
Foto ©Ansgar Klostermann
Da qualche anno è diventata per me una piacevole abitudine fare un paio di visite alle manifestazioni del Rheingau Musik Festival, una fra le rassegne estive tedesche più ricche e qualitativamente elevate, anche se non conosciutissima al di fuori della Germania perché poco frequentata dalla stampa internazionale, fondata nel 1987, che in sette settimane propone circa 150 serate sinfoniche, corali e cameristiche spazianti dalla classica sino al Kabarett e al jazz, con la presenza, in questa edizione, di nomi come Daniel Barenboim, Anne-Sophie Mutter, Julia Fischer, Lang Lang, Bruce Liu, Alain Altinoglu, Kian Soltani, la Deutsche Kammerphiharmonie Bremen, Christian Tetzlaff, Jonas Kaufmann, Sophie Pacini, Daniel Hope, per citarne solo una parte. La rassegna si svolge oltre che a Wiesbaden, elegante città capitale del Land dell’ Hessen, non molto lontana da Frankfurt e celebre anche per i suoi bagni termali e lo splendido parco situato proprio in centro, nei paesi limitrofi di Eltville, Geisenheim, Ingelheim, Oestrich-Winker e Rüdesheim. A Wiesbaden i concerti si tengono nella Kurhaus, costruzione in stile art nouveau inaugurata nel 1907 con un frontale neoclassico che sormonta il colonnato più lungo d’ Europa e al cui interno, oltre a una hall sormontata da una cupola alta 21 metri e a un casinò, si trova la Friedrich-von-Thiersch-Saal, stupendo spazio dall’ acustica davvero favolosa di cui qui sotto potete vedere una foto.

La Friedrich-von-Thiersch-Saal della Kurhaus Wiesbaden. Foto ©Mozart2006
Per il primo dei miei due viaggi di quest’ anno a Wiesbaden ho scelto il concerto della Tonhalle-Orchester Zürich, una tra le più antiche orchestre svizzere che nel corso dei suoi 156 anni di attività ha raggiunto un livello internazionale grazie al lavoro con direttori stabili come Hans Rosbaud, Rudolf Kempe, Gerd Albrecht, Christoph Eschenbach, David Zinman e Paavo Järvi che dal 2019 è l’ attuale Chefdirigent. Ma oltre all’ orchestra il motivo principale che mi ha spinto a fare il viaggio sino a Wiesbaden era la presenza solistica di Bruce Liu, il ventiseienne pianista sino-canadese trionfatore nell’ ultima edizione della International Chopin Piano Competition, forse il concorso pianistico più famoso del mondo. Ho seguito in streaming tutta l’ edizione 2021 e da allora attendevo la possibilità di ascoltare dal vivo Bruce Liu, che mi aveva impressionato per il suo talento davvero fuori del comune in una prova finale di altissimo livello complessivo per la presenza di altri giovani estremamente dotati come Alexander Gadjev, Aimi Kobayashi e la allora diciassettenne Eva Gevorgyan.
Per la sue esibizione a Wiesbaden il giovane virtuoso ha scelto il Primo Concerto di Chopin, pezzo che gli aveva garantito la vittoria a Varsavia dopo la quale la Deutsche Grammophon gli ha fatto firmare un contratto discografico in esclusiva. Come ho scritto in diverse occasioni, i giovani pianisti di oggi possiedono una preparazione tecnica di prim’ ordine, assolutamente necessaria per emergere in un’ epoca nella quale il livello medio si è alzato di parecchio e Bruce Liu non fa eccezione a questa regola. L’ abilità strumentale è indiscutibilmente impeccabile, con un dominio assoluto della tastiera e una notevole chiarezza e pulizia di articolazione in tutta la gamma. Ma quello che mi ha impressionato più favorevolmente nel pianismo di questo artista è il suo notevole senso del fraseggio e della concezione musicale d’ insieme, veramente rimarchevole in uno strumentista così giovane. Bruce Liu esegue il Concerto chopiniano con la naturalezza di chi ha una grande affinità con questa musica e riesce a trovare di puro istinto le soluzioni interpretative più logiche ed efficaci, in un tono di fraseggio e di scelta degli equilibri sonori che l’ ascoltatore riconosce immediatamente come “giusto” e una varietà di attacco dei tasti resa possibile da una tecnica dinamica davvero di altissimo livello. Uno Chopin del tutto privo di sentimentalismi gratuiti, reso con un senso del tempo “rubato” di altissima classe, ricami squisiti nelle mezze tinte e una tornitura delle linee melodiche di rara finezza ed eloquenza, in una esecuzione che mi ha confermato la classe assolutamente fuori dal comune di questo giovane talento.

Foto ©Ansgar Klostermann
Per quanto riguarda la parte orchestrale della serata, la Tonhalle-Orchester mi è sembrata possedere tutte le qualità di una formazione sinfonica di rango internazionale. Il suono è compatto e di timbro pregevole, con una sezione archi davvero ottima per precisione di cavata e qualità timbrica, pienamente messe in mostra in un’ elettrica e virtuosistica lettura dell’ Ouverture da Die verkaufte Braut di Smetana. Nella seconda parte, Paavo Järvi ha guidato l’ orchestra in una eccellente esecuzione della Prima Sinfonia di Brahms. Il sessantenne direttore estone, figlio di una leggenda del podio come Neeme Jarvi e arrivato a Zürich dopo i suoi incarichi stabili a Frankfurt e a Parigi, è da anni invitato regolarmente da tutte le massime orchestre mondiali e apprezzato per il suo stile esecutivo asciutto, sobrio e antiretorico che, soprattutto nel grande repertorio sinfonico tedesco, si traduce in interpretazioni di grande finezza. Nella Prima Sinfonia in do minore op. 68 il maestro nativo di Tallinn ha impostato la sua interpretazione su un serrato, severo splendore orchestrale a partire dalla grandiosa introduzione appoggiata a un pedale di tonica ossessivamente reiterato nel timpano, rafforzato dal controfagotto e dai contrabbassi su cui si distende negli archi un motivo ascensionale da cui verrà in seguito ricavato parte del materiale tematico su cui è impostato l’ Allegro, delineando un conflitto che giunge al climax nello sviluppo centrale senza però trovare soluzione, malgrado la luminosa chiusa in modo maggiore. Nei due tempi centrali, Paavo Järvi ha messo molto bene in evidenza l’ intenso lirismo dell’ Andante sostenuto impreziosito dagli assoli del Konzertmeister Andreas Janke e l’ arcadica atmosfera, quasi di tono pastorale, del terzo movimento. Nel Finale, ammirevole e gestito con grande intelligenza è sembrato il trapasso dai toni cupi, densi di gestì icastici e calibratissimi dell’ Adagio introduttivo in cui sul sostegno elementare di un tetracordo discendente degli archi gravi i violini innestano un motto che dissimula il profilo del primo tema, occultato da tonalità minore e ritmo lento, graduato poi con grande precisione sino all’ affermarsi di quello che per me resta il più bel motivo di tutta la produzione brahmsiana, irresistibile nel suo fascino di intensa cantabilità, intonato dai violini sulla quarta corda come un inno di maestosa imponenza splendidamente realizzata dal magnifico legato degli archi della Tonhalle-Orchester. Con grande lucidità e coerenza interpretativa, la bacchetta di Paavo Järvi ha guidato l’ evolversi del discorso sinfonico sino alla sfolgorante affermazione del Corale, qui molto ben evidenziata dal brusco e sottolineato rallentando del ritmo, che chiude la partitura in un tono di maestosa imponenza. Una conclusione dopo la quale i lunghi e intensissimi applausi rivolti all’ orchestra e al suo direttore hanno ribadito il successo di una serata che valeva davvero il viaggio.
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