei richiedenti, accertava la legittimità delle richieste e la pratica in qualche anno andava a buon fine. Ma questo sistema aveva comportato un fortissimo incremento del corpo di polizia tributaria, che nel 2132 ammontava a oltre cinquecentomila unità, pesando enormemente sul bilancio statale.
Cose da pazzi, aveva gridato la signora Fehöstrom all' inizio della seduta con gli ospiti italiani. Di solito la temibile dama inveiva con una voce roboante, ma quella mattina, dopo l'esplosione iniziale, prese a sussurrare, ciò che la rendeva ancora più temibile. Da tempo immemorabile, aveva continuato, l'Italia faceva carne di porco delle regole fiscali comunitarie ed era in arretrato con i versamenti dovuti per il mantenimento e l'armamento delle forze armate europee. "Ma io", aveva mormorato la signora Fehöstrom scandendo le sillabe in un italiano impeccabile, "io ho già predisposto un decreto di sequestro e messa in vendita all' asta di tutti i musei e le biblioteche della vostra penisola".
Subito dopo aveva dipinto a tinte tenebrose il futuro. Gli immigrati extracomunitari avevano ormai raggiunto un numero esorbitante e di essi quattrocentomila militavano nelle legioni straniere, comportandosi benissimo. Ma che avrebbero fatto qualora la popolazione terzomondista, oltre a tutto molto prolifica, fosse insorta per strappare il potere agli europei? "A voi italiani non ricorda nulla la caduta dell'Impero romano? Ma proprio l'Italia, quando io propongo il ripristino almeno parziale del servizio militare obbligatorio, s'oppone. Le vostre soldatesse, anche se mediocremente equipaggiate, sono tutte volontarie e tra le migliori d' Europa. Ma quando si tratta di inviarne qualche battaglione a sedare torbidi o conflitti etnici, apriti cielo! Alla fine dello scorso secolo, se dovevano partire i soldati, erano le madri italiane a scendere in piazza. Oggi che avete le soldatesse, manifestano i padri. E fossero soltanto i padri! Manifestano i bisnonni, i nonni, i prozii, gli zii, i fratelli, i cugini, i nipoti, i compari di battesimo e di cresima".
A questo punto, però, la Molto Onorevole Signora aveva interrotto la riunione. "Ci vediamo questa sera, Molto Onorevoli Signori. Il concerto da voi auspicato è alle ore venti, con invito esteso ai vostri consulenti ed esperti. Cravatta nera".
Ritiratasi nei suoi appartamenti, la Fe
höstrom s'era dedicata a quelli che definiva come esercizi spirituali. Prima, però, svestitasi, s'era contemplata in specchi contrapposti, modulando con un pettine la splendida capigliatura color rame. I suoi nemici l'avevano soprannominata Nerone, vantando i capelli di quell'imperatore la stessa tinta. Ma non era questa l'unica ragione del nomignolo. Sempre completamente nuda, infatti, l'illustre dama iniziò il primo esercizio. Ispirava a fondo, comprimeva l'addome, espirava lentissimamente. Lo faceva distesa sul letto e con una pesante lastra di piombo posata sul torace. Era la respirazione sancita da remoti trattati di canto, ma la lastra di piombo rientrava negli esercizi praticati da Nerone e descritti da Svetonio.
Dopo un'ora la signora Fehöstrom si fece servire in stanza una leggera colazione. Indossò quindi un abito da lavoro, passeggiò un poco nel parco del palazzo presidenziale, rientrò, si chiuse nello studio, per tre ore compulsò o firmò documenti. Si trasferì quindi in un vasto auditorio e sedette al clavicembalo, da lei anteposto al pianoforte perché assicurava un'intonazione più rigorosa. Cominciò quindi a vocalizzare. Eseguita la messa di voce su singole note tenute, passò a scalette semitonali ascendenti e discendenti e infine a salti di terza maggiore e minore e ad altri di quarte e di quinte eccedenti e diminuite. Convocò poi il suo clavicembalista personale, provò – accennando – alcune arie, ne eseguì qualche frase a piena voce e andò ad abbigliarsi per il concerto in onore della delegazione italiana che, per l'occasione, includeva un direttore d'orchestra, il sovrintendente della Scala e un aitante giovane bruno, bellissimo anche nei lineamenti.
Fu costui, prima che la signora Fehöstrom comparisse, a illustrare agli invitati le particolarità del concerto. Dapprima, disse, la cantatrice avrebbe eseguito arie d'opera del secolo XVII composte per contraltisti. Ascoltato con deferente attenzione, ancorché parlasse con una strana voce, quasi da ragazzo, il giovane si soffermò sulle difficoltà dei singoli brani, tutti di tessitura profondissima. Oggi, nell'anno di grazia 2180, quelle arie sono tornate di moda e tutti le conoscono; ma allora chi mai aveva sentito parlare di "Delizie contente" del Giasone di Cavalli e del "Più finezza d'amore costante" della "Stellidaura vendicata" di Provenzale? E chi del "Luci bellissime" del Trespolo tutore di Stradella o dell`"Ai pie' dell'Erebo" del Totila di Legrenzi?
Sussurri al limite dell'incontinenza accolsero l' ingresso della Fehöstrom, di cui un vestito aderentissimo valorizzava la provocante figura e una sofisticata acconciatura la chioma color rame. La dama mimò un accenno di genuflessione destinato al Presidente della Repubblica italiana e pronunciò la frase rituale delle antiche virtuose. "Farò quel che potrò per essere compatita". Emozionata, all'inizio della prima aria emise note oscillanti e calanti di tono, poi si riprese. Si sa: bella di timbro la sua voce non fu mai, ma ampia e risonante sì, con note gravi bronzee. Stranamente, però, il fraseggio contraddiceva l'indole ferrigna della donna, valendo il patetico più dell'agitato. Il gusto di allora giudicava insopportabili le arie del Seicento, ma applausi scroscianti premiarono la prima parte del concerto. Nell'intervallo il giovane dalla voce quasi impubere, trattato con rispetto dai presenti, ma chiamato confidenzialmente Raviolino perché figlio d'un famoso cuoco, annunciò che la seconda parte prevedeva arie del Settecento per contralto donna. Erano più acute delle precedenti, chiarì, più virtuosistiche; e richiedevano elaborate variazioni.
Questo oggi lo sappiamo tutti, sebbene le arie per contralto donna siano meno amate di quelle scritte per contraltisti. Comunque la signora Fehöstrom eseguì "Priva son d'ogni conforto" del Giulio Cesare di Händel, "Se tumida l'onda" della Salustia di Pergolesi, "Cercar fra i perigli" dell'Armida abbandonata di Jommelli, "Nacqui è ver fra grandi eroi" da "Gli Orazii e i Curiazii" di Cimarosa. La voce, alleggerita per via delle tessiture più elevate, colpì meno e rivelò qualche asprezza oltre il sol acuto, ma la cantatrice sfoggiò una buona agilità nell'aria di tempesta di Giulia Mammea (Salustia) e sprazzi di toccante estro elegiaco nel resto. Riscosse fragorosi applausi, sebbene quasi tutti i delegati si fossero mortalmente annoiati, ma durante la cena si mostrò taciturna e quasi assente. Al termine diede convegno a una parte degli ospiti per l' indomani pomeriggio e si ritirò.
Quando il prestante signor Raviolino la raggiunse nella sua stanza, Maikki Fehöstrom era già a letto. "Sono mortificata", disse. "Ho cantato male. Se m'offriranno una scrittura sarà soltanto per la mia carica". "Di progressi ne hai fatti molti", replicò Raviolino. "Pensa ai concorsi d'un tempo, in cui al massimo arrivavi alle semifinali".
La signora Fehöstrom lo fissò, pensosa. "Questo è vero. L'anno scorso, a Tokio, arrivai seconda. Forse potrei riprovare…". Le giunse un fulmineo ceffone in pieno viso. "Così mantieni le promesse? " proruppe il signor Raviolino. "Bada che ti mando al diavolo una volta per tutte!". Lasciò che Maikki Fehöstrom singhiozzasse disperatamente per qualche minuto, poi si spogliò e la raggiunse sotto le lenzuola. "Amore mio, devi smetterla con i concorsi. Tu credi che non ti riconoscano, con la parrucca bruna e gli occhiali. Invece alcuni sanno benissimo chi sei. Perciò ti chiamano Nerone, mica solo per i capelli. Anche Nerone amava le gare, tesoro".
La signora Fehöstrom pianse ancora a lungo tra le braccia di Raviolino, ma, questi essendo un gagliardo e fantasioso amatore, alle lacrime seguì il gaudio di focosi sollazzi. L'indomani pomeriggio la signora Fehöstrom ricevette, con il Presidente e il Primo Ministro italiani, anche il direttore d'orchestra e il sovrintendente della Scala. "Signori" disse "sia chiaro che se mi proponeste una scrittura, come da tempo è vostra intenzione, rinuncerei alla mia alta carica anche domani. Quindi astenetevene. Non sono Nerone, che s'esibiva in pubblico senza aver prima abdicato. D'altronde ho io proposte da sottoporvi nell' interesse del vostro paese".
Credevano forse i signori delegati – cominciò – che Remo Filippi, in arte Raviolino, fosse stato sottoposto da bambino all' operazione di orchiectomia per ineluttabili motivi clinici? "Queste sono le balle che si raccontavano al vostro paese nel Seicento e nel Settecento. La verità è che Raviolino, fanciullo-prodigio, a undici anni già sapeva tutto sul canto antico, sui castrati e sulle scuole di Porpora e di Bernacchi. Tanto insisté per essere operato che il padre l' accontentò, previo versamento di tre miliardi al chirurgo. Oggi, a ventiquattro anni, è il primo sopranista del mondo e anche il maestro al quale mi sono affidata. Voi l' ammettete, malgrado i successi che comincia ad avere altrove, soltanto nelle sale da concerto, dove, come ben sapete, è acclamato. Dovreste anche sapere che nei Paesi di lingua inglese e anche in Asia un certo numero di ragazzi ha seguito il suo esempio, ma nascostamente e con risultati minori. Ci vogliono gli italiani, per certe cose. Quando il vostro paese era in miseria, nel Seicento e Settecento, quanto danaro fruttarono all' Italia i castrati? Ora il mio parere è questo.
Visto che di figli ne fate pochissimi, tanto vale legalizzare l' orchiectomia, in Italia e, anzi, propagandarla. Con il laser è una operazioncella da ridere e non preclude l' amplesso".
Seguì un lungo silenzio, rotto dal Primo Ministro Maddaleno Gagliardi. "Ma…" cominciò. "Niente ma!" scattò la signora Fehöstroffi. "Prendere o lasciare. O legalizzate l' orchiectomia o io sequestro i vostri musei e le vostre biblioteche".
Il resto è noto. A partire dagli anni "2150" i castrati italiani riscossero un successo enorme e si moltiplicarono. Per ascoltarli, folle sterminate di stranieri prendevano d'assalto i teatri della penisola, tanto che fu necessario ripristinare il Ministero del Turismo e dello Spettacolo, soppresso nel 1993. Rifiorì l'índustria alberghiera e con essa l'edilizia, perché si dovettero predisporre molti nuovi alloggi per forestieri e nuove sale per spettacoli d'opera. Si moltiplicarono le sartorie teatrali, le case di moda lanciarono la voga degli abbigliamenti settecenteschi per dame e gentiluomini, accolta con entusiasmo anche all'estero. I fabbricanti di merletti, trine, ventagli, occhialini fecero affari d'oro; l' industria automobilistica varò trionfalmente macchine ispirate alle portantine e ai cocchi; le fabbriche d'armi divulgarono sofisticati spadini da passeggio e da parata; gli orafi imposero in tutto il mondo stupende tabacchiere l'Italia divenne il più ricco paese del mondo.
Quanto a Maikki Fehöstrom, debuttò nel 2137 alla Scala, sotto il nome di Lucia Claudia Neroni, come Goffredo di Buglione del Rinaldo di Händel. Ebbe successo, ma dove trionfò fu al San Carlo di Napoli. Questa città, nel clima settecentesco, rifiorì e tornò ad essere il più importante centro culturale italiano. Maikki Fehöstrom vi trascorse i suoi ultimi anni, completamente napoletanizzata. Morì ottantottenne nel 2171, mentre cantava, con un filo di voce, accompagnandosi al clavicembalo, alcuni versi di Salvatore di Giacomo da lei musicati. "E llacreme d'ammore / so' ddoce pe chi 'e cchiagne. / Ammore è nu dolore / ca, quanto cchiù se lagne / chi o' prova, cchiù è felice".

di Rodolfo Celletti (Musica Viva, Anno XVII n.9, settembre 1993)

Sergio Sablich: Ascesa e caduta della critica musicale

Tra un mese, Sergio Sablich compirebbe 59 anni, se un destino tragico e tristissimo non ce l´avesse strappato prematuramente.
Voglio ricordare questa importantissima figura di studioso riproponendo uno dei suoi ultimi scritti, dedicato a un tema attualissimo come quello della critica musicale.

Il mio intervento sarà breve per due motivi: primo perché quello che Capra ha anticipato inquadra perfettamente da un punto di vista storico l'argomento e non avrei niente da cambiare o da aggiungere; secondo perché credo che sia importantissimo fare un discorso storico sulla critica musicale, ma è ancora più importante che questo discorso storico si proietti poi sulla situazione attuale e inneschi un dibattito e quindi una discussione, un confronto. Nel titolo "ascesa e caduta della critica musicale" si vuole quasi disegnare una specie di arco a semicerchio, una parabola che ha un inizio, uno sviluppo e una fine. Si tratta ora di vedere se questa fine, se questo semicerchio sia in realtà appunto la metà di un cerchio e quindi il punto finale possa ricollegarsi all'altra parte: detto in altre parole, capire se la fine possa prevedere un nuovo inizio. Certo noi siamo un po' tentati oggi di parlare di critica musicale anche da un punto di vista storico, forse innescando la stessa prospettiva storica nella situazione attuale, nell'ottica di un "c'era una volta". È chiaro che la critica musicale non è sempre esistita, se ne è fatto tranquillamente a meno per molti secoli direi, non solo ovviamente prima che venisse inventata la stampa, ma anche dopo: Cinquecento e Seicento non hanno esempi di critica musicale, il Settecento registra la presenza soprattutto di cronaca, sotto forma di resoconti dei viaggiatori che raccontano anche della musica, ma in un'ottica che ricondurrei più allo scrivere letterario di musica che non alla critica musicale vera e propria.
Mi sembra quindi che si possa dire, ovviamente molto sinteticamente quindi anche generalizzando un poco, che la critica musicale come noi la intendiamo, cioè come discorso e ragionamento sulla musica, nasca in realtà più tardi, quando si sente la necessità di fornire un supplemento di senso a una prassi che non si spiega più abbastanza da sé.
Oggi, giusto per parlare di attualità, se voi prendete, per esempio, la cronaca dell'apertura della Scala, non si tratta di una critica musicale, si tratta, appunto, di cronaca, di un resoconto in cui si parla di tante cose ma in cui non si affronta minimamente nemmeno l'aspetto, diciamo, della presentazione dell'opera o della sua realizzazione. Quando invece nasce l'esigenza di supportare con un discorso la musica stessa, magari sull'onda di movimenti innovativi che non si spiegherebbero da soli o che hanno bisogno di un complemento per farlo, ecco che allora si può dire che nasca la necessità della critica musicale. Da questo punto di vista i primi critici musicali sono gli stessi compositori; in un certo senso quando Beethoven inserisce un messaggio nella Nona Sinfonia compie un'attività che, a mio parere, può già prevedere un aspetto di critica musicale.
Proseguendo il discorso, la nascita della critica musicale è legata storicamente ai grandi movimenti innovativi; da quando, si potrebbe dire, la poiesis ha bisogno di una poetica che la aiuti a essere compresa. Nasce quindi come un fenomeno culturale elevato e complesso, che vola alto ed è strettamente legato alle attività del comporre. I primi critici musicali moderni sono i compositori che potremmo definire romantici, che debbono quindi, o vogliono, lanciare una nuova coscienza musicale per la quale non è sufficiente l'ascolto della musica, ma è necessaria un'integrazione che passi attraverso il linguaggio, il linguaggio della scrittura. Sotto questo aspetto, se vogliamo fare qualche esempio dei primi critici musicali moderni dobbiamo parlare, ovviamente, di Schumann, il quale nel 1833 fonda una rivista musicale proprio per dare un supporto a quella che è la sua nuova poetica, trovando all'interno di questa poetica chi sono i nemici, i filistei e chi sono i fratelli della lega di David. Da questo punto di vista Schumann rappresenta una figura che insegna anche una metodologia di critica musicale. Andando avanti, incontriamo naturalmente Berlioz: quello di Berlioz è un caso che amplia di fatto la stessa figura del critico. Berlioz fa il critico musicale sui giornali parigini, e lo fa per trent'anni della sua vita, quasi fino alla malattia, al 1864. Certamente Berlioz sviluppa una critica differente da Schumann, ma risulta simile nel voler, attraverso la stessa critica, imporre un'idea di composizione che è talmente innovativa da dover essere anche spiegata. Se poi si incrociano le due cose, se prendiamo in considerazione lo scritto di Schumann sulla Sinfonia Fantastica di Berlioz, notiamo una strategia straordinaria anche dal punto di vista del critico musicale, il quale tende a dire: «Ma credete, tutto sommato, non è che questa sinfonia sia proprio rivoluzionaria…», riuscendo a far passare l'effettiva novità di quest'opera attraverso una serie di collegamenti che, alla fine, dimostrano come in realtà questa sinfonia sia veramente una nuova concezione non soltanto della musica, ma anche del mondo, se vogliamo. E Berlioz divulga la critica attraverso le sue recensioni in un modo assolutamente efficace.
Proseguendo, alla figura del critico autore, in un certo senso militante – non in quanto critico ma in quanto compositore – subentra invece nel corso dell'Ottocento il profilo del critico che potremmo definire "di professione" che, in pratica, sulle pagine dei giornali e dei periodici svolge una funzione sociale assolutamente riconosciuta e integrata all'evolversi della musica ma non solo: è integrata anche in rapporto alla moda, al costume, alle convenzioni, alle tradizioni, alle innovazioni del tempo. Lo scrivere di musica qui è ancora qualcosa che rimane difficilmente individuabile tra la cronaca e la critica musicale, ma già tendente verso un tipo di – chiamiamola così – "musicologia". A questo proposito, sono completamente d'accordo con quello che sostiene Capra rispetto alla nascita della musicologia, ma la musicologia dell'Ottocento è altra cosa dalla musicologia successiva, perché è ancora qualcosa che sta all'interno del mondo musicale – questo è un passaggio molto importante – all'interno di un sistema sociale assolutamente riconosciuto e quindi nel quale la figura del critico è una figura non soltanto, appunto, riconosciuta, ma necessaria nello scacchiere generale della musica e delle sue manifestazioni. Comunque, il critico musicale di professione è naturalmente una figura che può influenzare profondamente il gusto non soltanto con la sua autorevolezza, ma anche con la sua posizione. Porto solo un esempio, tra i tanti che potrei citare: la figura di Hanslick. Eduard Hanslick su «La Presse» – il più importante giornale viennese dell'epoca – porta avanti una battaglia in quanto critico, non in quanto compositore, fiancheggiando una corrente musicale e avversandone un'altra, trovandosi dall'altro lato naturalmente Wagner, per il quale – se non può essere applicata la definizione di critico musicale in senso stretto – basta per esempio leggere i suoi scritti su Beethoven per comprendere che può essere comunque inserito all'interno di questa disciplina. È interessante notare, in quest'ottica, che le posizioni di Hanslick e Wagner si trovino poi, verso la fine dell'Ottocento, contrapposte. Concludendo la fase crescente del semicerchio, la critica musicale ha un ruolo fondamentale fino a
quando partecipa, riconosciuta e necessaria, alla battaglia delle idee ed è strettamente legata all'attualità creativa.
Veniamo adesso al semicerchio che inizia la sua fase discendente. Si potrebbe dire, anche qui sintetizzando, che la critica musicale comincia a decadere quando non ha più una funzione di partecipazione attiva ma diventa commento a eventi e pratiche sociali consolidate. E qui si assiste, e siamo nel Novecento, a una sorta di esplosione, quasi di frammentazione della critica musicale intesa appunto come ragionamento e discorso sulla musica, come disciplina che aiuta a capire la musica, come disciplina fiancheggiatrice della musica e via dicendo. Veramente assistiamo a una sorta di proliferazione di figure molto diverse, le quali tutte quante sono e non sono "critica" all'interno della critica musicale, ma tutte quante partecipano a un cambiamento chiaramente non soltanto della musica, ma anche della società. Quello che accade tra le due guerre è, da questo punto di vista, abbastanza significativo, abbastanza istruttivo: abbiamo per esempio una critica meramente divulgativa e informativa, prevalentemente di servizio e, da un altro lato, troviamo invece una critica accademica, di accademica letterarietà: il racconto del funerale di Wagner fatto da D'Annunzio nel Fuoco è, a mio parere, uno degli esempi migliori di critica musicale alta, letteraria, che si possa immaginare. Naturalmente ci sono tanti esempi, in questo senso, di letterati che svolgono un'attività di riflessione sulla musica che ricama e fiorisce, e questo è importante dal punto di vista, diciamo, del rapporto fra linguaggio e musica: una critica che ricama e fiorisce – con un linguaggio immaginifico – le suggestioni, le sensazioni e le reazioni provate di fronte alla musica. Quindi, mentre da un lato il critico musicale tende a specializzarsi, a diventare sempre più legato a una specializzazione, dall'altro lato c'è un dilettante brillante che ha una funzione forse anche più importante e rientra a mio parere in quel processo di integrazione che avviene nella prima metà del Novecento in Italia tra musica e cultura. Vale a dire che l'essenza della musica entra in qualche modo – seppur tramite modalità inadeguate o comunque non perfettamente coerenti – in contatto con la cultura. Pensiamo ai primi del Novecento, ai Malipiero, ai Casella. A questo proposito accenno velocemente a due casi che sono emblematici di un cambiamento totalmente diverso: da un lato Schoenberg e dall'altro Debussy. Gli scritti di Schoenberg non sono critica musicale, sono un'altra cosa ma non sono nemmeno supporto alla propria musica, è qualcosa che ci spiega come il concetto di critica musicale o il concetto di riflessione musicale si stia ampliando e stia assumendo tratti completamente nuovi. Mentre gli scritti di Debussy sulla musica sono anch'essi, forse, non delle dichiarazioni di battaglia o dei proclami, ma qualcosa che già tende a vedere il discorso della musica come un discorso problematico in sé.
Poi nel corso del Novecento, fino alla seconda metà del secolo, emerge un fenomeno nuovo: la contrapposizione novità-repertorio. Noi sappiamo che, da un certo periodo in poi, è emersa appunto questa contrapposizione e quindi il critico si trova a doversi occupare non più tanto della novità, quanto di qualcosa che già esiste, di già consolidato. Allora è chiaro che scrivere sulla Traviata quando questa viene rappresentata la prima volta è una cosa; scriverne cento anni dopo, quando tutti ipoteticamente sanno cos'è La traviata già è una cosa diversa. Quindi la critica cambia anche per il rapporto con il suo tempo, nel momento in cui il repertorio si afferma. Naturalmente da questo momento si sposta l'attenzione sull'aspetto interpretativo, che poi è quello che noi oggi intendiamo da un punto di vista strettamente critico-musicale. In pratica, il critico musicale è per noi quella persona che si reca allo spettacolo e ci parla dell'interpretazione e quindi la critica musicale si focalizza progressivamente su tale ambito. A questo riguardo, occorrerebbe delineare una sorta di storia interna a questi passaggi, centrata sui cantanti, sui direttori d'orchestra, oggi sui registi. Anche qui esiste un processo, diciamo, in corso che dimostra come sia la critica musicale stessa ad adattarsi e non più a proporre. Direi che nel momento in cui a contare non è tanto l'oggetto in sé in quanto opera d'arte, ma la manifestazione o – utilizzando una parola diventata orrendamente d'attualità – l'evento, il critico non ha più una funzione propositiva, ma riveste semplicemente una funzione di documentazione, riportando dell'opera o del concerto soltanto alcuni aspetti. E questi aspetti sono legati all'attualità, che a sua volta non è più rappresentata dall'opera d'arte, ma dal suo contorno, dall'evento, appunto, in cui questa viene calata.
Per capire quello che è successo e per arrivare all'oggi, basta leggere un saggio scritto da Adorno nel 1962 intitolato L'opinione pubblica e la critica, e pubblicato, appunto, nello stesso anno nell'Introduzione alla Sociologia della musica: è la fotografia esatta di ciò che da quel 1962 porta a oggi.
Naturalmente Adorno – cito qualche frase – dice: «La questione relativa al rapporto dell'opinione pubblica con la musica si interseca con il problema che riguarda la sua funzione nella società attuale.[…] Ma questa funzione penetra, in modo esatto o distorto, nell'opinione della gente, e viceversa si ripercuote sulla funzione stessa, in un certo senso le dà forma a priori: il ruolo effettivo della musica si adegua in misura notevole all'ideologia dominante». E aggiunge che i mezzi di comunicazione di massa avrebbero nel tempo distrutto qualsiasi ragionamento critico; soprattutto la televisione – lo dice chiaramente – avrebbe talmente trasformato il mondo fino a cancellare l'idea stessa di critica, a meno che questa stessa idea di critica non si cali, appunto, in una battaglia politica tra un'ideologia dominante e un'ideologia che si ribella.
A questo punto occorre evidenziare ancora una volta che, in questo saggio del 1962, Adorno sembra descrivere esattamente la situazione attuale della critica musicale; egli sostiene che i mezzi di comunicazione di massa – e quindi la riproduzione, l'epoca della riproducibilità – annullano il senso critico, portano ad annullare fatalmente il senso critico, intendendo per senso critico appunto l'idea del ragionamento, della riflessione, della capacità di formarsi e di dare un giudizio.
Allora, la domanda con cui voglio chiudere riguarda appunto il semicerchio che può o non può diventare nuovamente cerchio: la domanda che infine dobbiamo porci – alla luce delle profezie di Adorno – è questa: nell'esaurirsi della critica musicale come attività di discorso critico sulla musica dobbiamo vedere una perdita di valore o una perdita di funzione?
Si tratta, insomma, di una questione di valore – vale a dire: la critica musicale non ha più un valore proprio? – o si tratta di una questione di funzione – e cioè la critica musicale ha una funzione che non è compatibile con quello che la società moderna nello stesso tempo richiede e offre?
Io credo che la riflessione sul valore della critica musicale sia fondamentale per capire davvero se questo semicerchio può diventare un cerchio, e quindi se la fine che noi oggi viviamo – credo anche abbastanza amaramente, avendo fatto questo lavoro credendoci – possa diventare un nuovo inizio.

La divulgazione musicale in Italia oggi, a cura di Alessandro Rigolli, Atti del
Convegno, Parma, 5 e 6 novembre 2004, Quaderni ladimus, Edt, 2005.

Fonte: http://www.sergiosablich.org/dettaglio.asp?L1=55&L2=230&L3=269&id_inf=1241

Tre tenori

Oggi vi propongo un gustoso articolo di Marzio Pieri, professore di letteratura italiana all´Università di Parma, oltre che musicologo estroso e di gusti raffinati.

Ma non a Caracalla. Tutti e tre a porta inferi. Uno meno, o non, o anche più tenore degli altri. Il lutto nazionale per Big Luciano. Quando cominciarono, un anno fa, a capolineggiare i soliti messaggieri – ci ha il cancro, ma sta bene; il vannamarchi veronesi: ma poi che cos’è un canchero? Si guarisce, si guarisce… mettete mano al portafoglio intanto… –, sapemmo tutti che non poteva farcela; al pancreas, poi. Saranno vent’anni che avevo smesso di volergli bene, non era la svolta pop che mi stornava da lui, ma sempre la tristezza di un cantante quando, entrato, umanamente entrato, nella sua fase declinante, comincia ad andare sempre e soltanto sulle proprie orme, fingendo indifferenza o ‘allegria!’. E anche il populismo di ‘Mamma son tanto felice’ non era fatto perché i nostri strumenti potessero ancora suonare insieme. V’è stato un tempo che (nasco a Firenze in un rione povero, in una sottocultura più che modesta, ma non distratta) cantavo quelle strofette con le lacrime agli occhi anche io, che pure non ho mai sofferto del così dolce culto della mamma che uguaglia, da noi, Berlusconi e Padre Pio, Severino filòsafo e la Fenech. Ma erano i miei anni delle elementari, umilianti, delle prime medie, spaventose. Un’altra vita nella quale riconosco solo il dolore – vero se pure non riconosciuto – che non abbandonava mai quella durata sfigurata e incerta (rimedio: Sàlgari, Fenimore Cooper, i fumetti bellissimi, il cinema tutti i giorni, e sì, il canto, anche il canto, mia madre intonatissima, mio padre virilissimo e baldanzoso, un mio fratello dalla voce strabiliante in un corpicino dal quale non si sapeva come faceva a tirarla fuori, dicono fosse così anche pel prodigio Del Monaco…, la radio sempre accesa). Maestre, bidelli, preti, celere, carabinieri… pari-pari la televisione d’oggi, che a me se la incrocio saltando di palo in frasca, dalla réclame Barilla a quella pei pannoloni, sembra un incubo di ritorno. Non ho mai avuto una voce di prestigio ma cantare era come una gloria fisica. Beniamino Gigli deve aver detto che un do di petto richiede le stesse doti atletiche di un salto con l’asta. È accaduto a Pavarotti di uscire dalle scene della vita nel trentennale della scomparsa della Callas. Mi chiedo se ci sarà un trentennale di Pavarotti. Non sono un callassiano (eppure lo fui, tradendo la Renata da Pesaro o Langhirano, che pure avevo applaudito in diretta negli anni del suo splendore più fulgente, Violetta, Desdemona, Leonora di Vargas, e congedato ahimè in una serata difficile, in cui non le entrò il do acuto che conclude in pianissimo il primo atto della Bohème e che lei da troppo tempo era ormai costretta ad eseguire in fff) ma mi chiedo se quelli che tengono un piede nella staffa della maga e pitonissa grecoamericana e l’altro piede in quella del caro gigante dalla voce d’argento siano poi capaci di far andare almeno al trotto il cavallo. Seppi che Lucianone era alla fine quando al telegiornale dissero che uno di questi burlamacchi della politica gli aveva dato un premio alla cultura. Per farsi pubblicità gli stanno bene anche i moribondi. Ho accompagnato la lunga agonia del tenore ascoltando più spesso (e con più ammirazione) del solito i suoi dischi. Sarei sicuro di sapere quali dischi d’opera ha in casa Veltroni. Oddìo, quelli delle banche, le strenne natalizie, quelli non mancano mai in quei salottissimi. ‘Vincerò…’, come un toccarsi le palle strizzandole fino a farsi male. Non importa se poi vinci alla lotteria, al tirassegno o in qualche spedizione umanitaria. Puccini credette davvero di dare l’addio all’Italia innalzando quel popolo di commessi viaggiatori e giocatori di tombola alle soglie degli amori da milleunanotte; sì perché una Turandot senza rischiarci la testa potevi affittarla ogni notte se ci avevi i quattrini per salire in un bordello di prima classe. Magari te la facevano trovare cinese davvero. Che cosa portano, ‘sotto’, le cinesi? That is the question. Ma il gioco all’eros da Hotel Savoy non gli veniva bene e anzi addirittura preferì morirci sopra. Diede all’Italia della speranza e dei lutti un vincerò per tutti. Quando, sui tredici o quattordici anni, dopo molte preghiere, riuscii a convincere mio padre all’acquisto di un modestissimo giradischi per settantotto giri (l’anno dopo sarebbero dilagati i microsolchi, aprendo una nuova stagione della musica), il primo disco che prendemmo fu proprio ‘Nessun dorma’, in un dischetto di piccole dimensioni (sull’altro lato, ‘Non piangere Liù’, l’altro pezzo del tenore Calaf nell’opera del congedo pucciniano), e la folgore sul ‘vincerò’ era scagliata da un tenore noto solo ai pochi che avevano cominciato a spiarne le frequenti apparizioni in televisione (anche a ‘Lascia o raddoppia’). Franco Corelli, il Del Monaco dei poveri, il bel tenore autarchico. Non scegliemmo, accettammo l’offerta che costava di meno; vincere va bene, ma così a babbomorto, meglio non lasciarci troppi quattrini, non si sa mai. Questo per quanti credono che ‘Vincerò’ sia l’inno di Forza Italia, su parole di Silvio Brelùs e musica di Ennio Morricone. In una di quelle terribili giornate di bottega in cui dall’apertura alla calata della saracinesca non vedi che entrare miraggi, mio padre e un mio parente chiesero a me bambino di cantare col mio vocetto l’aria dell’ottimismo nazionale. A orecchio la presi alta e steccai. Me ne vengono ancora al ricordo rosse le gote. Pavarotti steccò una volta sola, in una di quelle serate scaligere cui solo il maestro Muti sapeva gravare addosso tante irrisolte tensioni, e fu fischiato come un contrabbandiere che scappa e i caramba lo fulminano col mitra. Ho visto una intervista in cui Pavarotti, con gran pacatezza, diceva: sì, ma in me fischiarono tutto lo spettacolo. E ci aveva ragione. Quando scomparve Beniamino Gigli, passata di poco la metà degli anni Cinquanta, prese un poco tutti di sorpresa il commosso ricordo dedicatogli da una bella penna e da un uomo arcigno come il grande Fedele d’Amico, sulla rivista “Il Contemporaneo” (una specie di “Quaderni piacentini” degli anni di passaggio da Roma città aperta alla Dolce vita). D’Amico rievocava certi cavalli di battaglia del tenore recanatese, uno per uno, come tirandoli fuori da una dolce memoria. Per Pavarotti è più difficile: certo che i suoi pezzi-simbolo non sono le cose sue più belle. Andrà cercato, paradossalmente, meno nelle opere che gli venivano, da giovane, benissimo (dalla Bohème al Rigoletto, dalla Tosca a Un ballo in maschera), che in quelle che comportarono per lui un rischio: l’Aida, debuttata sui cinquant’anni, il Guglielmo Tell (un appuntamento un filo tardivo, digià) e, ci crediate o no, l’Otello. Solo l’Aida, ch’io sappia, affrontata più di una volta in teatro; e l’industria discografica non lo aiutò nelle altre due imprese: il Tell fu realizzato in due tronconi (si era partiti dall’idea sparagnina di una vasta selezione), avvertibili anche dall’orecchio sia per diverse condizioni tecniche della registrazione sia per oscillazioni di forma dei cantanti. L’Otello andò anche peggio: registrato in pubblico, Lui che si stravaccava in poltrona e sgranocchiava mele confortanti come nell’Isola del tesoro, un baritono bolonieis allegrone ma sempre in bisticcio con le note da intonare, un soprano maori che non le bastarono i quattro atti a scaldarsi, un direttore illustre che non credeva all’operazione e spinse una orchestra elefantiaca, inclementemente antioperistica, a inopportuni clangori schematizzanti. Ma Pavarotti ne riportò, e lo scrissi sùbito mentre era vivo, non solo un generico onore delle armi. Forse fu quello, davvero, irriconosciuto, il suo addio all’Opera. Poi venne il personaggio ipermediatico, non poteva fare altro e se uno arriva al boccino quando ha dichiarato di voler arrivare a quello, non si può fargliene rimprovero, semmai guardare da un’altra parte, come io ho fatto per venti anni, con gratitudine per il ‘prima’.

Il secondo tenore è un americano. Con una compagnia di quasi sconosciuti, lo vedemmo in tv venti anni sono in una Bohème ‘da concerto’ diretta a Roma da Leonard Bernstein. Io avevo il ricordo (radiofonico) di una Bohème scaligera del Maestro da giovane, con Poggi, la Rovere; non ne esistono registrazioni, ch’io sappia, e dato che le recite non andarono bene, la RAI avrà certo distrutto i nastri per fare posto, secondo una pratica oscena. Era una Bohème ‘americana’, forse memore di quella radiofonica, di pochi anni prima, del vegliardo Toscanini, tutta con cantanti americani, come quella nuova di Bernstein, fattosi però anche lui funerario e più di sempre megalomane. Il tenore si chiamava Hadley, non una voce d’oro, forse, ma molta verve, molta intelligenza delle situazioni, un belcanto un poco costruito ma accattivante; non per nulla sarebbe poi stato anche una stella del Musical. Il baritono, quasi debuttante, era quello che ha fatto la carriera più rispettata, anche fuori dagli USA e dal repertorio operistico di tradizione, Thomas Hampson, mozartiano, schubertiano, wagnerian-mahleriano, strawinskiano, novecentista, esattamente l’opposto di un Pavarotti: voce forte, la sua, non bella, molta cultura, molta curiosità, molta arte, grande scienza del fraseggio. Lui e Hadley formarono coppia di successo, un loro disco di duetti prese il titolo da un nomignolo che si erano guadagnati sul campo: Tom & Jerry. La fortuna è girata male per Jerry. Due settimane prima che Pavarotti morisse con funerali di stato, il disgraziato si è tirato una palla nel cervello, come in un romanzo naturalista.

Il terzo tenore non era tenore con la voce ma coi libri, fra i più splendidi libri che, per amor di libro e di bellezza, siano stati realizzati in cinquant’anni in Italia. Subito dopo Ferragosto è scomparso, per cancro, Enzo Crea, il leggendario editore dell’Elefante. Libri di storia dell’arte, della tipografia, della poesia dagli antichi a Kavafis. Difficile immaginarlo morto, un uomo che aveva fatto un’arte del vivere con gusto e splendore di vita. Gli si doveva perdonare un innocuo snobismo per cui se diceva di avere incontrato in via Veneto Margaret, intendeva la un tempo celebre principessa inglese, o se narrava di aver trascorso una settimana in villa con Peter, intendeva magari Peter Ustinov. Ma erano come innocue piroette. Di Crea bisognerebbe che uno degli scrittori che lo conobbero ricostituisse la vita. Ma in fondo la sua storia è tutta nel catalogo di una casa editrice che, qui in Italia, stona. Qualche mese fa (non ero in casa) fece una lunga telefonata e tenne quasi un’ora all’apparecchio mia moglie, dicendo che voleva leggerle una novella di Bufalino. La lesse difatti. Leggere bene, declamando ampiamente, anche in romanesco, era una sua vantata specialità. Mi parve una delle sue stranezze, ora so che fu il suo modo di dirci addio.

Fonte: www2.unipr.it/~pieri/tre_tenori.htm

Microfoni all´Arena di Verona

Si discute molto, in questi giorni, sulla proposta di usare l´amplificazione e i microfoni nelle recite areniane.
Pubblico un intervento della mia cara amica Lucia Mazzaria, che ne parla con la sua consueta schiettezza.

Ma insomma….ma ci stiamo tutti rincitrullendo o che??
Vero che nel panoramico casino mondiale l’argomento è sicuramente irrilevante, ma siccome noi parliamo di musica lo affrontiamo.
Corriere della sera martedì 10 novembre 2009
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Microfoni all’Arena, la lirica si divide

Il fatto che stiano tecnologizzando ( si dice così???) tutto mi sembra chiaro, fra poco faremo la pipì via mail, ma che le vecchie glorie del teatro siano le prime a rinnegare il loro passato questa poi non me l’aspettavo. Domingo dice "Sì sì. facciamolo, così facciamo meno fatica" ( e parla al presente perchè è ancora convinto di essere un cantante lirico e non un parlante…con tutto il rispetto chiaramente), Zeffirelli addirittura minaccia che se non gli mettono i microfonini lui all’ Arena non ci gioca più…e batte i piedini santi e manda la sua troupe svizzero tedesca, affiancata a quella italiana solo per far finta di aver amor di patria, a fare i sopralluoghi. Il sovrintendente pinco pallo di turno tale Girondini aggira il problema dicendo che saranno cauti. I cantanti…pochi ..dicono ma io ho studiato per cantare senza microfono… e qui la baraonda.
Ma il buon Domingo quando saliva la vetta chiedeva i microfoni?? e Zeffirelli li avrebbe proposti alla Callas…si sarebbe beccato un mi bemolle nell’orecchio!
Perchè la vecchie glorie invece di fare le bizze da star di quarta categoria non si mettono a fare cose costruttive invece di voler a tutti costi cambiare quel qualcosa che non deve essere cambiato, perchè non insegnano tutti i trucchi del mestiere ai giovani in modo che quest’arte possa andare avanti senza sofisticazioni e quindi che , nella fattispecie, all’ Arena tornino a cantare le voci vere come quelle di un tempo? Perchè all’ Arena si ostinano a chiamare dei direttori d’orchestra che fanno rumore e non musica?

Probabilmente perchè anche i più scarsi abbiano la possibilità di dire che hanno cantato li dentro e quindi fra poco avremo una serie di fighi belli fotomodelli, privi di qualsiasi talento e voce, microfonati ma parlanti ugualmente, a sostenere i ruoli più disparati e complessi.

Quindi i vecchi ci insegnano a non studiare più ma ad affidarsi alle amorevoli cure di un creatore di look e di un buon maestro di ginnastica per affinare il fisico…..
Io apro una palestra e un beauty center!

Adios….

Lucia Mazzaria